da "AURORA" n° 26 (Maggio - Giugno 1995)

ECONOMIA E SOCIETÀ

Milton Friedman:
il Mercato «soprattutto»

Giovanni Mariani

«Uno spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del Comunismo ...», così scrivevano Marx ed Engels nel famoso "Manifesto del partito comunista". Oggi questo spettro non spaventa più nessuno (al pari del bonario fantasma di Canterville). Esso è stato rapidamente sostituito dal «neoliberismo» che, a nostro parere, è infinitamente più pericoloso, in specie se si tiene conto della totale assenza di ipotesi economiche antagoniste che non siano in qualche modo ispirate alle logore teorie tecnocratiche di stampo galbraithano che, in Italia, hanno ispirato il più deteriore degli assistenzialismi.
Recentemente la minaccia rappresentata dal neoliberismo è stata, sottolineata dai 70 Vescovi latino-americani che, con coraggio e determinazione, hanno rivolto, alle potenze economiche mondiali, una «preghiera» affinché introducano nel Libero Mercato elementi di equità.
A fronte della totale indifferenza dei «sovrani» del capitalismo ecumenico, la protesta dei Vescovi sudamericani non si è limitata alle «preghiere», visto che essi hanno concertato e pubblicato un documento particolarmente scottante: un vero e proprio j'accuse, nel quale si denuncia con essenziale chiarezza, senza mezzi termini, il fallimento catastrofico delle teorie neoliberiste in America Latina. Fallimento economico, viene sottolineato, che ha provocato un drammatico aumento della disoccupazione, quindi della povertà, rendendo ancora più terribili le già precarie condizioni di milioni di uomini.
È bene quindi ribadire che al momento, anche nel nostro Paese, la minaccia più grave è da individuarsi nell'offensiva liberista che da destra -con Forza Italia e Alleanza Nazionale-, quanto da sinistra -con Massimo D'Alema che enfatizza la «civiltà» di Mercato e propugna raggelanti «rivoluzioni liberali»- avanza senza incontrare ostacoli o, quantomeno, avversari che ne possano in qualche modo arginare la dirompente pericolosità. Con ciò vorremmo scoraggiare, fin d'ora, quanti a sinistra festeggiano la vittoriosa «battaglia d'arresto» delle regionali, ricordando loro che la volubilità del corpo elettorale può trasformare i vincitori di oggi negli sconfitti di domani. E che, comunque, un Centrosinistra propenso al consociativismo non è in grado di introdurre elementi regolatori nelle dinamiche economiche. Del resto l'attuale Sinistra divisa tra neofiti liberali e nostalgici comunisti non può offrire nessuna garanzia alle masse popolari a patto che non si intenda cooptare l'Ulivo di Prodi all'interno della Tradizione socialista, ipotesi che ci sembra per lo meno azzardata.
Ma al di là delle giravolte dei diversi soggetti politici e del loro rapido uniformalizzarsi programmatico, viene spontaneo domandarsi cosa intendano per neoliberismo e a quali teorie e padri spirituali i loro programmi e le loro azioni si ispirino.
Non si può parlare di neoliberismo tralasciando Milton Friedman, ossia il principale esponente della scuola monetarista USA, premio Nobel per l'Economia nel '78, già consulente della Giunta militare cilena del generale Pinochet, uomo di punta dell'amministrazione Reagan in materia economica, nonché «libero ispiratore» della politica thatcheriana, teorico delle dinamiche economiche antipopolari e reazionarie che trovarono applicazione negli anni Ottanta.
In una recente, e a dir poco agghiacciante, intervista Friedman non esita a sostenere «I ricchi si arricchiscono e i poveri si impoveriscono? Questa è la regola delle società tecnologiche, dove chi ha molto "sapere" fa i soldi e chi non è specializzato fa la fame, lo vedrete anche in Italia ...».
È inutile sottolineare quando, per fare un esempio, l'apparato politico-aziendale forza-italiota si sia ispirato a queste nefaste teorie e quale sia il ruolo che nel Polo di destra svolgono economisti come l'ex-ministro degli Esteri Antonio Martino, supportati nelle loro elaborazioni da uomini di livello del Pentagono, esperti in Colpi di Stato e tecniche della disinformazione di massa, come il «politologo» Luttwak, tristemente noto per la collaborazione operativa e tecnica col golpista Pinochet.
Ed è bene ricordare che l'ex-ministro Martino, eminenza grigia in materia economica di Forza Italia, è stato allievo proprio di Friedman e che Marco Giacinto Pannella, aedo dei «diritti civili» ha più volte citato Milton Friedman in termini apologetici e, dulcis in fundo, l'ex-ministro del Bilancio il leghista Giancarlo Pagliarini che, in tempi di antiberlusconismo militante, non esita ad invocare Friedman e le sue teorie.
