da "AURORA" n° 27 (Luglio 1995)

L'APPROFONDIMENTO

L'incompetenza italiana in guerra

Vito Errico

Cinquant'anni fa si spegneva il braciere nel quale s'era fatto brustolire il mondo nel più grande conflitto che la storia dell'uomo aveva saputo scatenare. 
Uno scenario che interessò ogni angolo del globo e tutte le razze del genere umano e l'ultimo conflitto che vide in campo direttamente il fattore «uomo» in posizione dominante sul supporto tecnologico. Seppure dovesse ancora accadere, non sarà più così. L'uomo non avrà più l'importanza che ebbe mezzo secolo fa perché le tecnologie sopraggiunte lo hanno relegato in un ruolo che è tatticamente secondario, facendo perdere alla guerra quell'aspetto romantico, seppure terribile, che il pensiero le aveva conferito dall'alba del creato. Son trascorsi dieci lustri ma il tempo passato non è servito a cerziorare le cause, gli interventi, le modalità d'impiego di masse enormi di uomini e mezzi. Ha preso a trionfare la solita, vieta logica per la quale i vincitori scrivono sempre la storia.
Per quanto riguarda noi italiani la regola è stata ferrea, appesantita da quel clima di rimozione della memoria che ci ha fatti uscire dalla storia. Eppure sull'intervento e sulla sconfitta italiana nel secondo conflitto c'è molto ancora da scoprire. Il troppo che circola sull'argomento spesso ha minimo valore scientifico. Tale è soprattutto perché ci sono delle leggi che, ancora oggi, vietano l'accesso alle fonti. E ciò è soltanto scandaloso. Sono inimmaginabili le fatiche che si devono sopportare per permeare questa coltre di segretezza, la quale favorisce soltanto il propalarsi e l'attecchirsi di luoghi comuni che inficiano la verità della storia. Noi apparteniamo a quella parte di studiosi del fatto storico, i quali ritengono che non fu errato combattere quella guerra. Al di là delle amenità ricorse in mezzo secolo e di trattazioni che battono il tasto dell'irenismo, puntualmente sconfessato dalla realtà (la Corea, l'Algeria, il Vietnam, l'Afghanistan, la Jugoslavia, la Cecenia confermano) ci convince il fatto che la vita degli Stati è regolata dai rapporti di forza. Aristotele seppe disegnare magistralmente la logica che muove il mondo degli uomini: «gli inferiori combattono per essere uguali e gli uguali combattono per essere superiori».
Riserve ed eccezioni invece vengono mosse sul «come» quella guerra fu combattuta da parte italiana. Le modalità di conduzione del conflitto, ritenuto come la summa di una politica governativa esplicatasi in un ventennio, mettono in seria discussione la veste rivoluzionaria del fascismo italiano. «Revolvere» ha un significato etimologico ben preciso. Il fascismo invece, proprio nell'ambito militare, mantenne lo stesso impianto, la stessa filosofia, la stessa strategia, gli stessi uomini che aveva ereditato dal regime precedente. Fu cioè conservatore. Le cause rivestono motivo di trattazione da fare in altra sede ma il dato di fatto è questo. Uomini, che non avevano certo brillato all'epoca del Carso, restarono in carica ai massimi livelli decisionali delle forze armate. Uomini come Badoglio, che riassumeva la sua filosofia d'impiego nel motto tutto piemontese «l'om, il fusil, il mul, il cannun», uomini come Graziani, ufficiale di complemento privo di qualsiasi preparazione culturale di base, che farebbe d'un uomo uno stratega, ebbero in mano intere armate per un certo tempo nettamente superiori al nemico, e le sciuparono, sacrificandole sull'altare della loro densa ignoranza.

