da "AURORA" n° 27 (Luglio 1995)

ECONOMIA E POLITICA

Il tramonto del socialismo

Giovanni Mariani

Il recente Editoriale scritto da Lucio Colletti, pubblicato sul "Corriere della Sera" col provocatorio titolo: "Il tramonto del Socialismo" non poteva lasciarci indifferenti. Chi come noi, da sempre si colloca nell'ambito storico e ideologico della tradizione, non può condividere l'ipotesi di un «tramonto» così come l'ha ipotizzata il Colletti, ex-marxista divenuto, a tempo pieno, aedo del rullo compressore liberale. Ciò perché sarebbe bene chiarire che l'offensiva liberista, così come il già allievo di Galvano Della Volpe evidenzia, è oggi lo spartiacque naturale tra quanti si definiscono liberali (tanto a sinistra quanto a destra) e coloro che si oppongono ad un assetto socio-economico che riporterebbe l'Italia indietro di un secolo.
Ma veniamo ai contenuti. Il pretesto usato dal «pentito» Colletti per arrivare ad affermare «l'alibi evoluzionista», è che la Sinistra attuale intende scrollarsi di dosso il «fardello socialista», come dimostrerebbe il Congresso straordinario del Labour Party inglese, nel corso del quale è stata abolita dallo Statuto la clausola n° 4 che, approvata alla vigilia della Rivoluzione sovietica dell'ottobre 1917, contemplava l'impegno dei laburisti a perseguire una politica che favorisse la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, distribuzione e scambio; in sintesi la nazionalizzazione dell'economia.
Appare perfino banale puntualizzare che un principio, di concezione quasi bolscevico, quale è l'art. 4, non avrebbe avuto comunque ragione d'essere nel contesto di una socialdemocrazia europea (nella quale ha sempre agito il partito laburista), in specie se si intende sottolineare, come fa il Colletti, la storica svolta di Bad Goedesgorg, ove la SPD tedesca di fatto sanciva l'abbandono del marxismo, come momento di rottura tra liberalismo e socialismo.
Ma se risulta abbastanza evidente che il socialismo democratico europeo occidentale aveva già da tempo operato una revisione totale sia del concetto di «rivoluzione proletaria» e di «dittatura del proletariato» che di «abolizione della proprietà privata», non comprendiamo il perché di tanta pubblicità data ad un episodio dal valore solo burocratico (quasi «notarile», verrebbe da aggiungere), visto e considerato che nessuno dubitava che il socialismo britannico, oramai considerato più a destra dei «Fabiani di antica memoria», intendesse perseguire la strada, a suo tempo, inaugurata dalla Terza Internazionale. Ciò risulta, invece, più comprensibile alla luce dell'involuzione liberale di tutta la sinistra europea, i cui meccanismi possono essere appieno capiti se si analizzano a fondo le ultime scelte dei laburisti inglesi.
L'art. 4, nella sostanza, al di là della sua radice marxista -in bilico tra IIª e IIIª Internazionale- aveva un significato assai più pericoloso che non quello paventato dalla «rivoluzione proletaria»; esprimeva, cioè, l'esigenza della nazionalizzazione dei centri vitali per l'economia. È quindi evidente che la svolta della Sinistra britannica non può essere assimilata a quella tedesca del 1959 (che era essenzialmente antimarxista), come pretende Colletti, ma va vista come una vera e propria svolta antisocialista.
Nei fatti, questo ripudio del sistema economico nel quale lo Stato mantiene il controllo dei punti chiave dell'economia nazionale, della educazione scolastica, della previdenza sociale, ci ricorda molto da vicino le posizioni della signora Thatcher e dei suoi epigoni italiani del "Polo della Libertà".
