da "AURORA" n° 26 (Maggio - Giugno 1995)

L'INTERVISTA

 

Socializzazione delle Imprese

nella Repubblica Sociale Italiana

intervista col prof. Manlio Sargenti a cura di Giovanni Mariani

 


 

Prima di rispondere alle domande che mi sono state poste mi sembra necessaria una premessa. Quello che potrò dire rifletterà in larga misura le mie idee personali, o meglio il modo in cui io personalmente vidi e vissi gli avvenimenti e gli atteggiamenti politici nel periodo della RSI. Non era facile allora, e tanto meno è facile oggi, verificare fino a qual punto quella prospettiva rispondesse a vedute ed atteggiamenti più generali. La vita politica, nella RSI, fu per necessità estremamente frammentata. Mancando una capitale, un centro in cui tutte le forze politiche potessero raccogliersi, era difficile definire se e quanto atteggiamenti ed iniziative fossero veramente espressione di un'opinione comune. Il centro politico della Repubblica era sul lago di Garda, distribuito lungo varie decine di chilometri, da Fasano a Salò a Gargnano. Per raggiungerlo dai luoghi in cui erano distribuiti i Ministeri e gli altri centri decisionali si doveva percorrere qualche centinaio di chilometri, in condizioni rese sempre più difficili dall'offensiva aerea nemica. Anche le comunicazioni telefoniche erano precarie. I contatti erano, perciò, saltuari ed episodici. Ma non solo queste difficoltà materiali ostacolavano il formarsi di un indirizzo uniforme; il trauma determinato dal crollo del 25 luglio e dell'8 settembre aveva determinato una sorta di esplosione dell'edificio ideologico, almeno apparentemente uniforme, del vecchio Fascismo. Il Fascismo repubblicano nasceva in una costellazione di opinioni e di atteggiamenti assai diversi. Solo un attento esame della stampa dell'epoca, e più ancora dei documenti rimasti, può consentire di farsi un'idea della diffusione e del carattere più o meno ufficiale di certe idee e di certi atteggiamenti. Perciò, ripeto; le mie risposte vanno interpretate non come espressione di vedute ufficiali, ma di idee personali, o, al più, di idee che ispiravano il gruppo di uomini (quasi tutti giovani) che si era formato e si muoveva nell'ambito del Ministero dell'Economia Corporativa retto da Angelo Tarchi. Solo in parte e con molta cautela possono essere intese come idee e modi di vedere i problemi nella RSI. Ciò premesso, vengo ai quesiti che mi sono stati proposti.

 


 

«Come veniva considerata globalmente l'esperienza corporativa alla luce della RSI?»