Va smentito finalmente un dato acclaratosi come indiscutibile nel corso del secondo dopoguerra: l'impreparazione strutturale dell'Italia alla guerra. Risparmiando sull'esposizione di lunghi elenchi analitici, crediamo esaustivo un invito ad una considerazione. 
L'Italia entra in guerra il 10 giugno '40 e ne esce l'8 settembre '43. Trentanove mesi di guerra, e di un conflitto di quella portata, non possono deporre a favore della tesi dell'impreparazione. Una nazione impreparata capitola in qualche settimana, in qualche mese. La Polonia, la Francia, la Russia, la loro storia nel primo periodo della guerra, confermano questa tesi al di là di ogni dubbio.
C'è un'altra «favola» che occorre ricondurre nel suo alveo fantastico: la mancanza del radar. La storia di questo strumento portentoso, rapportato alla considerazione che ne ebbero gli Stati Maggiori italiani, frutta un giudizio di esecrazione per l'incompetenza e l'ignoranza dei generali italiani. Piero Baroni ha descritto in maniera storicamente corretta questo capitolo della storia militare italiana. (1) Il radar italiano, «perfettamente identico a quello inglese», fu posto allo studio dal professor Ugo Tiberio fra il '33 e il '35, dapprima presso l'Istituto Militare Superiore delle Trasmissioni, poi presso l'Istituto Elettrotecnico della Marina di Livorno. Un progetto doviziosamente finanziato che si realizzerà agli inizi del '39 con la costruzione di un telemetro «funzionante sull'onda di 1,50 metri», commissionato alla SAFAR di Milano nel dicembre dello stesso anno. La Marina Italiana poteva quindi disporre dell'importante supporto tecnologico prima dell'entrata in guerra, alla pari dei Tedeschi che fin dal '38 l'avevano impiantato sulla corazzata "Graf Spee" e degli Inglesi che ne avevano dotato l'incrociatore "Sheffield" e la corazzata "Rodney". Ma il radar italiano finì nei fondi di magazzino, ritenuto spreco di sostanze dai vertici della Marina. L'Ammiraglio Cavagnari, Capo di Stato Maggiore, declamerà la famosa frase «La Marina di notte non combatte». Nel 1905 a Tsushima e nel 1916 allo Jutland, russi e giapponesi, inglesi e tedeschi s'erano azzuffati sul mare e proprio di notte. Sarà la tragedia Capo Matapan con i suoi bagliori a rischiarare la notte dell'ignoranza dei nostri Stati Maggiori e a far correre, ormai inutilmente, nei magazzini di Livorno per ripescare dalle ragnatele il gioiello del professor Tiberio. Ma fu solo «ignoranza»?

Gianni Rocca ha descritto la tragedia dell'aviazione italiana nel secondo conflitto mondiale. (2) In quella sede si continua a voler esecrare l'operato dell'Arma Azzurra che in Etiopia condusse «una guerra aerea crudele, in cui si falcia il nemico con i gas». Ipocrisia a buon mercato. La guerra è quella conduzione della politica con altri mezzi di clausewitziana memoria che si pone come obiettivo solo la vittoria. La «coventryzzazione» delle città può muovere a compassione solo le «anime belle» del mondo, aduse a ricercare una «morale bellica» che non può esistere. Saranno i bombardamenti a tappeto, la definizione delle «bombing area» di Lord Harris a risolvere a favore degli Alleati l'esito del secondo conflitto mondiale. Eppure era stato un solerte ed intelligente ufficiale d'artiglieria italiana, Giulio Douhet, a teorizzare fin dal '21, nel suo "Il dominio dell'aria", gli apocalittici scenari, che troveranno attuazione nel periodo '40/'41, con le grandi fortezze volanti che spazzavano i cieli e radevano al suolo intere città. Douhet finirà vittima di quella «morale bellica», alla quale non fu estraneo Mussolini, che, per dirla con Giuseppe Attilio Fanelli (3) aveva terrore del sangue come tutti i figli della civiltà contadina. L'aviazione italiana, al di là dei successi sportivi di Be Pinedo e delle trasvolate oceaniche, enfatizzati con la solita roboanza dalla propaganda di regime, subì la triste sorte riveniente dall'ignoranza e dalla gelosia dei vertici. 
Quando l'Italia entrò in guerra, nel teatro del Mediterraneo erano schierati 3296 velivoli di concezione nettamente superiore ai 400 aerei inglesi. Una potenza di fuoco non supportata anch'essa da una filosofia d'impiego. Se a questo s'aggiunge la litigiosità oscena fra la Marina e l'Aviazione a proposito delle navi portaerei, il quadro è completo. Gli inglesi, già dal '17, avevano varato le portaerei "Furious", e "Argus" e l'8 giugno 1918 avevano messo in mare la "Eagle", prima nave a tutto ponte. Mussolini ripeterà papagallescamente che «l'Italia è una portaerei naturale». Sarà stato un grande politico, ma la politica militare non era il suo forte, come per tutti i capi di governo italiani.

