da "AURORA" n° 27 (Luglio 1995)

IL DIBATTITO

Lettera a cuore aperto

Rutilio Sermonti

Cari Camerati di "Aurora",
sono commosso per le lusinghiere espressioni con cui, nel numero di febbraio, avete voluto presentarmi ai vostri lettori e, incoraggiato da quelle, oltre che dal fatto di potermi considerare senza iattanza tra i pochi che -come è scritto sotto la vostra testata- hanno combattuto tutta la vita, mi permetto di mettere bocca nel dibattito tra Gianni Benvenuti e Luigi Costa che leggo nel numero successivo di marzo, nella speranza di portarvi un mio umile contributo di chiarificazione. 
Chiedo scusa se la prendo larga, e anche se uso un linguaggio terra terra, com'è mio costume o vizio. Per fare un quadro ci vuole un pittore, per fare un'operazione ci vuole un chirurgo, per guidare un aereo ci vuole un pilota e così via. Un uomo potrà possedere le più elette qualità ed essere degno dell'ammirazione universale, ma se non è un pittore e dipinge farà una crosta, se non è un chirurgo ed opera accopperà il paziente, se non è pilota e impugna la cloche non si staccherà dalla pista. Bene: per comandare ci vuole un capo.
Sono, quelle sopra esemplificate, tutte qualità che uno possiede o non possiede: non possono essergli conferite da terzi, e quella di capo meno delle altre. Ai limiti: prendiamo un Wolfang Goethe e un Go Klah Jie (per i bianchi: Geronimo). Tutti conclamano l'immensa statura spirituale, intellettuale e culturale del Poeta di Frankfurt, mentre il piccolo Apache Chirikawa era rozzo e analfabeta, oltreché di umile nascita. Nondimeno, Goethe non era un capo: Geronimo si.
Una delle più nefaste tra le conseguenze della liberaldemocrazia è stata quella di far perdere agli uomini cosiddetti civili la nozione di capo ed anche la stessa capacità di riconoscerlo quando c'è.
È chiaro che il bisogno di un capo politico diviene particolarmente acuto quando la comunità versa in condizioni di drammatica crisi, e ben lo sapevano i nostri Padri prima del 44 a.C., che adottavano infatti in simili circostanze il rimedio istituzionale del dittatore. Sembra che il Senato romano per riconoscere un capo avesse buon fiuto, tanto che non risulta abbia mai preso cantonate. Ma gli ambasciatori epiroti ebbero a definire quel Senato un'assemblea di re e credo invero che tutt'altra impressione avrebbero riportato da una capatina a Palazzo Madama. Come la mettiamo, allora? Stiamo qui a macerare nella melma in attesa che un Uomo del Destino scenda magari dal cielo su un carro di fuoco?
Molte pubblicazioni d'avanguardia del nostro ambiente (tra le quali "Aurora" merita un particolare risalto per acume e spregiudicatezza) impostano esattamente la drammatica questione di oggi: il mondo intero sta cadendo preda dell'Internazionale Usuraia, la Fratellanza bancaria mondiale di rothschildiana memoria, che, prostrata con la violenza e la corruzione l'Europa ribelle e liberatasi recentemente anche del servo sciocco bolscevico, è riuscita ultimamente in Italia a metterne a segno una delle sue (lo stile è inconfondibile).
Vi era una formazione politica ufficiale che si rifaceva -seppur molto vagamente- ai valori della ricordata ribellione europea, valori che avevano fatto prendere un solenne spaghetto alla plutocrazia apolide mezzo secolo addietro. Era evidente che tale formazione, se coraggiosa e coerente, avrebbe potuto mietere a piene mani nell'emergente ripulsa popolare per le classi dirigenti incapaci e ladre figliate dalla liberazione e farsi portatrice di un autentico sistema alternativo incompatibile col programmato mondialismo. Avrebbe potuto anche -hai visto mai?- dar luogo ad una serie di reazioni a catena nel Vecchio continente! E quelli, che non sono stupidi, sono corsi ai ripari nel modo più ovvio e a loro congeniale. Si sono facilmente lavorati un ometto inconsistente e presuntuoso, affamato di successo all'americana ed hanno ottenuto il 25 luglio formato mignon di Fiuggi Terme.
