da "AURORA" n° 27 (Luglio 1995)

L'ANALISI

Paradosso della democrazia diretta

M. F.


«Quando il pericolo è così grande che la morte diventa speranza, 
la disperazione è l'assenza della speranza di poter morire»

S. Kierkegaard, "La malattia mortale"


Le vicende dell'ultima consultazione referendaria su ben dodici quesiti e le discussioni su quella che si prepara (addirittura su diciotto quesiti) obbligano a una constatazione che solo in apparenza può suonare paradossale e provocatoria. Questa: la «democrazia diretta» non è stata compiutamente realizzata dal proletariato (in quanto il crollo dell'Unione Sovietica ha eliminato la condizione fondamentale del passaggio dal «socialismo» al «comunismo» secondo lo schema marxista-leninista), ma piuttosto dalla borghesia e nel quadro di un suo ritorno al liberalismo classico nell'odierna versione «anarco capitalista» dei "Chicago Boys". Un simile paradosso era stato preconizzato con indubbia chiaroveggenza da Max Weber -il «Marx borghese»- nel suo capolavoro incompiuto del 1909, il saggio "Economia e Società": epperò in un ambito di analisi ristretto alla evoluzione interna delle democrazie occidentali; senza, ovviamente, che si prendesse in considerazione l'eventualità che questa evoluzione potesse essere modificata dall'evento e dall'esito imprevedibile della Rivoluzione di Ottobre, di cui Weber fu testimone solo dell'inizio e della prima fase. Weber, d'altronde, vedeva un'antitesi irriducibile fra liberalismo e marxismo. Il famoso passo del "Manifesto del Partito Comunista" da Weber analizzato in una delle sue ultime conferenze, in cui Marx ed Engels pur tuttavia individuavano una «consanguineità» fra borghesi e proletari (i proletari «figli» dei borghesi), era stato interpretato in senso «storico-dialettico» e in parte anche evoluzionistico. Nell'ambito della cultura «progressiva» non si era mai concepita la possibilità che questa «consanguineità» sottendesse comunque una identità di fondo al di là di conflitti «generazionali» pur violentissimi: che, cioè, il comunismo non fosse altro che una aberrazione giovanile dei «figli insoddisfatti» della borghesia; che comunismo e liberalismo fossero «in substantia» la medesima cosa. Una simile tesi era stata sostenuta, non senza dovizia di argomenti da alcuni studiosi di destra che più o meno si rifacevano all'ideologia del fascismo. Ma la sconfitta militare del fascismo la aveva destituita di ogni credibilità, così come oggi la sconfitta storica del comunismo sembra destituire di ogni credibilità persino per coloro che si dichiarano ancora marxisti, i capisaldi antiliberali del comunismo stesso. 
I limiti della democrazia «diretta» e «referendaria» furono intuiti con stupefacente onestà intellettuale anche se sul piano «astratto» proprio all'illuminismo settecentesco, prima ancora che da Weber, proprio dal maestro politico di Marx: quel Gian Giacomo Rousseau, autore del "Contratto Sociale", che fu il primo e insuperato teorico della «democrazia diretta». 
Rousseau -com'è noto- ebbe in più occasioni a dichiarare il carattere meramente teorico del suo "Contratto" e che i suoi principî potevano trovare applicazione soltanto in piccoli Stati quali erano le antiche «poleis» greche; che costituirebbero, a quanto sostiene il Ginevrino, il modello della sua repubblica ideale, in cui la «democrazia diretta» sarebbe possibile per il fatto che i cittadini, essendo relativamente pochi e conoscendosi tutti fra loro, possono esercitare un effettivo controllo sull'operato del governo. Nei grandi Stati moderni, la «democrazia diretta» è per Rousseau impraticabile e non rimane altro che la «democrazia rappresentativa» di tipo inglese, anche se essa comporta consistenti sacrifici dell'assoluta libertà propria allo «stato di natura» (cui le costituzioni antiche erano senz'altro più prossime), una libertà che Rousseau ci presenta con tratti volutamente anti-hobbesiani: come una condizione idilliaca paragonabile a quella della mitica Arcadia. 
Non è vero, tuttavia, che il "Contratto Sociale" sia una «costruzione teorica». Esso aveva invece una finalità di pratica attuazione; e ciò che vi era di «astratto» va visto piuttosto in un quadro iniziatico-massonico, in un contesto «operativo», come "L'Emilio" e "La Nuova Eloisa" alle cui tematiche è collegato in maniera assai stretta e anche alquanto scoperta. Ciò è dimostrato dal fatto che Rousseau ne vide subito una concreta possibilità realizzativa in Corsica, dopo che l'isola, occupata dalla Francia durante la Guerra di successione austriaca e restituita a Genova con la pace di Aquisgrana, era insorta nel 1751, ed aveva eletto Pasquale Paoli (di cui era acceso sostenitore il padre di Napoleone Bonaparte) "Generale della Nazione", cioè di fatto dittatore per volontà del popolo. Rousseau scrive su invito degli insorti il "Progetto di Costituzione della Corsica", il quale, assieme alle "Lettere dalla Montagna" che provocarono l'espulsione di Gian Giacomo dal Cantone di Berna, è il vero strumento interpretativo delle teorie esposte nel "Contratto" e del loro carattere non meramente «astratto». 
Il punto nodale della concezione della sovranità esposta nel "Contratto" è infatti nella distinzione fra «volontà generale» e «volontà di tutti». Quest'ultima non è altro che la volontà della maggioranza dei cittadini e al limite della loro totalità, espressa quantitativamente dalla sommatoria dei voti. Essa, tuttavia, non coincide sempre col vero bene della comunità, rappresentato dalla «volontà generale», e che si suppone conosciuto da uno o più cittadini, non necessariamente da tutti. 
Vi è dunque potenziale contrasto fra «volontà di tutti» e «volontà generale». Il che giustifica in sostanza la dittatura di una minoranza di intellettuali politici, la dittatura democratica o plebiscitaria. 