Da tempo l'esperimento corporativo, che aveva ormai un decennio di vita, veniva considerato con occhio critico. In primo luogo non piaceva molto lo stesso termine «corporativo», che si prestava a facili e spesso voluti fraintendimenti, per il richiamo semantico al ben diverso fenomeno delle corporazioni medievali, nonché a certi aspetti del pensiero cattolico e, non ultimo, alla denominazione delle corporazioni sindacali del primo sindacalismo fascista.
Ma soprattutto si era portati a constatare che l'esperimento del decennio 1934-43 non aveva dato i frutti sperati da quanti avevano visto nell'idea corporativa l'aspetto veramente rinnovatore del regime fascista e nel programma corporativo lo strumento per realizzare una profonda trasformazione delle strutture economiche e politiche della società e dello Stato.
Nella realtà tutto si era ridotto alla creazione di organi, le Corporazioni, destinate a disciplinare il processo economico, che avevano avuto su di esso scarsissima incidenza, ed a produrre sul terreno propriamente politico un'assemblea quale la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, di cui appariva evidente la mancanza di vera rappresentatività. Nell'analisi critica che si faceva di questo complesso di fenomeni si credeva di scorgere le cause del fallimento nel sostanziale squilibrio esistente in seno agli organi corporativi fra la rappresentanza del capitale e quelle del lavoro. Formalmente i componenti delle Corporazioni espressi dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori erano, è vero, in posizione paritetica con i rappresentanti delle organizzazioni dei datori di lavoro. Ma, mentre questi erano i reali esponenti ed interpreti delle forze e degli interessi dell'organizzazione capitalistica della economia, dall'altra parte sedevano uomini privi, per lo più, di un autentico legame rappresentativo con il mondo del lavoro e, soprattutto, privi di quella profonda conoscenza dei meccanismi e delle esigenze dell'attività produttiva che sarebbe stata necessaria per affrontare, con effettiva parità di forze, l'organizzazione e la disciplina dell'economia. Questa restava, di fatto, nelle mani di una burocrazia in gran parte dominata ed ispirata dalle forze capitalistiche.
Da queste considerazioni nacque l'idea della socializzazione, fondata sull'esigenza di immettere il lavoro, in tutte le sue espressioni, manuali, tecniche, intellettuali, nella cellula elementare della produzione, l'Impresa, perché potesse essere veramente consapevole, dall'interno e dalla base, dei problemi della gestione di un complesso produttivo e partecipe della loro soluzione. Solo con questa premessa, si pensava, il lavoro sarebbe stato in grado di partecipare effettivamente agli ulteriori sviluppi del processo decisionale sui piani sempre più elevati, di concorrere, cioè, in realtà, alla determinazione dell'indirizzo generale dell'economia e, in definitiva, dell'indirizzo politico generale. 

«Come veniva giudicata in particolar modo la corporazione proprietaria e integrale teorizzata da Ugo Spirito a Ferrara?»

Non attuale e neppure interessante. A parte che sin dall'epoca in cui era stata proposta quell'idea era stata guardata con sospetto, come di impronta collettivista e comunista, sicché sarebbe stato incauto riproporla, essa non si accordava con l'ispirazione che era alla base del progetto di socializzazione. Ugo Spirito guardava alla «proprietà» come presupposto indispensabile per la partecipazione alla vita dell'impresa. Nello spirito della socializzazione non interessava la proprietà, ma la partecipazione al processo decisionale. Non importava che il lavoratore divenisse proprietario dei beni aziendali, ma che potesse concorrere a gestire l'impresa. Una concezione che, in sostanza, svalutava il momento «proprietà» e valorizzava l'elemento «lavoro» in sé e per sé. Si poteva conservare la proprietà privata dei mezzi di produzione, ma la si privava della sua onnipotenza nella determinazione dell'indirizzo produttivo e, quindi, in definitiva, del processo economico e del potere politico, ponendole accanto i rappresentanti del lavoro come compartecipi del processo decisionale. 

«La socializzazione voleva essere un superamento del corporativismo, in cosa e perché?»

Non tanto un superamento quanto la premessa per la sua realizzazione.
La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'impresa doveva rendere possibile l'effettiva e consapevole loro partecipazione alla disciplina del processo produttivo in tutte le sue fasi ed a tutti i livelli. Ad attuare questa disciplina erano destinati gli organi corporativi, alla periferia ed al centro del sistema.
Il Ministero dell'Economia, dopo avere elaborato nei primi mesi del 1944 la legge sulla socializzazione e nei mesi successivi la nuova legge sull'ordinamento sindacale, aveva predisposto un disegno di legge per l'istituzione dei nuovi organi corporativi, che, per il precipitare degli eventi bellici, rimase sulla carta. 

«Cosa si poteva salvare dell'esperienza corporativa?»

