da "AURORA" n° 26 (Maggio - Giugno 1995)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Strategie e scelte strategiche

Enrico Landolfi

Massimo D'Alema non può non essersi reso conto, da politico accorto qual'è ed è sempre stato, che la sua proposta al Partito Democratico della Sinistra -lanciata dalle rive del Tamigi- di darsi come scopo l'avvio e il compimento di una «rivoluzione liberale» in Italia è di tale portata da suscitare un dibattito né breve né ristretto, nonché costellato di dubbi, interrogativi, perplessità, entusiasmi, certezze. Scontri e incontri, insomma. Più scontri o più incontri? Vedremo. Al momento, il leader della Quercia incassa una ulteriore lievitazione di interesse da quei non pochi né irrilevanti settori del Paese più culturalmente e politicamente avvertiti, collocati dentro o nei paraggi del Partito o intorno alla sua stessa figura di dirigente da cui molto ci si attende. E questo interesse concerne -come del resto era prevedibile- il modello di «rivoluzione» e di «liberalismo» al quale egli ha inteso fare riferimento.
Certo, in altri tempi la locuzione «rivoluzione liberale» avrebbe immediatamente acceso in tutti il ricordo di Piero Gobetti, della sua immagine esile e spirituale. Et pour cause. Ma con i tempi che corrono ... con l'inflazione galoppante di «liberalismi» di ogni genere e specie, di «rivoluzioni» le più varie e improbabili... Si pensi che oggi sono «liberali» senza macchia (monopolistica) e senza paura (del ridicolo) non soltanto l'Azzurro Cavaliere di Arcore -il cui partito perfino un autorevolissimo e prestigioso alleato come il senatore Domenico Fisichella ha tacciato di «maccartismo»-, ma anche Gianfranco Fininvest, capo dei democratichini d'assalto del Sovrano Ordine dei Fiuggiaschi.
E che vengono accreditate come «rivoluzioni» le pur sacrosante perfomances dei magistrati di Milano e di Palermo, oltre che i risultati delle urne di marzo e di giugno dello scorso anno. Senza parlare, poi, dell'eterno esibizionista e pluri-voltagabbana Marco Giacinto Pannella, dedito non soltanto all'avvilente accattonaggio di iscritti e di soldi per i suoi 215 partiti fantasma dai nomi intercambiabili, ma all'imbroglio mascalzonesco di una pseudo «rivoluzione referendaria» posta in essere per colpire, in combutta con la peggiore destra, istituti fondamentali del movimento operaio quali il sindacato ed i partiti dei lavoratori.
Ben si comprende, quindi, come D'Alema abbia inteso l'urgente necessità di fare luce sulle proprie intenzioni; affidandosi, nella circostanza, ai fogli culturali de "l'Unità" e alla penna di un intellettuale di grande spicco come il prof. Bruno Gravagnuolo. L'occasione per l'intervento chiarificatore è stata offerta dall'iniziativa della torinese Editrice Einaudi di ripubblicare un classico del pensiero politico gobettiano, "La Rivoluzione Liberale" appunto, uscita in veste economica nella collana dei "Tascabili".
Al ritorno del Gobetti, non solo in libreria ma anche in vetrina, il «quotidiano fondato da Antonio Gramsci» ha consacrato quasi un'intera pagina, innervata su due forti contributi: quello testè segnalato del Gravagnuolo e l'altro di Giulio Einaudi. Il primo, destinato allo «svisceramento» degli aspetti, momenti ed elementi della produzione critica ed elaborativa del grande eresiarca del liberalismo contenuta in quella che è, correttamente, giudicata la sua massima opera. Il secondo, dedicato alla storia del testo dalle origini ai nostri giorni; a cominciare, cioè, dalle osservazioni rivolte al Nostro da Rodolfo Mondolfo -cui egli aveva scritto chiedendogli di ospitarlo nella "Biblioteca di studi sociali", edita in Bologna dal Cappelli, e diretta giustappunto, dal Mondolfo- in questi termini: «Per il volume si rendono necessari ritocchi ed aggiunte, al fine di evitare l'impressione di frammentarietà e discontinuità». Soggiunge l'Einaudi: «E abbiamo il miracolo: Gobetti si attiene alle richieste di Mondolfo, il libro esce ristrutturato come oggi il lettore lo ha a disposizione».
Orbene, senza nulla togliere alla valenza del pezzo dell'Einaudi, non vi è dubbio che la comunicazione dalemiana di Londra fa balzare in primo piano l'articolo di Gravagnuolo; ovvio essendo che esso è funzionale all'esigenza di far conoscere al PDS, alla sinistra in generale, alla democrazia nel suo insieme, al Paese tutto, l'esatta interpretazione da dare alla iscrizione sui vessilli del Partito Democratico della Sinistra -rossi e che hanno tutta l'intenzione di restare tali- della dizione «rivoluzione liberale». E, quindi, la linea culturale, storica, ideologica, strategica cui si ispira il PDS del dopo-Occhetto.