Il lato incontestabilmente debole di questa teoria della sovranità è che essa non fornisce alcuna motivazione, che non sia meramente assertiva e dogmatica, di ciò che, come «mandato imperativo», costituirebbe il presupposto teoretico della legittimità della dittatura plebiscitaria, della dittatura di una minoranza di intellettuali politici (che poi costituiranno i partiti dei regimi totalitari di destra e di sinistra del XX secolo); la quale non si capisce perché dovrebbe essere migliore in assoluto rispetto a dominio collegiale di clero e aristocrazia presso il sistema feudale. Certo, questa motivazione esiste, ma non possiede una funzione legittimante assoluta, ma relativa, poggiando su un criterio sperimentale e su di una volontà umana, non solo presso il «popolo sovrano» donde proviene il «mandato imperativo», ma anche presso coloro che esercitano di fatto il potere avendo ricevuto il mandato. Per un altro verso, niente esclude che i governanti commettano errori ed abusi in una democrazia plebiscitaria. A maggior ragione, che ne commettano i loro successori, quando il nuovo sistema si consolidi e si trasformi in un regime in cui la burocrazia ha un ruolo egemone.
Si capisce perciò che il vero punto debole della teoria roussoiana sta nel fatto che essa non contiene alcuna seria dottrina della decadenza dei ceti dominanti. Essa contiene, sì, una teoria della decadenza della società nel suo insieme, e la si trova esposta nei due "Discorsi" sulla scienza e le arti, e sull'origine della diseguaglianza sociale. Dei ceti dominanti o «èlites» Rousseau non si occupa affatto perché essi in ogni caso -sembra di capire- sono quanto meno degli «usurpatori» potenziali. Così non può venire offerta ai «cittadini» nessuna seria garanzia contro gli errori e gli abusi del potere che non sia il ricorso alla violenza rivoluzionaria, legittimato da un presunto «diritto naturale di resistenza»; la cui controparte resta, tuttavia, il «diritto naturale» del potere di usare qualsiasi mezzo di repressione. Rousseau e i suoi continuatori di destra e di sinistra mostrano così di non possedere alcuna concezione vera (alta) della legalità e per converso della statualità, per cui lo Stato, a prescindere dalle varie forme di governo (dalla monarchica alla democratica) ha la funzione di supremo garante della Giustizia, che in concreto consiste soprattutto nell'impedire che si sciolgano i vincoli etici della comunità popolare, che i conflitti fra individui e classi degenerino in guerra civile e in «rivoluzione permanente». Non è un caso, pertanto, che il sanculotto ante litteram Rousseau si entusiasmi per i «feroci» Corsi e voglia servirsi a fin di bene della loro «leggendaria cattiveria», sebbene tenga a precisare che il loro autentico carattere sia stato «svisato dalla schiavitù e dalla tirannia, si è fatto difficile da riconoscere». Nelle sue lettere all'emissario degli insorti, tale Matteo Buttafuoco, egli s'infiamma per le imprese di Pasquale Paoli, come ancor più, se avesse vissuto tanto da conoscerlo, si sarebbe infiammato per Robespierre, il suo «grande allievo» che iniziò la sua carriera politica proprio leggendo e commentando il "Contratto Sociale" nelle piazze. Né è un caso, forse, che Napoleone fosse còrso e che la sua famiglia fosse stata partigiana di Pasquale Paoli.