Il capitolo riservato all'esercito segna il punto più alto dell'incompetenza dei generali italiani, c'è una questione completamente negletta, al di là del caos organizzativo della forza armata, ed è rappresentato dalla Milizia. La costituzione della «quarta forza» dell'Esercito creò non pochi dissapori, esiziali alla tenuta delle truppe. La carriera facilitata degli ufficiali, l'equiparazione a quelli delle altre forze armate, il «nepotismo» vergognosamente praticato dal regime a detrimento delle altre armi, che si sostanziava in miglior equipaggiamento, in un ben più sostanzioso «benessere del soldato» servirono a sfilacciare la compattezza morale delle Forze Armate e non servì al regime nel momento della sua crisi. Mussolini sarà lasciato solo, prima che dagli altri, proprio dalla Milizia.
Fin dal '35 la politica estera italiana aveva assunto dei caratteri netti. La guerra d'Etiopia segnò il discrimine fra i due momenti di questa politica. Ma lo Stato Maggiore non stette al passo con i tempi. Nessun piano preventivo di intervento (al contrario degli Inglesi che iniziarono in quel periodo a studiare la possibilità della neutralizzazione della flotta italiana nella rada di Taranto), nessuna capacità d'immaginare l'evolvere della situazione.
Al di là degli «errori» di Malta, di Gibilterra, del Sudan, il più eclatante, anche se meno noto, è quello della mancata conoscenza che i generali italiani avevano del dispositivo di formazione dei reparti inglesi. Se ne faranno le spese durante la Campagna di Libia ('40/'41) quando i 36 mila inglesi di O'Connor sbaraglieranno i 220 mila italiani della Xª Armata, comandata da un inetto Graziani. La mancata costituzione di depositi autonomi in Africa, l'inesistenza di una ferrovia che corresse parallela ai 1856 chilometri della Bardia fecero precipitare una situazione che non ci vedeva inferiori agli Inglesi.
Il 10 giugno 1940 in Africa Settentrionale avevamo 70 carri medi e 339 leggeri, 1811 cannoni, 900 automezzi, 2500 motociclette, 4600 mitragliatrici, 3800 fucili mitragliatori. (4) Il rapporto era favorevole agli Italiani per 5 a 1 nelle artiglierie, 2 a 1 per le truppe e 80 mila soldati italiani stavano sbarcando ulteriormente.
Di fronte alle cifre si può solo dire che gli Italiani non seppero, seppure potevano, risolvere la partita a loro favore. La colpa? Dei generali italiani, lontani mille miglia dalle qualità di Guderian. Ma anche di Mussolini, che impantanandosi in Grecia e in Russia per risibili motivi se non fosse la tragedia d'un popolo, dimostrerà oltre ogni dubbio di non possedere una visione strategica e geopolitica. In quegli anni terribili l'immaginario collettivo partorirà l'esercito ideale; soldati italiani e generali tedeschi. Le solite fantasie italiche. Prezzolini, invece, definirà con esattezza la diagnosi: «La mancanza di disposizione alla guerra degli italiani non ha nulla a che fare con il coraggio individuale. Gli italiani la fanno male perché incapaci di organizzare il proprio Stato».

Vito Errico

Note:

(1) "Generali nella polvere" - Reverdito Ed, 1989
(2) "I disperati" - Mondadori Ed. 1992
(3) "Perché seguimmo e disubbidimmo Mussolini" - Le Sorgenti Ed. 1984
(4) Franco Bandini - "Tecnica della sconfitta" - Longanesi Ed. 1971

 

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