A questo punto, darsi alle stigmatizzazioni più o meno sdegnose sarebbe sciocco e inutile, come lo sdegno di coloro che hanno dovuto aspettare Di Pietro per scoprire Tangentopoli. Non ci siamo mai fatte illusioni sulla parlamentarizzata classe dirigente missina e, anche se abbiamo sentito cocente il dolore per quella minoranza che ritenevamo d'altra stoffa e che invece ha gareggiato con l'altra nella devozione a Santa Poltrona e nello scodinzolare intorno al Gran Sacerdote della medesima, l'abbiamo prontamente considerata tamquam non esset. Io, nelle mie rubriche, ho tirato un frego sopra quei nomi annotando a margine: deceduto.
Allora, esclusa drasticamente ogni ipotesi di disimpegno, dobbiamo chiederci -e se lo chiedono Costa e Benvenuti- qual'è il nostro dovere. Sono i doveri, non i diritti che ci interessano: siamo gentaglia di tal fatta.
Si dice: Rauti ha subito rifondato il MSI; non resta che decidere se seguirlo o meno. Tale alternativa è mal posta ed equivoca, e infatti così la prospettano i mass media del Sistema. Essi raccontano al pubblico distratto che la maggioranza ragionevole ha seguito Fini, mentre una minoranza di patetici duri e puri (variante: nostalgici) ha seguito lo scissionista Rauti. Stupidaggini, al solito. Vediamo di dissipare gli equivoci. Gli uomini confluiti nel MSI-Fiamma non hanno seguito nessuno. Moltissimi erano già usciti dal serraglio AN prima di Rauti o addirittura dal MSI-dn. Io stesso, pur avendovi diritto come membro del CC uscente, non ho neppure messo piede nell'aula del congresso-harakiri. Vanto, per l'esattezza, una precedenza su Pino di giorni sei.
Abbiamo lavorato tutti alla riorganizzazione in un appassionato volontarismo, senza gerarchie stabilite e nella totale mancanza di mezzi. A quest'ultima -bisogna dargliene atto- ha sopperito in buona parte Rauti di tasca propria, conscio com'è che, tra quelli che hanno dato molto alla Causa e ancora intendono dare, lui è praticamente l'unico che abbia anche ricevuto. Adesso egli è tra noi una personalità rilevante e significativa, oltre che la più nota all'esterno dati i suoi precedenti di segretario, di parlamentare italiano ed europeo e di pensatore e scrittore storico e politico.
Rauti Giuseppe Umberto, detto Pino.
Voglio esporvi come io, che gli sono sempre stato vicino dal 1947 ad oggi, l'ho visto e lo vedo politicamente, prescindendo per quanto posso dall'affetto reciproco, cementato da così lunga, comune milizia.
Sulle qualità spirituali, intellettuali e culturali che gli riconosco, e non certo io solo, è inutile dilungarsi. L'incontro con lui, or sono quarantotto anni, è stata una tappa cruciale della mia vita, come quella di non pochi altri. Quando la guerra mi scaricò -per puro caso incolume- in questa cacca di società civile liberata e redenta, il mio Fascismo, come quello di molti giovani reduci, era solo fervida, incondizionata, disperata fedeltà al Duce, unita alla certezza che la Sua povera spoglia martoriata e vilipesa ci ricordasse il suo vecchio: «se muoio vendicatemi» (1). Un altro Suo ordine, quasi in articulo mortis, avevo scorto nell'ultima intervista, concessa sul Garda ad Ivanhoe Fossati: «I miei veri figli verranno dopo, e saranno quelli che sapranno vedere in me quello che io stesso non ho potuto vedere».
Compreso di tale non lieve missione, cominciai subito con obiettività col sentire l'altra campana. Ricordo persino, nel maggio, un colloquio riservato, a Milano, con tale Sandro Pertini. Erano con me il compianto amico Luci-Chiarissi e mio fratello Enrico. Ricordo anche testualmente le conclusioni unanimi che ne traemmo all'uscita, in piazza della Scala: «Ma questo è proprio scemo!». Né altri simili «assaggi» ebbero esito migliore: paccottiglia ottocentesca mal riciclata e un gran bla bla bla (s'è visto poi, del resto!).
Dovevamo quindi, noi soli, dar corpo ad una linea e ad un progetto politico e civile, pur nel nuovo, sconfortante contesto. E fu proprio Rauti, sebbene di quattro anni più giovane, ad additarmi, nel '47, la direzione giusta, iniziandomi al pensiero di Julius Evola e di Guénon e distruggendo quello che in me residuava del mito del progresso. Devo quindi affermare che, se in seguito sono riuscito a comporre una visione chiara e coerente e a disegnare le linee generali di un progetto politico organico, a lui spetta un posto d'onore tra gli ispiratori, accanto a mio Padre, a Gioacchino Volpe, a Wilfredo Pareto, a Werner Sombart, allo stesso Evola e a pochi altri.
