da "AURORA" n° 27 (Luglio 1995)

EDITORIALE

Normalizzazione e subalternità:
una politica per i nani

Luigi Costa

Allorché col crollo del Muro di Berlino si disintegrò l'assetto geopolitico stabilito nella Conferenza di Yalta, incarnatosi poi nella contrapposizione bipolare tra le superpotenze americana e sovietica e nelle rispettive alleanze militari e zone d'influenza economica e politica, le analisi dei «centri studi» e dei singoli esperti di strategia prevedevano, quale rimedio al vuoto di potenza e agli squilibri «geopolitici» che ne erano risultati, l'avvento di un «Nuovo Ordine» in grado di circoscrivere e tenere sotto controllo i fattori di instabilità, che col crollo dell'Unione Sovietica, si erano immediatamente manifestati.
Questo compito, formalmente conferito alle Organizzazioni internazionali e alle alleanze militari pre-esistenti (ONU, NATO, FMI, Banca Mondiale, ecc.) era in realtà egemonizzato militarmente e sottoposto al controllo politico degli Stati Uniti che, dopo il collasso sovietico, erano gli unici in grado di poter espletare, possedendone le risorse «geo-strategiche», il compito di «gendarmi planetari».
Le prime grandi crisi internazionali, infatti, dalla blitzkrieg contro l'Iraq, all'operazione di polizia in Somalia, alla pacificazione di Haiti, all'invio di truppe ONU in tutti gli angoli del Globo, più che rispondenti all'esigenza di mantenere un giusto equilibrio tra gli Stati, si rivelarono funzionali al mantenimento dello status quo egemonizzato dalla potenza americana. Apparve chiaro che il «Nuovo Ordine» altro non era se non lo strumento, attraverso il quale, gli USA mantenevano ed accrescevano la loro supremazia e che le Nazioni Unite (e le altre organizzazioni internazionali) erano una formidabile arma di ricatto e pressione con cui Washington puniva o premiava i singoli Stati a seconda del rifiuto o della condiscendenza alle sue direttive. Fu infatti l'esigenza statunitense di mantenere sotto stretto controllo le fonti energetiche, che determinò la guerra contro l'Iraq e non certo il disinteressato senso di giustizia degli Occidentali che imponeva di ristabilire il diritto internazionale, violato da Saddam Hussein con l'invasione del Kuwait.
Poi vennero in luce, con l'unificazione della Germania (e il rapido riequilibrio economico dell'ex-Repubblica Democratica), la crisi economica e politica dell'Impero russo (con le spinte secessioniste delle nazionalità), la frantumazione degli Stati multinazionali (Cecoslovacchia e Jugoslavia), il repentino sviluppo produttivo del Sud-Est asiatico (che dilata a dismisura le potenzialità «geo-economiche» di un'area che gravita attorno all'Impero Giapponese), la crisi economica della superpotenza americana e le conseguenti perturbazioni valutarie, i limiti di una strategia di dominio imperniata essenzialmente sulla potenza militare.
Di questi limiti è un paradigma le crisi balcanica, nella quale gli Stati Uniti sono stati costretti ad un ruolo di subalternità (e dove l'ONU ha mostrato tutta la sua inadeguatezza, rivalutando persino quella Società delle Nazioni che, nella seconda metà degli Anni Trenta si rivelò incapace di porre argini alla tragedia che si andava profilando) dall'interventismo franco-britannico, volto a coagulare attorno alla Serbia, loro tradizionale alleata, una zona di contenimento dell'espansionismo economico tedesco.
Si ha l'impressione, che i politici italiani non abbiano recepito né l'importanza né il senso del mutamento prodotto dal dissolversi degli equilibri stabiliti a Yalta, e dal ridimensionamento della potenza russa, col conseguente crollo del Sistema bipolare. Non sembrano aver ancora capito che il quadro «geopolitico» precedente è stato spazzato via, e che la situazione attuale è per molti versi simile e quella anteriore al 1914, avendo le nazioni riacquistata gran parte della loro libertà d'azione e che lo scontro per il controllo delle zone d'influenza si è trasferito dal piano «geo-strategico» (militare) a quello «geo-economico» (controllo della produzione industriale, delle grandi vie di comunicazione, delle materie prime).
L'hanno ben compreso i tedeschi, che hanno saputo trarre profitto dal «vuoto di potenza» e dalla fase di imprevedibilità e incertezza da questo vuoto determinata. La politica sviluppata dalla Germania, in questi ultimi tre anni, va ben al di là della ripresa del tradizionale Drang nach Osten e grazie alla sua capacità produttiva e alla forza finanziaria del Marco, si propone come nucleo centrale per la futura unità europea. La Nazione tedesca non rivendica, in questo frangente, unicamente lo storico ruolo di potenza egemone del Centro-europa sbilanciata ad Est (:con accordi di reciproca mutualità, per il momento solo economica, con Ungheria, Polonia, Finlandia, Lettonia, Estonia, Lituania, Ucraina e con un pesante e deciso intervento nei Balcani a sostegno di Sloveni, Croati e Bosniaci), ma riequilibra questa vocazione, storicamente rivelatasi pericolosa e perdente, stringendo stretti rapporti economici e militari con la sua antagonista storica, la Francia che è, ci pare importante sottolinearlo, anche una potenza militare dotata del deterrente nucleare.
