da "AURORA" n° 26 (Maggio - Giugno 1995)

LA POLEMICA

Tornare alla Costituzione

Vito Errico

Stilate un necrologio. Commemorate la buonanima della politica. Si, la politica è morta in questa terra senza più memoria né avvenire. È defunta e i segni si vedono. Si notano dalle tetre divise dei necrofori che si agitano e fibrillano. 
Guardate quanta miseria velata d'ipocrisia! Appena di là dei nostri confini infuria una guerra, ch'è soltanto un cono avventizio del grande vulcano europeo, nelle cui viscere ribolle il focolaio magmatico. L'eruzione s'avvicina e da noi che si fa? 
È Di Pietro che turba i sonni, anche Dell'Utri e tutta la marmaglia politicante che segna non l'inizio d'una nuova era bensì la fine infinita della vecchia. 
La Destra è sparita, liquefatta nel suo nullismo culturale, rappresentata da miscelatori di colla per manifesti, assurti al livello di governatori dello Stato. 
Siamo passati dal «nulla ideologico mafioso» di pasoliniana memoria alla cassazione dell'aggettivo attinente l'«onorata società». L'unica rivoluzione. E speriamo che, nel delirio che ormai li possiede, non millantino la sconfitta della mafia. 
A mancina «sunt pueri pueri, pueri puerilia tractant». Dal 1989, quando la forza della storia schiacciò il loro perfido giocattolo, non riescono più a immaginare il volto di un mondo nuovo. E quando la politica viene meno alla sua precipua funzione, che è quella di progettare diuturnamente il cammino dell'uomo, che cosa resta? 
La puerilità di Walter Veltroni, tutto dedito a sognare un avvenire kennedyano che fa da «contraltare ideologico» alla teoresi nullistica di D'Alema. 
Qual'è il «progetto»? Il «provolone» di Prodi. 
Non perché chi ha usato l'epiteto nei confronti del boiardo di Stato abbia esagerato. È che anche il frasario da lavandaie di vicolo ha guadagnato un blasone di nobiltà. E merita l'ingresso in società. 
La «qualità» di questo intruglio, che ci propinano come politica, ci fa arricciare il naso? 
E perché dovrebbe? C'è il deserto intorno a noi e ciò che si vede è miraggio. 
Dove sono gli intellettuali, quelle «guide spirituali» della Patria, chiamate a ispirare un cammino di civiltà, col quale risollevare un popolo dalle tragedie della storia? Velinari, scribacchini, grafomani. Quelli che non si sono imboscati o peggio, si sono venduti al vincitore, pubblicano fiumi d'inchiostro sul senso del nulla. 
Dove sono i giovani, quelli ch'erano le «speranze del domani»? Vizzi e buttati nelle discoteche di musica americana, avvinazzati dall'exstasy, intontiti dai decibel. Il loro protagonismo? Spiaccicarsi sui muri del sabato sera. Lapidare gente da un cavalcavia. Scannare il padre e la madre. È la cultura della morte, di quella più ignava. Chierici della turpe religione del suicidio, satrapi dell'inutilità della vita, figli di Caino. 
Ci meravigliamo? No, non facciamo più neanche quello. Perché ci siamo abituati. 
Questo è il vero veleno che pian piano ci intossica e ci uccide. 
La violenza come abitudine. Violenza sul cielo, sull'acqua, sulla terra, violenza sui bambini, violenza sui vecchi, violenza sui deboli, violenza sui malati. Violenza su sé stessi. 
Non sappiamo più cos'è l'orrore. 
D'Alema si pone questi interrogativi? D'Alema pensa alle elezioni e si consulta col «provolone». Eccolo, il destino di un popolo: andare alle urne. Per la Circoscrizione, per il Comune, per la Provincia, per la Regione. Dodici referendum e diciotto in arrivo. Per il trionfo di un «provolone».
A destra come a sinistra. 
La chiamano democrazia, cioè governo del popolo. Che vota sempre meno, che si astiene sempre di più. Un popolo che vota a metà e di quella metà, metà vince. Cioè il venticinque per cento è «più forte» del restante settantacinque. Sarebbe a dire, una minoranza governa la maggioranza. È questa, la democrazia? È questa, come la definiva George Bernard Show; è quella che sostituisce l'elezione da parte dei molti incompetenti alla nomina da parte di pochi corrotti. 
Mentre le nostre città bruciano di follia. Senso morale scannato agli angoli delle strade, donne violentate, bambini rifiutati e smaltiti, furti, saccheggi, scippi. È l'Italia kennedyana, è il «dream» di Veltroni che porta all'America. È l'Italia americana, è l'America italiana, che va come l'America americana, dove la minoranza che vota governa la maggioranza che si astiene. 
Siamo uguali. Siamo omologhi. È la realizzazione del sogno d'inizio secolo d'un popolo di straccioni che si concretizza allo spirare di questi venti lustri. 
Il nostro «destino»? «Portaerei naturale» di truppe e armi straniere. Le vedo scendere per lo Stivale, io che vivo sul Tacco. Americani e Tedeschi, Olandesi e Francesi. Scendono qui, dove il mandorlo infiora in faccia ai cieli solcati dai «boys» di $ua Maestà Britannica e di fronte al mare, navigato dal Resto del Mondo. 
E sui giornali italiani Di Pietro, Dell'Utri, Dell'Utri, Di Pietro. 
Chi ha le chiavi di casa nostra? D'Alema parla col «provolone». E il pullman gira. La folla applaude. Come sempre. Batte le mani a vittime e carnefici, ai carnefici prima di diventare vittime, alle vittime dopo essere stati carnefici. Il volano della storia gira e le mani applaudono. 
Le privatizzazioni stanno portando alle privazioni? 
La folla applaude Prodi, «privatizzatore» per antonomasia. 
Fra Cristo e Barabba, la folla sceglie sempre il peggiore. Ma oggi c'è un guaio in più: non c'è più nemmeno Cristo. Chi andrà al culmine del Golgota? Siamo in un calvario di ladroni. Solo i «ladroni», a destra e a sinistra del Golgota. Al Centro nessuno. 
O uno solo. 
L'Alto Colle si muove, si agita. È l'unico che produce «politica». Quella di sempre, d'accordo. Il «maieuta» affonda il forcipe nella crisalide della Prima Repubblica. Dalla muta s'involerà la cavolaia, tutta bianca e maculata, figlia della vecchia e decrepita Balena? Problematiche che assillano l'anima di quest'Italia americana. 
E il «modello di sviluppo»? Accettato, ammesso, gradito. Nessuna repulsione. Più nessuna discussione. Tutti liberisti, tutti liberali. Tutti liberati. 
Todos caballeros
C'è ancora qualcuno, però, che ha il coraggio di dirsi, oggi, allo spirare del ventesimo secolo, figlio del socialismo.
Quel socialismo che discuteva il possesso dei mezzi di produzione, che riteneva il lavoro ben altro che mezzo di produzione.
Quel socialismo che parlava di socializzazione.
Quella socializzazione che riconosceva dignità paritaria fra prestatore d'opera e datore di lavoro. Cioè fra operai e padroni. I quali dovevano dividere gli utili e spartire le responsabilità d'impresa. 
Fini se ne andò, liberista, liberale, liberato, a genuflettersi alle «bombette» della City.
E D'Alema? A Londra, anche lui fra i grigiori del Tower Bridge.
E nella Costituzione Italiana, quella scritta dopo le raffiche che falciarono un popolo, c'è scritto: 
«Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione delle aziende».
Bisogna fare finalmente quella legge.
Per tornare alla Costituzione.
Per tornare alla politica.

Vito Errico

 

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