Poiché nel pensiero politico di Rousseau e nella Rivoluzione francese sono da ricercarsi le origini comuni dei totalitarismi, di destra e di sinistra, di questo secolo (cioè le origini del radicalismo proprio all'ideologia liberale del continente europeo contrapposta a quella anglosassone; si pensi alla politica napoleonica sempre e comunque anti-inglese), il riferimento a Rousseau, nonostante i suoi limiti testè segnalati, può essere utile per comprendere i termini effettivi dell'affermazione attuale, specie in Italia, della «democrazia diretta», affermazione che si ha in concomitanza della sconfitta dell'ultima manifestazione storica del radicalismo liberale nella versione europea continentale; il comunismo sovietico.
Questa affermazione della «democrazia diretta», che oggi si serve del mezzo televisivo come principale strumento di propaganda, si accompagna a quella del modello economico del liberismo puro dell'ideologia inglese settecentesca (Adam Smith), che viene riproposta come «anarco capitalismo» ed ha questa volta il suo centro propulsore negli Stati Uniti.
Circa i rapporti più o meno conflittuali fra questa nuova tendenza e quella che il liberalismo aveva consolidato nel quarantennio successivo alla fine della seconda Guerra mondiale, rimando a quanto ho affermato nell'articolo pubblicato su "Aurora" del settembre '94. Qui mi limito ad osservare che l'«anarco capitalismo» condiziona energicamente le politiche economiche del cosiddetto «capitalismo ecumenico», in quanto questo ultimo si vede comunque costretto a una non marginale riforma dello «Stato sociale». Senza contare, poi, che su tali condizionamenti non sono estranei incontrollabili meccanismi della speculazione finanziaria, in particolare in alcuni Paesi dell'America latina e in Italia.
Se l'istanza della «democrazia diretta» ha avuto nell'età contemporanea, grazie alla versione continentale del liberalismo, una valenza autoregolatrice del liberalismo stesso, il riproporsi di quest'istanza, col ritorno quanto meno tendenziale alle origini anglosassoni del capitalismo, dovrebbe condurre con molta probabilità al compiuto inveramento della «democrazia diretta» in stretta dipendenza della pura legge del mercato (l'attuale dominio incontrastato della pubblicità e la «telecrazia» stanno a indicare proprio ciò). L'anarchia della legge del mercato deve avere il suo riflesso nell'anarchia della «democrazia diretta» compiuta. Il nuovo «dittatore» deve avere un controllo assoluto sul mezzo televisivo; e riceve il suo «mandato imperativo» -non per caso- attraverso un plebiscito (va qui osservato che il PDS, tramite Veltroni, -ancora una volta non per caso- ha cercato di evitare i «referenda» sulla televisione attraverso un accordo, che è stato tuttavia vanificato per le prese di posizione della Lega: di una forza al momento funzionale alla logica dell'«anarco capitalismo» assai più di quanto non sia lo stesso partito di Berlusconi).
Le tesi del mio citato articolo sull'«anarco capitalismo» -in cui si prospettava la necessaria sconfitta del «capitalismo ecumenico» e la finale «implosione» del capitalismo come tale (implosione già prefigurata nell'«implosione del comunismo sovietico)- ricevono ora un ulteriore chiarimento grazie all'analisi della «democrazia diretta» compiuta in regime di capitalismo «trionfante».