I punti cardine della filosofia economica del premio Nobel statunitense sono rimasti pressoché inalterati dal '77, vale a dire sono tuttora ancorati a quella teoria delle «Rinascita economica» suggerita da Friedman alla signora Margaret Thatcher. Secondo Friedman l'asse portante della ristrutturazione economica neoliberista consiste nel ridurre l'intervento sociale e nello stesso tempo estromettere lo Stato da qualsiasi attività economica. In sostanza, lo Stato deve limitarsi ad assicurare la Difesa, l'ordine pubblico, il rispetto delle leggi, lasciando all'iniziativa privata tutte le attività economiche. Per raggiungere questo obiettivo Friedman suggerisce di dividere il progetto di rinascita economica in due distinte fasi; la prima consiste in un deciso intervento per ridurre il tasso di inflazione corrente, teorizzando due diverse soluzioni:
1) indicizzazione del sistema fiscale, finalizzata ad impedire, o almeno arginare, qualsiasi manovra governativa tesa a strumentalizzare l'inflazione allo scopo di trarne autofinanziamento (è opportuno sottolineare la vaghezza di questo concetto, per altro privo di supporti pratici);
2) ridurre le aliquote d'imposta sulla totalità del reddito ottenuto senza esenzioni fiscali di sorta (anche in questo caso, Friedman, non specifica in base a quale criterio le aliquote d'imposta vadano ridotte, e in particolare se questo metodo vada concepito in termini globali e uniformi; quindi abbassando le aliquote nelle medesime percentuali o piuttosto fissando tabelle riduttive che tengano conto delle singole situazioni e delle esigenze specifiche);
3) tagliare la spesa pubblica attraverso una riduzione dei finanziamenti agli Enti Locali. Friedman, in proposito suggerisce di operare un taglio del 10% annuo all'interno di ogni segmento produttivo e non, dello Stato, al fine di scoraggiare l'inefficienza e gli sprechi della pubblica amministrazione. Tracciando in questo caso un progetto pratico di riduzione assai bizzarro: «Ogni ufficio dovrà avere l'obbligo statutario di effettuare riduzioni un anno dopo l'altro. A me sembra che il solo modo di ridurre le spese che sia praticabile è quello di dire che quest'anno ogni ufficio, ogni dipartimento deve operare una riduzione del 10%, l'anno prossimo di un altro 10%. E solo allora si potranno prendere in considerazione casi particolari, ed ogni dipartimento sarà in lotta con tutti gli altri, per il cambiamento in questo stanziamento totale ...».
Secondo il prof. Friedman, l'allogazione delle risorse non deve tener conto delle esigenze reali dei vari settori (già questo, di per sé, rappresenta un principio vicino a quell'«economia di piano» che il Nostro Luminare vorrebbe, a parole, disintegrare). L'irrealizzabilità di tale progetto è ancora più evidente se si arriva a teorizzare una lotta intestina tra apparati dello Stato allo scopo di appropriarsi, l'uno a scapito dell'altro, delle risorse disponibili. Inutile qui sottolineare che nella giungla degli organismi burocratici ove primeggiano gli incapaci e i meno competenti (per non dire i mascalzoni) collegati alle mafie partitocratiche, l'applicazione di questo principio si esaurirebbe in una meschina lotta al coltello fra i vari apparati (dalle aziende più grosse agli istituti di ricerca) per appropriarsi delle risorse; una lotta che, solo nella migliore delle ipotesi, troverebbe lontana parentela con la legalità.
Ma anche ammettendo, con una spropositata dose di ottimismo, che la prima fase del riassetto economico neoliberista possa realizzarsi in tempi brevi (ciò significherebbe ridurre il tasso inflazionistisco al di sotto dell'1%, che è tutto dire!), appare per lo meno improbabile che Friedman riesca a realizzare la seconda parte delle sue teorie. Il «piano di rinascita nazionale» consiste, infatti, nella messa in opera, o meglio nell'applicazione pratica del sogno liberista: ovvero il decentramento del Governo e l'estinzione dello Stato sociale!
Per raggiungere quest'obiettivo Friedman punta ad una sbrigativa privatizzazione delle Aziende di Stato; egli è particolarmente favorevole alla dismissione «in blocco» di interi segmenti produttivi statali quali: siderurgia, meccanica, trasporti, energia, sanità e, dulcis in fundo, previdenza sociale. Suggerisce, almeno inizialmente, la vendita all'asta, poi, deluso dalle vicende di un'azienda britannica privatizzata con questo metodo -che lo Stato fu costretto a riacquistare in condizioni fallimentari- ne diffida perché, a suo dire, «riporterebbe davanti alla porta quello che era stato gettato dalla finestra», e punta sull'azionariato popolare e sulla donazione, capaci, egli sostiene «di scacciare una volta per tutte l'asfissiante presenza dello Stato». Anche questa ricetta appare quantomeno demagogica, e per due ragioni:
1) la vendita o, ancor peggio, la donazione risulta ipotesi ardua da realizzare. Né il prof. Friedman accenna alle metodologie con le quali raggiungere lo scopo;
2) ammesso e non concesso che tale progetto si avveri persiste un dubbio di fondo; in quale misura la partecipazione attiva dei cittadini alla gestione dell'economia nazionale si può realizzare attraverso il possesso di piccole, o meglio microscopiche partecipazioni azionarie? A queste obiezioni avanzate da fior di economisti, Friedman risponde asserendo che basterebbe allargare il campo delle dismissioni all'industria elettrica, alla televisione di Stato, fino a comprendere ogni residua Azienda Pubblica (azzardando l'ipotesi di privatizzare persino i Vigili del Fuoco), per istituire, con il ricavato, un fondo comune col quale assegnare quote di queste imprese da attribuire, in seguito, a ciascuno dei cittadini sottoscrittori, aumentando il numero delle azioni. Un progetto che lui stesso definisce «socialisteggiante» che, però, è immediatamente smascherato quando viene integrato: con la proposta del libero scambio azionario, ossia, dando praticamente vita ad un mercato globale delle azioni di Stato. Inutile, ci pare, qui rimarcare che con quest'assetto pochi gruppi transnazionali, particolarmente «famelici», riuscirebbero, in breve tempo a controllare, con modica spesa, l'economia nazionale, dando vita ai cosiddetti «noccioli duri» che, in una situazione di estrema polverizzazione del capitale sociale, sarebbe agevole formare.
Senza contare che tale tipo di «mercato» incoraggerebbe di fatto la più deteriore speculazione improduttiva, allontanando l'economia nazionale dell'economia reale e quindi dai fattori di produzione, a tutto vantaggio di affaristi e speculatori.
Ma la malafede del sodale di Pinochet va ben oltre quando propone di dotare le Aziende Pubbliche privatizzate di un «fondo comune» del quale il Parlamento sarebbe garante. Una elargizione a fondo perduto, della durata di un biennio, per porla in grado di competere nel libero mercato. A questo proposito, il prof. Friedman dovrebbe spiegarci il perché si dovrebbe tagliare ogni forma di assistenza economica alle aziende di Stato -che gravano sul debito pubblico- per poi assistere, con lo stesso metodo, e con più cospicui esborsi, le aziende private acquisitrici. Perché mai la collettività dovrebbe finanziare le aziende privatizzate? Non è questa una forma di assistenzialismo e di quello peggiore? Non è qualcosa che già ben conosciamo, visto che lo Stato ha -per ricordare uno degli innumerevoli casi- finanziato con 4000 miliardi la costruzione dello stabilimento FIAT di Melfi? È forse questo il «nuovo corso economico» del quale favoleggia l'anarco-liberista Friedman? La collettività dovrebbe regalare i propri «gioielli», come nel caso della "Nuova Pignone" e della "AEM" a multinazionali straniere agevolate dalla debolezza della Lira ottenendo in cambio pagamenti in tempi lunghissimi e con l'aggravante di dover finanziare per almeno due anni i propri debitori, per, come sostiene Friedman, «metterli in condizione di camminare da soli»! 
Non è difficile immaginare da dove uno Stato indebitato come il nostro dovrebbe attingere le risorse per finanziare questa operazione: imponendo nuove tasse sui beni di consumo primari e annullando ogni possibilità di ripresa all'economia nazionale con l'aumento di una già insopportabile pressione fiscale.
Le teorie del prof. Friedman (per motivi di spazio non ci siamo soffermati ad analizzare la teoria della riduzione dei trasferimenti monetari e l'imposta alla rovescia sul reddito) hanno mostrato tutti i loro limiti e sono state via via accantonate anche in tempi di neoliberismo trionfante. Anche se in Italia egli può ancora contare su non pochi adepti.
Friedman, affermava a suo tempo (1976) in una serie di interviste rilasciate ad autorevoli quotidiani USA che gli Stati Uniti, colpiti in quel periodo da una fase inflattiva pari al 6% annuo, avrebbero comodamente raggiunto un tasso zero nel breve volgere di quattro/cinque anni, riducendo gradualmente il tasso dell'uno per cento all'anno (non ricorda qualcosa?). Questi risultati, nonostante la buona volontà dell'amministrazione Reagan e l'impegno personale di Friedman, consigliere economico dello stesso presidente, non furono mai raggiunti. Le sue ricette ebbero solo la valenza di gonfiare a dismisura un debito pubblico che aveva già raggiunto cifre stratosferiche.