Ma neanche Rauti è un capo. È stato un vero specialista nel valorizzare gente inaffidabile e nel farsi condizionare sul piano pratico da costoro collezionando amare delusioni. Lui stesso, del resto, nei riposti recessi dell'animo, ha accettato il ruolo di «leader» sempre più a malincuore e ciò spiega, secondo me, certe sue improvvise stanchezze e certe spigolosità quasi isteriche che gli hanno alienato in passato e tuttora non poche simpatie ed hanno sortito l'allontanamento di persone che gli avrebbero permesso di sfruttare ed esercitare con ben diversa efficacia la carica -con tanta fatica conquistata- di segretario del partito. Basti riflettere su come un Fini qualunque, idealmente inesistente e istallatosi al suo posto con un torbido colpo di mano verticistico, sia riuscito a fare del MSI quello che voleva, mentre Rauti, con un pensiero ricco di contenuti e sostenuto da tutta la base militante del partito, si era comportato, coi marpioni di via della Scrofa, come un trucciolo in balia delle onde, finendo in secca sui ciottoli della riva. Vedete bene che le so anch'io, queste cose, eppure sono l'unico, della vecchia guardia che, nonostante gli spigoli, gli è rimasto accanto, mentre i suoi marescialli si disperdevano ai quattro venti.
Ma adesso non si tratta di essere rautiani o meno, accettando le classificazioni idiote della stampa d'opinione. La rivolta morale e politica che l'ennesimo tradimento ha suscitato in migliaia di militanti non è in alcun modo personalizzabile. È maturata e divampata in ciascuno di noi dall'interno, con la ferrea necessità di una reazione chimica. Chi c'era, ricorderà che all'otto di settembre accadde qualcosa di simile.
Ora, noi dei primi nuclei, che continuano ad ingrossarsi come valanghe, abbiamo solo da metterci a lavorare sodo, da dare con passione, continuità e metodo l'apporto che ognuno può dare. Non è il MSI-dn che deve continuare, ma qualcosa di molto più limpido, duro, preciso, efficace che deve nascere. La materia è ancora plastica e la forma definitiva gliela darà chi vorrà farlo, non certo chi resterà in pur benevola attesa.
Non cercare consensi con slogan demagogici o con pigri, patetici lai: meritarli con la chiarezza e la coerenza dirompenti delle nostre tesi e, soprattutto, col nostro stile. Le nostre gerarchie sono in formazione: chi se la sente si faccia avanti, ma se cerca benefici a breve termine ha sbagliato porta. Dobbiamo arrivare al congresso già con un buon abbozzo di struttura centrale e periferica. Sceglieremo poi il nostro direttivo collegiale (non più di venti o trenta persone, per piacere!) tra quelli che meglio avranno saputo levare un'insegna e andare avanti, concretare, costruire. La diana che dobbiamo suonare -lo capite, vero?- è ben più alta e solenne che il chiacchericcio politichese che infiora le prime pagine. Non si vada a caccia di voti ma di coscienze, non di consensi ma di adesioni. Chi ha il fiato corto si sieda sulla proda ma non stia tra i piedi. Il campo aperto dinnanzi a noi è molto più ampio di quanto alcuni credano. Comprende anche gente che non si è mai volta a noi e magari ci crede avversaria. Persino tra il gregge di AN, che sta smaltendo la sbornia e le illusioni, c'è da fare. Un loro circolo, che conosco per motivi... topografici, il 25 aprile ha esposto il tricolore a mezz'asta con tanto di nastro nero, e non sono state certo le direttive di Fini! E vaste simpatie vanno a Buontempo, che non se n'è (ancora) andato ma non ha abiurato a nulla, anzi rincara la dose ad ogni occasione incurante delle occhiatacce. Perché la nostra pianta fiorisca rigogliosa perplessità e distinguo non sono un buon concime: solo il lavoro umile e tenace lo è. E non discutiamo più su Rauti. Saranno le sue azioni a parlare per lui a collocarlo nella nostra compagine al posto che gli compete, a partire da domani.
È da una simile atmosfera di milizia che un capo, tra noi, in un momento quasi magico potrà emergere. Da particolarismi, conventicole, riserve e mugugni certamente no.