Non solo. Da un lato la crisi dei partiti della sinistra tradizionale, dall'altro il diffondersi nei ceti subalterni (specialmente nel proletariato i cui connotati storici vanno sempre più confondendosi con quelli della piccola borghesia e del sottoproletariato) di una diffusa mentalità edonista, materialista, individualista, hanno causato l'estendersi della «democrazia diretta» al campo del sindacato. Mentre il sindacato tende sempre più a burocratizzarsi e a diventare centro di potere funzionale al capitalismo, esercitando esso stesso una sorta di «dittatura» sul mondo del lavoro, si assiste al sorgere di un movimento sindacale di base con caratteri «corporativi» e indubbiamente anarcoidi. Questo nuovo sindacalismo, spontaneista e «populista» in senso deteriore, è suscettibile di venire strumentalizzato da un qualsiasi nuovo Masaniello, e intanto subisce la seduzione perfino di un Berlusconi. È altresì suscettibile, se ciò si verificasse, di unificarsi contro il sindacato tradizionale, sicuramente contro l'interesse vero del mondo del lavoro nella sua totalità, ma anche della sua stessa «base».
Una demonia capillarmente invasiva caratterizza così il processo del compiuto inveramento della «democrazia diretta»: una demonia in cui oggi è dato scorgere la realtà del sentimentalismo roussoiano nella sua genesi storica: nei suoi oscuri rapporti con le speculazioni sul «senso comune» di Shaftesbury e Hutchinson come nei suoi sviluppi romantici e tardo-romantici, ivi compresi quelli di certo socialismo marxista; il quale, ad onta delle pretese di scientificità, non poco rimestò nel terreno dei «buoni sentimenti» di dickensiana e deamicisiana memoria.
Nel campo del sindacato, questa demonia si esprime oggi compiutamente nel rovesciamento di quella che fu la più alta ed eticamente significativa espressione del sindacalismo: il «sindacalismo rivoluzionario» di George Sorel. La sua connotazione antiliberale e antimarxista mirava a restituire alla classe operaia, attraverso la teoria dello «sciopero generale», il ruolo di principale agente della rivoluzione, ruolo che le era stato sottratto dai dirigenti dei partiti socialisti, intellettuali di estrazione borghese e collusi pertanto, anche loro malgrado, con la borghesia. Il «mito» rivoluzionario di Sorel -sostanziato di spiritualismo bergsoniano e radicalmente negatore della «Weltgangschauung» borghese e del suo «patriottismo» al punto che Sorel, durante la prima Guerra mondiale, lo vide incarnato nelle potenze «reazionarie» degli Imperi Centrali- si degrada ora alla stregua del «mito americano», celebrato dalla nostra televisione di Stato prima ancora -anche cronologicamente- che dalle reti private.
Non può dunque ritenersi casuale che l'ultima consultazione referendaria abbia avuto come oggetto televisione e sindacato. D'altra parte, il sempre più frequente ricorso al plebiscito, più che l'incapacità a governare degli attuali politici (non solo di quelli «emergenti» del centrodestra), prova una reale impossibilità di governare, che è una conseguenza dello «spirito dei tempi», di una anarchia per così dire sovrana.
In questo senso è lecito parlare di un «ritorno al medioevo»; è lecito parlare di un processo di feudalizzazione del capitalismo e di una nuova anarchia feudale.
In una simile situazione, la controtendenza non può essere costituita da una difesa ad oltranza, da parte dei sindacati tradizionali, di posizioni che possono anche essere giuste in linea di principio. La stessa «unità» dei sindacati va sacrificata se essa favorisce (come l'esito dei «referenda» sul sindacato ha incontrovertibilmente dimostrato) quello che possiamo definire «anarco sindacalismo», e che comunque è anche una conseguenza di determinate scelte della Triplice, scelte se si vuole anche «coraggiose», per dirla con D'Antoni.