Le stesse ipotesi economiche applicate in Inghilterra da Margaret Thatcher -che ebbe a disposizione tempi lunghi per raggiungere i risultati pianificati personalmente da Friedman- che avrebbero dovuto risollevare le sorti economiche del Regno Unito (ancora oggi è fuori dallo SME) si rivelarono fallaci. Ed il solo risultato visibile fu un vorticoso aumento della disoccupazione e l'allargamento delle sacche di povertà. Il Premio Nobel statunitense era infatti certo di ridurre la spesa pubblica dal 60 al 50% del reddito nazionale nel volgere di tre anni. Alla prova dei fatti questi tempi si dilatarono enormemente e il decennale potere della Lady di Ferro non ha modificato sostanzialmente la deficitaria situazione economica, nonostante i grandi sacrifici imposti alle masse popolari.
Riguardo al Cile, che Friedman esalta con toni trionfalistici, è bene sottolineare che la bacchetta magica del Mago di Brooklyn non ha comunque permesso all'economia cilena di raggiungere livelli «elvetici». Si può affermare che, nonostante le molte occasione avute, Friedman e le legioni di Chicago Boys non sono riusciti a dimostrare la bontà del sogno liberista che da decenni vanno predicando.
In buona sostanza la critica all'anarco-liberismo e ai suoi epigoni del Polo di centrodestra in Italia, non è né ottusa, né faziosa. Se l'applicazione di tali teorie avesse sortito un reale miglioramento delle condizioni delle società in cui è stata applicata non avremmo esitato ad ammetterlo. Questo lo affermiamo, ben sapendo quanto sia indigesta la teoria di Friedman dal punto di vista «ideologico» (: quando individua quali nemici storici lo Stato, il Socialismo, l'indipendenza economica nazionale) ma, soprattutto, da quello «morale», accertato che a parere del Premio Nobel «gli evasori fiscali in Italia rappresentano la parte sana del Paese». Perché «lavoro nero, mercato nero ed evasione fiscale» -piaghe storiche del nostro Mezzogiorno- «rappresentano un raro esempio di libero mercato». A questo punto non ci pare azzardato supporre che Al Capone rappresenti per Friedman il vero capostipite dei Chicago Boys.
In ultima analisi lo «stregone» non è stato capace di realizzare uno solo dei suoi teoremi, rivelandosi agli occhi di chi ha gli strumenti per capire le sue teorie uno dei tanti demagoghi che la «modernità» statunitense ad intervalli irregolari produce.
Ciò nonostante i suoi seguaci di centrodestra continuano ad intravedere in quest'uomo una sorta di «Messia», propagandandolo come tale alla grande massa degli italiani, che ignorano le sue teorie e i danni da esse provocati. È bene, quindi, che la Sinistra Nazionale evidenzi in tutta la sua portata il pericolo rappresentato dalla destra di Berlusconi & Fini che si configura come qualcosa di ben peggiore dell'assistenzialismo democristiano sopportato dalla collettività nazionale in questi cinquant'anni. È necessario capire, una volta per tutte, che la battaglia antiliberista deve essere combattuta con decisione e, soprattutto, non da soli, in quanto un'eventuale (e oggi assai probabile sconfitta) condannerebbe definitivamente lo Stato sociale e distruggerebbe anche quel ceto medio, in parte succube della demagogia delle destre che, secondo Milton Friedman, è destinato inevitabilmente a soccombere.

Giovanni Mariani

 

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