Rutilio Sermonti

(1) Detto per inciso, io sono sempre stato contrario al concetto, non da autentici guerrieri, di vendicare i caduti in combattimento, e ho sempre reso ai caduti nemici lo stesso onore che ai nostri. Ma contro il vile assassinio e l'oltraggio ancora più vile si deve essere inesorabili, senza perdoni né conciliazioni possibili.


Caro Rutilio,
il Tuo scritto ci è pervenuto con grande ritardo, causa il sempre più vergognoso disservizio postale. Lo pubblichiamo, pur ritenendolo in larga misura superato dalle puntualizzazioni e dai chiarimenti riportati in queste pagine nei numeri di aprile e maggio.
Innanzi tutto, massimo rispetto per i sentimenti di amicizia personale e fedeltà politica espressi nei confronti di Pino Rauti. Sentimenti che Ti fanno onore poiché sono merce rarissima in un'epoca in cui i rapporti interpersonali sono generalmente regolati dal reciproco tornaconto. Ciò rende ancora più sgradevole il compito di rispondere alle Tue considerazioni; sicuramente dettate dal nobile intento di colmare quello che erroneamente ritieni un solco e che, nella realtà, è invece un baratro. Non si può, infatti, ridurre una divaricazione culturale e politica ad un semplice «dissenso», magari imputandolo agli atteggiamenti irritanti «quasi isterici» caratteristici dell'on. Rauti: sarebbe meschino e indegno se ciò rispondesse al vero. Infatti, così non è! Le ragioni della «distanza» (che sarebbe più congruo definire «contrapposizione») tra la Sinistra Nazionale e il MSI-Fiamma hanno ben diverso spessore e sono largamente presenti anche nel Tuo intervento che, sfrondato dall'usuale retorica e dalle colte e puntuali considerazioni sulle caratteristiche del «capo», bene riassumono le posizione di «estrema destra» nella quale Rauti ha collocato la sua ennesima creatura. In specie nella parte conclusiva: con il messianico richiamo all'«uomo del destino» che «in un momento quasi magico potrà emergere».
Non solo, per quanto ci riguarda, non condividiamo questa «messianica» attesa, ma questa è l'esatto opposto della concezione che noi abbiamo del movimento politico, in quanto riteniamo che la concentrazione di potere nel singolo individuo -ancorchè dotato di capacità morali, politiche e intellettuali straordinarie- sia una limitazione inaccettabile al diritto che hanno i singoli aderenti di esprimere e far valere il loro punto di vista, nei modi e nei tempi deputati. E ancora più grave sarebbe (come lascia intendere il richiamo al «rimedio istituzionale» della Roma repubblicana), se l'invocato avvento del «Taumaturgo» sia auspicato oltre che come «rimedio» alla crisi di un soggetto politico, anche quale soluzione «idonea» a risolvere i gravi e complessi problemi dell'intera comunità nazionale. Su questo occorre essere estremamente chiari e netti: non solo la Sinistra Nazionale è ferocemente avversa a qualsiasi tipo di autoritarismo, ma consideriamo criminale qualsivoglia iniziativa tesa a spogliare il popolo della sovranità che gli appartiene. Al contrario, lottiamo perché questa sovranità possa dilatarsi e meglio esprimersi attraverso forme di partecipazione più incisive di quelle attuali.