Se ne dovevano riaffermare i principî ispiratori, che non erano stati mai effettivamente attuali. Il principio della programmazione del processo economico, di una programmazione, però, non predisposta dall'alto, da organismi burocratici, ma scaturente dal basso, attraverso la cosciente e responsabile collaborazione di tutti i fattori dell'attività produttiva. A questo scopo dovevano servire, appunto, gli organi corporativi, concepiti come largamente rappresentativi delle forze della produzione e dotati di ampi poteri decisionali per la formazione ed il controllo dell'attuazione dei piani economici di settore e del piano economico complessivo nazionale.
Non va dimenticato, poi, che in questa prospettiva la legge del febbraio 1944 sulla socializzazione delle imprese prevedeva anche il passaggio in proprietà dello Stato delle imprese definite «imprese-chiave» per l'economia (le imprese elettriche, in prima linea). Anche questo processo di nazionalizzazione era visto in una prospettiva originale, in quanto nelle imprese che sarebbero state acquisite dallo Stato, attraverso un organismo chiamato "Istituto di Gestione e Finanziamento", che avrebbe ereditato le funzioni sia dell'IRI sia dell'IMI, il lavoro, in tutte le sue espressioni, avrebbe avuto un peso assoluto: il consiglio di gestione di queste imprese sarebbe stato composto, infatti, dai soli rappresentanti dei lavoratori, mancando la contropartita degli azionisti privati. Anche per questa via si intendeva sottrarre la gestione delle imprese nazionalizzate al rischio della burocratizzazione ed assicurarne la piena aderenza al principio della partecipazione dei lavoratori. 

«Le note storiche riguardanti l'itinerario politico del MSI fino ai giorni nostri evidenziano una primissima ed effimera affermazione dei socializzatori. Attraverso quale meccanismo si giunse a rispolverare il corporativismo ed a mettere in cantina il progetto socializzatore?»

Non è esatto dire che nel MSI si sia giunti a «rispolverare il corporativismo ed a mettere in cantina il progetto socializzatore». Come ho chiarito sopra, non esisteva un contrasto tra il progetto di socializzazione ed il disegno di ordinamento corporativo, anzi il primo era concepito come la necessaria premessa per la realizzazione del secondo.
Non è neppure esatto che il MSI abbia «messo in cantina» la socializzazione. Per la verità di questa si è sempre parlato, sia pure senza molta convinzione e senza una precisa informazione, ed i parlamentari del MSI hanno presentato a più riprese diversi disegni di legge per realizzarla, disegni di legge che, naturalmente, data la distribuzione delle forze parlamentari fino al 1994, non sono mai stati presi in considerazione.
Il problema va posto, a mio avviso, in termini diversi, quelli della condotta politica generale del MSI, della strategia che l'ha ispirata, o meglio della mancanza di una vera strategia, collocando il Movimento in una generica destra, concludendo accordi con forze chiaramente conservatrici, ed in evidente, naturale contrasto con la tradizione della RSI, come a suo tempo, i monarchici di Lauro e di Covelli, prestandosi a manovre di governo e di sottogoverno a sostegno della classe dirigente democristiana; in tutto questo il MSI è venuto meno a quella che era la sua ragion d'essere ed avrebbe dovuto essere il filo conduttore della sua azione.
Il punto d'arrivo di questa tattica è rappresentato dall'aperta sconfessione del Fascismo da parte di Fini e dei suoi uomini. E si deve amaramente constatare che sul terreno contingente i risultati elettorali hanno dato e sembrano dare ragione al loro atteggiamento, cioè, che, in definitiva, buona parte del popolo italiano è d'accordo con loro.

«A fronte delle condizioni oggettive di quel tempo quale poteva essere la strada più idonea per consentire al MSI di imporre il verbo socializzatore?»

È difficile rispondere a questa domanda, perché non si può sapere quali risultati si sarebbero ottenuti «se» si fosse seguita una via diversa da quella che, in realtà, il MSI ha seguito.
Probabilmente si sarebbe dovuto rinunciare ai risultati immediati, a portare in Parlamento e negli organi deliberativi locali i pochi deputati, senatori e consiglieri, che rimanevano isolati e privi di ogni peso politico. Si sarebbe dovuto scegliere la via del lavoro di lungo periodo, dell'assidua riaffermazione dei principî che avevano ispirato la RSI, della costante contrapposizione al sistema democratico e partitocratico, della propaganda capillare nei posti di lavoro, nelle scuole, nelle Università, della conservazione, insomma, e della continua riaffermazione del patrimonio di idee da contrapporre alla teoria ed alla prassi della democrazia parlamentare e partitica, in modo da giungere con questo patrimonio intatto al redde rationem della prima Repubblica e poterlo valorizzare agli occhi degli italiani. Una visione strategica, appunto, e non puramente tattica, come quella che è stata seguita per cinquant'anni dalla classe dirigente del MSI.
So che tale condotta sarebbe stata molto difficile e costosa; avrebbe comportato la rinuncia a tutti quei benefici pratici di cui hanno goduto per quasi cinquant'anni senatori, deputati, dirigenti del Movimento; forse avrebbe richiesto la scelta dell'azione clandestina, o per lo meno sotterranea. Ma forse, alla fine, avrebbe pagato. Il precedente storico dell'azione comunista durante il ventennio fascista poteva insegnare qualche cosa.