La controtendenza, al di là di tatticismi e compromessi contingenti che ovviamente non si possono escludere a priori, deve consistere nella applicazione intelligente e metodica del principio di «cavalcare la tigre». Il che significa saper interpretare e canalizzare le spinte eversive cieche e -diciamolo pure- plebee del nuovo «sindacalismo rivoluzionario» E va osservato al riguardo che la CGIL, con le sue «aperture movimentiste» a sproposito criticate dagli ottusi difensori dell'unità sindacale «ad ogni costo», sembra proprio aver imboccato, questa via. Speriamo che non abbia dei ripensamenti. Ancorché io non sia d'accordo col sociologo Corrado Barberis per il quale l'esito dell'ultima consultazione referendaria testimonierebbe nell'elettorato una sostanziale «allergia agli estremismi», concordo con lui, tuttavia, quando dichiara di non essere preoccupato per la crisi del sindacalismo tradizionale. In effetti, credo potrebbe essere una crisi di crescita, ma ciò dipende in non piccola misura dall'intelligenza e dalla volontà degli uomini.
Bisognerebbe, in primo luogo, sostituire nella considerazione del popolo -che ormai non coincide più col proletariato né tanto meno con la borghesia, anzi con l'alta borghesia, pretese «più alte espressioni» del popolo d'Italia- il «mito americano» con quello che fu il «mito» nell'accezione di Sorel. Questi nel mito seppe cogliere la sintesi di «tradizione» e «progresso» non favoleggiando sullo «stato di natura», ma concependo questo ultimo -che potrebbe anche essere la vera Tradizione- come un puro concetto negativo che si trae dal profondo del nostro essere uomini; nell'atto di una contestazione globale della realtà; se vogliamo, in una critica operativa del «progressismo», persino nelle sue ragioni oggettivamente positive. In una tale prospettiva, si può anzi sostenere che Sorel seppe appropriarsi della lezione del migliore Rosseau superandone il sentimentalismo equivoco, che conferiva, tra l'altro, una intonazione di fatto reazionaria e vagamente «cinica» alle sue concezioni in materia di morale ed economia, nel vagheggiamento di un'esistenza in cui tutto si svolgeva nelle forme leziosamente arcaiche di una società agricolo-pastorale. Lo stesso mito della Nazione a cui il popolo andrebbe rieducato (spogliandolo delle incrostazioni «telluiriche» roussoiane che tramite Herder passeranno al nazionalismo germanico), dev'essere per così dire ridestato nel fuoco della lotta, di un confronto duro non solo coi nemici della Nazione, ma anche fra il popolo stesso e coloro che si presentano come i suoi dirigenti invocandone il «mandato imperativo».
Ma il mito della Nazione -non è superfluo aggiungere- non può essere propagandato da istituzioni culturali quali che siano, per il momento. Dietro di esse si nascondono, o finiscono sempre per nascondersi, interessi sciovinistici e mire bassamente politiche, tese a favorire chi della Nazione ha un concetto esclusivo, di classe, e perciò sostanzialmente antinazionale. Nel migliore dei casi, poi, il mito della Nazione finirebbe con l'avere la medesima funzione, meramente folcloristica, che ebbe e continua ad avere il mito delle «tradizioni popolari» finalizzato a coltivarvi sopra attività relative a scopi utilitaristici, turistici e al limite solo gastronomici, comunque e sempre commerciali. La Nazione, al contrario, è ben altro, perché le tradizioni di un popolo e finanche la sua gastronomia sono venute costituendosi nel tempo, sono il risultato di uno scontro tutt'altro che «piacevole» con una realtà quasi sempre molto ostile. Lo «stato di natura» non è mai esistito, come ebbe a dichiarare francamente Rosseau: a maggior ragione -è da dire- quando si assuma come vera l'ipotesi evoluzionistica. È una «illusione» prodotta dall'«immaginazione», e quest'ultima è una facoltà che rivela, forse più d'ogni altra, che l'uomo è costituzionalmente avverso alla natura. Mentre potrebbe essere -mi sembra- dubbio il contrario; visto che l'animale accetta comunque la legge di natura; l'uomo mai, soprattutto nello stadio culturale «primitivo», dove l'«immaginazione», e quindi la religione e l'eroismo, sono presenti in sommo grado.

M. F.

 

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