Questo è il senso della nostra diffidenza verso l'ipotesi corporativa, se questa è intesa «come metodo per armonizzare i conflitti sociali, annullare gli antagonismi di classe nel superiore interesse della nazione». Lo scontro di interessi tra lavoro e capitale all'interno delle società liberali può essere eliminato solo rimuovendone le cause. Il «corporativismo» -come l'esperienza del Ventennio insegna- può solo produrre il risultato di conferire maggior potere economico, e di conseguenza politico, alle oligarchie capitaliste privando, di fatto, le classi subalterne dell'unico strumento di difesa possibile: il diritto di sciopero. Questa è la logica, a nostro parere, della sconfessione, sostanziale, dell'esperienza corporativa (che è anche sconfessione dello Stato autoritario) del Fascismo repubblicano che promulgando la "Legge sulla Socializzazione delle Imprese" non si limitava a risolvere il contrasto capitale-lavoro, ma si poneva l'obiettivo ultimo di restituire al popolo la sovranità politica; con forme di partecipazione «democratica». Questa volontà è chiaramente espressa nel "Manifesto di Verona" che costituiva la «traccia» per la futura "Costituzione", e nel quale esplicitamente si prevede il multipartitismo e si riconosce il ruolo insostituibile dell'opposizione. Questo da già un'idea delle divergenze-distanze tra chi continua a proporre un minestrone ideologico-politico a base di: Stato organico, èlites spirituali, corporativismo, culto del capo, ecc., e quanti, invece, vedono nell'esperienza del Fascismo-movimento (e non solo) il logico sviluppo del socialismo antimarxista.
Non mi soffermo su altri argomenti che, come ricordavo sopra, sono stati ampiamente chiariti nei numeri di aprile e maggio. In conclusione, però, è necessario rilevare alcune contraddizioni «clamorose» tra quello che sostieni in "Lettera a cuore aperto" e le iniziative politiche per le quali chiedi anche una nostra collaborazione.
Non si possono scagliare anatemi nei confronti dei sedicenti «marescialli», sostenendo «ho tracciato un frego sopra quei nomi annotando sopra: deceduto» e nello stesso tempo farci pervenire un documento tipo quello dell'associazione "Incontro", da Te presieduta, che «ha l'ambizioso programma di collegare fra loro le diverse anime della nostra "area" con l'operazione "tenèmose a vista"». Quali sarebbero queste anime? "Candido" di Romano Misserville (senatore di AN), "Commentari" di Luciano Lami, "IdeAzione" di Domenico Mennitti (finanziato da Silvio Berlusconi), "Motivi" di Carlo Ciccioli, "Publicondor" di Stefano Delle Chiaie, "Realtà Nuova" di Domenico Gramazio (deputato AN), "Italia Tricolore", ... Cosa dire: la destra più retriva, quella liberalcapitalista, quella radicale, mischiate in un rivoltante cocktail con "Aurora" e "Nuove Angolazioni" che hanno costantemente manifestato il proprio irriducibile antagonismo alla destra: tutta la destra. Cosa dire poi del panegirico sull'eroico Buontempo (sulla coerenza del quale non mi pare sia il caso di sprecar parole), o degli «eretici» giovanotti del «circolo di AN» che trasgrediscono agli ordini di Gianfranco Fininvest esponendo (quanto acume politico... quanta sensibilità sociale... quanta autonomia critica in questo spavaldo gesto) il «Tricolore a mezz'asta con tanto di nastro nero» (sic!). Dio mio! Mi pare di sognare.
Caro Rutilio, hai commesso un errore: prima di scrivere la "Lettera" era opportuno informare delle Tue intenzioni l'on. Rauti. Ti avrebbe spiegato che nei confronti di questo mensile è stato decretato l'ostracismo, in quanto si tratta di una pubblicazione «marxista-leninista», pagata non si sa bene da chi. E forse avrebbe anche accennato a qualche giovanotto (in verità sono sempre più numerosi) sottoposto a processo da un "Tribunale" di «duri e puri» e minacciato di espulsione perché colpevole di corrompere i giovani con idee comuniste «come la socializzazione», e perché «parla troppo di Berto Ricci e Nicola Bombacci».

L. C.

 

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