«Quale potrebbe essere la strada maestra della socializzazione del Terzo Millennio? In pratica Lei crede che a distanza di più di cinquant'anni il progetto socializzatore possa risultare attuale alla luce della inevitabile evoluzione del capitalismo?»

Altra domanda a cui è difficile rispondere, in quanto implica uno sguardo sul futuro. A me sembra che il problema della partecipazione di tutti i soggetti del processo produttivo, quindi anche determinazione degli indirizzi economici e politici del Paese si ponga in misura tanto più impellente in una società supercapitalista qual'è quella nella quale viviamo e che sempre più si profila all'orizzonte del Terzo Millennio, in una società in cui il capitale finanziario, estraneo, cioè, al processo produttivo, diviene sempre più accentuatamente l'arbitro delle decisioni economiche e politiche.
Non è ammissibile che decisioni vitali per l'avvenire di un popolo siano prese senza che questo vi partecipi con tutti i suoi elementi ed in tutti i momenti decisionali.
La democrazia parlamentare e partitica non assicura in nessun modo tale partecipazone. Non è con l'episodica espressione del voto nelle elezioni di organi cosiddetti rappresentativi che essa può realizzarsi. Il voto non dà al cittadino che l'illusione di influire su un processo decisionale dal quale è, in realtà, completamente estraniato e che resta affidato, apparentemente ai rappresentanti da lui eletti, effettivamente alle forze ed ai centri di potere che ne hanno determinato l'elezione e che ne condizionano l'azione, in misura tanto più accentuata e con effetti tanto più gravi, in quanto quelle forze e quei centri di potere sono sempre più marcatamente estranei agli interessi dei singoli Paesi ed espressione di interessi e di poteri sovranazionali.
Da questo punto di vista la socializzazione è non solo attuale, ma indispensabile. E le forme della sua realizzazione non possono essere che quelle che erano state progettate, ed in parte attuate, nella RSI; la partecipazione, cioè, dei cittadini in quanto lavoratori al processo decisionale, a partire dall'impresa per giungere ai più alti centri decisionali, economici e politici.
Naturalmente non si possono nutrire illusioni al riguardo. Gli uomini della plutocrazia capitalista sanno troppo bene che cosa la socializzazione significherebbe, sanno troppo bene che il giorno in cui i lavoratori entrassero nei sancta santorum dei consigli d'amministrazione il loro potere sarebbe in grave pericolo. E si opporranno con tutte le loro forze, apertamente, ma soprattutto subdolamente, perché questo avvenga. La distruzione del regime fascista, ed ora, in termini molto più modesti, la sorte toccata al MSI insegnano.
Per contrapporsi a quelle forze sarebbero necessarie, nelle masse, un'altissima coscienza sociale, una consapevolezza, uno spirito di sacrificio ed una volontà di lotta che nel clima di edonismo e di consumismo ad arte creato ed alimentato da chi vi ha un interesse, non sono economico, è ben difficile veder realizzati.
Non voglio dire, con questo, che si debba rinunciare a diffondere un'idea alla quale può essere legato un migliore avvenire. Ma questo non può essere che opera di minoranze, disposte a lavorare per il futuro, per un futuro che i singoli individui probabilmente non vedranno.

a cura di Giovanni Mariani

 

 

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