Noi diremo anche la nostra. Non prima, però, di esserci resi conto appieno dei binari ideali lungo i quali la segreteria pidiessina intende avviare la sua politica. Siccome, però, le spiegazioni che la Quercia ci fornisce vengono naturaliter veicolate dal Quotidiano nato con la sigla di Antonio Gramsci a noi pare utile interrogare il Direttore de "L'Ordine Nuovo", alle cui colonne la penna agile e brillante dell'ancora imberbe Piero consegnò indimenticabili critiche teatrali.
Ha così esternato il Sardo nella "Questione meridionale": «Gobetti non era un comunista e probabilmente non lo sarebbe mai diventato, ma aveva capito la posizione sociale e storica del proletariato e non riusciva più a pensare astraendo da questo elemento. Gobetti, nel lavoro comune del giornale, era stato da noi posto a contatto con un mondo vivente che aveva prima conosciuto solo attraverso le formule dei libri. La sua caratteristica più rilevante era la lealtà intellettuale e l'assenza completa di ogni vanità e piccineria di ordine inferiore: perciò non poteva non convincersi come tutta una serie di modi di vedere e di pensare tradizionali verso il proletariato erano falsi ed ingiusti. Quale conseguenza ebbero in Gobetti questi contatti con mondo proletario? Essi furono l'origine e l'impulso per una concezione che non vogliamo discutere e approfondire, una concezione che in gran parte si riattacca al sindacalismo e al modo di pensare dei sindacalisti intellettuali: i principî del liberalismo vengono in essa proiettati dall'ordine dei fenomeni individuali a quello dei fenomeni di massa. Le qualità di eccellenza e di prestigio nella vita degli individui vengono trasportate nelle classi, concepite quasi come individualità collettive. Questa concezione di solito porta, negli individui che la condividono, alla pura contemplazione e registrazione dei meriti e dei demeriti, a una posizione odiosa e melensa di arbitri tra le contese, di assegnatari dei premi e delle punizioni. Praticamente il Gobetti sfugge a questo destino. Egli si rivelò un organizzatore di cultura di straordinario valore ed ebbe in questo ultimo periodo una funzione che non deve essere né trascurata né sottovalutata dagli operai. Egli scavò una trincea oltre la quale non arretrarono quei gruppi di intellettuali più onesti e sinceri che nel 1919-'20-'21 sentirono che il proletariato come classe dirigente sarebbe stato superiore alla borghesia».
Questo rapido scorcio biografico evidenzia Piero Gobetti quale valido e venerato, utilissimo e originale interlocutore del proletariato rivoluzionario e del suo partito marxista da posizioni di liberalismo assolutamente eterodosso e, come suol dirsi, sopra le righe. Ora, con la sua comunicazione e il relativo articolo-messaggio su "l'Unità" affidato all'autorevole prosa di Gravagnuolo, Massimo D'Alema innova radicalmente sullo schema interpretativo gramsciano: va oltre Gramsci, e fa del PDS erede del PCI il partito gobettiano di massa. Piero, dunque, non più un interlocutore di lusso, un intellettualmente affascinante e creativo compagno di viaggio del partito operaio -il cui pensiero, magari, influisce in qualche modo e misura su di esso, però pur sempre all'esterno- ma addirittura è, come figura storica, il portatore di un'esaustiva egemonia culturale e politica su di un partito non più soltanto della classe operaia (Gramsci) o della classe operaia e dei suoi alleati (Togliatti), ma di tutta la Sinistra democraticamente ispirata e, probabilmente, anche di qualcosa d'altro.
Pertanto, come il PCI ha passato il testimone al PDS così, con la leadership dalemiana, Gramsci lo passa a Gobetti, facendone il grande dottrinario di riferimento. È davvero troppo ritenere che il giovane capo del partito abbia voluto, con questa operazione, recare un apporto decisivo alla definitiva semplificazione degli schieramenti politici? Ossia: mentre la Destra tende a compattarsi intorno ad un'idea forte di liberalismo ultraliberista e conservatore, egli ritiene vincente la strategia di una sinistra tesa ad aggregarsi su di un modo di concepire il liberalismo diametralmente opposto alla sua versione conservatrice. Un liberalismo per certi versi, e finalisticamente, addirittura rivoluzionario. Quello, insomma, gobettiano. Con tutte le attualizzazioni del caso, si capisce.
Qualche accenno relativo ai fondamentali del liberalismo della «rivoluzione» è indispensabile per comprendere, più o meno anticipatamente, le connotazioni di ciò che si accinge a proporsi la Quercia. Vediamo, per esempio, cosa ne dice lo stesso Gobetti: «Il problema italiano non è di autorità, ma di autonomia: l'assenza di una vita libera fu attraverso i secoli l'ostacolo fondamentale per la creazione di una classe dirigente, per il formarsi di un'attività economica moderna e di una classe tecnica progredita (lavoro qualificato, imprenditori, risparmiatori): che dovevano essere le condizioni e le premesse di una lotta politica coraggiosa, strumento infallibile per il rinnovamento e la scelta della classe governante».