Nella sostanza, la sinistra britannica (imitata, purtroppo, dalla sinistra italiana) si è convertita alla politica del ridimensionamento o della disintegrazione -a seconda dei punti di vista- di quel Welfare State di cui si fece promotrice nell'immediato dopoguerra. Questa secondo noi e la questione sulla quale bisognerebbe riflettere a fondo; perché se è vero che il collettivismo marxista è stato seppellito dalla propria inadeguatezza, lo stesso non si può affermare per lo Stato sociale che rimane l'unico intralcio all'affermarsi del capitalismo selvaggio.
Certo Colletti non onora la sua fama di uomo erudito e perspicace, quando con toni drammatici pretende di evidenziare i guasti che Socialismo e Stato sociale avrebbero prodotto, arrivando ad attribuire il miracolo economico tedesco all'esclusione, fin dal 1982, della socialdemocrazia da responsabilità di governo; ricorda che «in Inghilterra i laburisti sono all'opposizione fin dal lontano 1979», e attribuisce ai partiti socialisti di aver aperto «... la spirale infernale dell'aumento del debito pubblico nonché della pressione fiscale, unita a servizi meno efficienti e burocratizzati».
Ci pare inutile sottolineare come la gestione «conservatrice», in Inghilterra, non sia riuscita comunque a risolvere in maniera decorosa i presunti danni causati dallo Stato sociale alle economie occidentali, sia a guida liberale che socialista, essendo stati questi in larga misura determinati dalla crisi economica prodottasi a causa dello scontro arabo-israeliano che comportò uno straordinario aumento del prezzo del petrolio.
Ma ciò non basta. Colletti arriva ad elaborare una serie di curiose teorie per liquidare il socialismo, simili a quelle utilizzate per smontare il modello comunista (le stesse, ci permettiamo di aggiungere, utilizzate in anni non troppo lontani per esaltare il "socialismo scientifico" di Carlo Marx). Infatti, egli sostiene:
1) le teorie economiche elaborate dal socialismo moderno non fanno più riferimento ad economisti marxisti come un tempo (Hilferding, Bauer, Luxemburg, Mehring, perfino Pannekoek), bensì ai capitalisti di sinistra a partire da Keynes per finire a Galbraith e ai meno conosciuti Robison e Kalecki;
2) il marxismo è fallito di per sé (se ne è accorto con un po' di ritardo !?!) dopo la caduta del Muro di Berlino che ha evidenziato appieno il fallimento dell'economia collettivista e che ha dimostrato «di essere la negazione pura e semplice dell'economicità e di qualsiasi uso razionale delle risorse;
3) visto e considerato che il socialismo attuale ha dimostrato ampiamente (?) il suo fallimento economico arrivando, per limitare i danni, ad utilizzare le teorie di economisti non-socialisti, non avrebbe senso continuare a parlare di socialismo, appurato che tanto nella sua forma autoritaria che in quella democratica non ha saputo produrre risultati apprezzabili.
Questa, in sintesi la teoria del Colletti, volta per altro ad eliminare il termine socialista dal vocabolario politico. E per giungere questa ambita meta egli non esita a mettere il dito in una piaga sulla quale anche noi della Sinistra Nazionale concordiamo, anche se muovendo da altri presupposti.
È chiaro che se nel socialismo non sono rinvenibili ricette economiche in grado di sostituire quelle liberali, socialdemocratiche e collettiviste sovietiche, perché mai dovrebbe continuare ad esistere? Perché mai dovrebbe farsi garante delle «rivoluzioni liberali»? E se la strada è questa -si domanda Colletti in modo provocatorio- che senso può avere (...) il simbolo dell'Internazionale comunista ai piedi della Quercia, simbolo di quel Partito che dovrebbe garantire la svolta liberale?
Il ragionamento di Colletti rimane comunque sibillino; dal suo editoriale non si evince se egli intenda recitare un ruolo provocatorio al fine di pungolare la sinistra socialista affinché non scompaia da neofita nei banchi dell'accademia liberista, o invece invitare la sinistra italiana a disfarsi al più presto del fallimentare fardello marxista e per certi versi anche delle vecchie teorie socialdemocratiche, per assumere il ruolo di sinistra liberale.
Qualunque valutazione si intenda dare del ragionare del Colletti, sono quantomeno necessarie alcune precisazioni: ci pare che la dinamica politica, presente nell'editoriale, è inconsapevolmente prigioniera del manicheismo marxista a tal punto da non prendere in considerazione nessuna altra forma di socialismo che non sia quella da lui in passato professata. Ne risulta un sillogismo abbastanza elementare: il socialismo è Marx, Marx è morto, il socialismo è morto.
Questo sillogismo avrebbe una sua validità qualora la tradizione socialista non avesse altro padre all'infuori del Filosofo di Treviri; il che ci pare ipotesi insostenibile. Una «Terza Via» tra capitalismo liberista e marxismo collettivista è sempre esistita. E il crollo del marxismo non rappresenta, a nostro parere, la fine del Socialismo quanto la fine dell'egemonia del collettivismo, durata quasi un secolo e che ha per decenni impedito al socialismo di affermarsi.
La fine di questa egemonia non si dissolve nella dinamica manichea del «Mosca o morte», come asserisce Colletti, bensì sancisce il ritorno a quel socialismo che a partire da Leroux (che fu il primo ad utilizzare il vocabolo socialismo) si costruì attorno a pensatori del calibro di Louis Blenc, Owen, Fourier, Lassalle (il quale accostò per la prima volta il socialismo alla nazione) per finire agli italiani Pisacane e Gentilini e all'Unione dei Socialisti (ispirati a un Socialismo patriottico) fino ai Fasci di Combattimento e alle esperienze socializzatrici della componente di sinistra del Fascismo repubblicano che riabilitava Lassalle, Pisacane e Mazzini.
Senza, con ciò, dimenticare il socialismo utopistico che per decenni è stato ben presente all'interno dei partiti socialisti europei e persino in non isolate frange del comunismo terzomondista che ha sempre digerito a fatica il dogmatismo imposto da Mosca.
Il socialismo scientifico marxista ha di fatto impedito, per mezzo secolo, l'esprimersi dell'altro socialismo: quello che non si era mai posto l'obiettivo di abolire l'iniziativa privata e di collettivizzare l'economia, ma che voleva giungere attraverso la coogestione e la partecipazione ad una più congrua ridistribuzione delle risorse e ad un diverso rapporto tra capitale e lavoro. Considerando poi, che la società perfetta teorizzata dal marxismo si è dimostrata nei fatti molto utopistica e poco scientifica, si potrebbe obiettare che la socialdemocrazia avesse in qualche modo aderito alla visione «umana» del socialismo. 
Ci permettiamo di dubitarne, perché è noto che la cosiddetta "corrente riformista" della IIª Internazionale differiva dall'ala «rivoluzionaria» solamente nella prassi per la conquista dello Stato: ossia la «via parlamentare» contrapposta alla «via rivoluzionaria». Ma il dogma ispiratore era il medesimo, a parte il revisionismo elaborato da Bernstein al Congresso di Stoccarda del 1898, l'incidenza del quale fu marginale persino tra quelli che si dicevano suoi seguaci e che, comunque, non si affrancava certo dalla dottrina marxista.
Concludendo, dovremmo dunque ipotizzare, alla maniera di Colletti, una socialdemocrazia post-marxista, quale depositaria della «Terza via», legata mani e piedi al capitalismo multinazionale oggi, come lo era stata ieri del collettivismo bolscevico?
Noi pensiamo di no! 
Il socialismo e i suoi valori erano e restano alternativi sia al capitalismo collettivista di Stato che alla democrazia dei "Trusts".
La morte del socialismo, per quanto possano auspicarla i «pentiti» alla Colletti è al di la dal venire e il socialismo continua a rappresentare l'unico possibile riscatto per gran parte del genere umano.

Giovanni Mariani

 

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