Attraente anche il veloce ma succoso schizzo biografico redatto per la "Piccola Enciclopedia del socialismo e del comunismo" -che poi tanto piccola non è, trattandosi di due densissimi volumi di complessive 1500 fittissime pagine- licenziata alle stampe per i tipi della Editrice "Il Calendario del Popolo" a cura di Giulio Trevisani, nel quale è possibile cogliere il seguente spunto: «Il suo pensiero è liberale, ma il liberalismo è da lui inteso in un modo assai diverso da quello dei vecchi liberali. Liberalismo vuol dire per Gobetti uno Stato in cui le masse attivamente partecipino alla vita politica del Paese, in cui i contrasti di classe e di idee si acuiscono per dar luogo a continue sintesi, che importano trasformazione e rinnovamento. La sostanza della dottrina di Gobetti è in una critica dello Stato italiano».
E veniamo a "l'Unità" e al Gravagnuolo, il quale puntualmente congiunge il proprio speculare -e, dunque, del Partito e del suo organo di stampa- a quello del Torinese, il cui progetto viene epitomato nelle seguenti righe: «Questo: promuovere in Italia, e per davvero, lo Stato. Come? Una rivoluzione per lo Stato? Si, per uno Stato moderno, garante e coordinatore delle autonome iniziative della società civile. Nobilitato da una vera classe dirigente, innervato nell'autogoverno dei produttori. Autogoverno locale e federale, certo. Ma anche autogoverno di libere intraprese economiche associate. Dove i produttori educavano se stessi a diventar borghesi, a sprigionare competenze e spirito civico». Ecco, in solare evidenza appaiono, nella suggestione dalemiana, i concetti attinti dalla cultura gobettiana. E, soprattutto, il ruolo ad essi assegnato nel complesso gioco strategico sulla scacchiera delle alleanze. Il discorso in ordine allo Stato è fatto proprio da un partito in grado di vantare una sua spinta potente nell'impresa di abbattimento di Tangentopoli e una pulsione volta alla creazione di una Seconda Repubblica dalle connotazioni squisitamente liberal-rivoluzionarie. Il disegno di «autogoverno locale e federale», e connesse «autonome iniziative della società civile», sembra fatto apposta per favorire i migliori rapporti immaginabili con la Lega, essenziali per sconfiggere la Destra. Rapporti che l'invito ai produttori per un loro tempestivo «imborghesimento» -nel senso migliore del termine, va da sè- non può che estendere e rafforzare. E la qualità associativa e autogestionale delle «libere intraprese economiche» è tale da originare il consenso delle masse popolari cattoliche e delle avanguardie intellettuali e sindacali che ad esse fanno riferimento, in uno spirito di adesione alla dottrina sociale della Chiesa intesa nella lettura più nettamente wojtyliana. Alla luce di queste considerazioni si spiega la particolare cura posta dalla segreteria sia nella costruzione di relazioni positive con la Lega bossiana, sia nel tentativo di indurre l'intero partito Popolare ad essere componente importante di un largo e articolato blocco di centrosinistra (operazione non fallita, come da taluni si pretende, ma per tre quarti riuscita, giacché ha messo l'incauto Buttiglione in un cul di sacco, facendone un mantenuto elettorale del Cavaliere e un minoritario permanente nell'ambito del cattolicesimo politico) Ma cosa c'entrava il liberalismo di stampo gobettiano con il comunismo di Antonio Gramsci, con il gruppo de "L'Ordine Nuovo", con l'occupazione delle fabbriche, con il movimento dei Consigli Operai? Con queste parole Bruno Gravagnuolo spiega l'arcano:
«... Gobetti scorse in Gramsci e nei Consigli Operai un'occasione storica per l'Italia: mobilitazione dei ceti subalterni a fini di selezione delle èlites nazionali, tesa ad irradiare nella società civile esperienze di democrazia sociale».
A questo punto, però, lo scrittore de "l'Unità" parla di «utopismo»; e dopo un inevitabilmente stringato monitoraggio a tale singolare aspetto della tessitura teorica del Nostro, trasferisce la sua analitica presentazione su di un terreno squisitamente critico. Sul quale, però, rimandiamo il Lettore al prossimo numero per ovvi motivi di dimensioni e di spazio. Fra un mese, quindi, diremo la nostra, come già accennato; collegandola ad una problematica espressiva di un lato della poliedrica esperienza gobettiana, cui stranamente non si presta l'attenzione che meriterebbe: il rapporto niente affatto conflittuale -talvolta diretto, in altri casi indiretto- con personalità e gruppi della corrente detta «intransigente» del fascismo, parallelo alla avversione per il fascismo «moderato», «governativo», «inserito», «compromissorio».

Enrico Landolfi

 

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