In questo scenario, non vi sono tracce, come si evidenziava in precedenza, di iniziative italiane. Circostanza che non possiamo solamente attribuire alla risaputa debolezza del nostro apparato militare, alla fragilità storica della nostra diplomazia (incapace da sempre di perseguire con coerenza gli interessi nazionali) o alla crisi della nostra economia. A noi pare, che l'immobilismo italiano sia prodotto dalla inadeguatezza del ceto politico: ossia dai limiti culturali e dalla cecità di una classe dirigente permeata dal più vieto provincialismo, incapace di penetrare analiticamente l'essenza degli sconvolgimenti europei e mondiali. Un ceto politico da sempre avvitato su sé stesso che impiega le sue già scadenti qualità nella perpetua e inconcludente rissa tra fazioni che mai si placano, nemmeno a fronte della necessità di tutelare vitali interessi collettivi.
I guasti prodotti da questa situazione sono devastanti; non solo, quella che viene ritenuta la «sesta potenza economica planetaria», è priva di un'organica strategia geopolitica tesa a salvaguardare i propri interessi, ma ha con disinvoltura imboccato il vicolo cieco della doppia sudditanza. Vale a dire: da un lato si fa sempre più marcata e soffocante la nostra subordinazione alla strategia militare e politica degli Stati Uniti (per i quali Inghilterra e Italia sono le «piattaforme» ideali per tenere sotto controllo la nascente alleanza franco-tedesca); dall'altra si rivela sempre più oneroso il tributo non solo verso la potente economia teutonica, ma anche verso quelle nazioni (alla Germania subalterne), come la Francia e, questo ci pare oltremodo scandaloso, verso Olanda e Belgio.
Sul piano «geo-strategico», non solo è vergognosa la condiscendenza italiana alla politica militare statunitense, con basi navali, aeree e terrestri poste sotto il diretto controllo americano, ma essa produce anche deleteri effetti «geopolitici», costringendoci ad una politica «monca» in quella che è sempre stata, e rimane, la nostra area di intervento: il Mediterraneo. Tutto questo ha risvolti interni non trascurabili, in quanto è ormai evidente che lo sviluppo delle Regioni meridionali non può essere innescato da interventi straordinari (tipo Cassa del Mezzogiorno) e non può a lungo (senza grave pregiudizio per la stessa integrità nazionale) essere surrogato dalle politiche assistenziali, com'è accaduto nell'ultimo mezzo secolo. I problemi del Sud Italia possono essere risolti unicamente ristabilendo le condizioni atte a stimolare la tradizionale vocazione culturale ed economica mediterranea delle genti meridionali, permettendo loro di esprimere tutta la loro potenzialità.
Dal lato «geo-economico», emerge con solare evidenza la condizione del nostro apparato produttivo; il "Trattato di Maastricht", infatti, ha accentuato le nostre difficoltà e con esse la nostra dipendenza tecnologica e produttiva dagli altri partners della CEE. La «sesta potenza economica mondiale» ha, nei fatti, rinunciato alla quasi totalità delle sue industrie «strategiche»; smobilitate l'industria chimica e quella dell'acciaio (con il criminale ridimensionamento della capacità produttiva di ENI e IRI), regalate di fatto l'Elenia e altre imprese a grande capacità tecnologica al capitale transnazionale, annichilite le capacità tecniche e produttive dei cantieri navali, degradato il sistema creditizio esponendolo alle scorrerie della speculazione valutaria, distrutto l'allevamento e ridimensionata la produzione agricola, l'Italia si è solo ritagliata, grazie alla capacità dei suoi artigiani e della media industria (e non certo per oculata scelta politica), una quasi egemonia continentale nelle produzioni di media tecnologia nel settore manifatturiero.
Va da sé, che la produzione di occhiali, scarpe e vestiario -per quanto importante- non compensa la perdita, sia in termini di indipendenza economica e tecnologica, sia in termini occupazionali, di importanti settori strategici. Basta considerare quanti quintali di scarpe, vestiti e occhiali occorra produrre e commercializzare per acquistare un airbus o gli acciai speciali indispensabili per la nostra produzione di macchine utensili: per farsi un'idea, basta dare un'occhiata a quest'ultimo settore nel quale l'Italia primeggiava e che oggi ci vede cedere quote di mercato, sempre più consistenti, alla produzione francese e tedesca.
Ma ciò non basta per comprendere appieno tutta la drammaticità del quadro: non è tanto la crisi economica e il deficit di iniziativa «geopolitica», il metro con il quale misurare i limiti del nostro ceto politico, ma il dover constatare la totale assenza di riferimenti, nel dibattito politico, ad argomenti pur così vitali.
Le nazioni non possono sopravvivere, come entità libere e indipendenti, se rinunciano ad esercitare la sovranità e a difendere i propri interessi economici. Una verità questa persino banale se riferita a qualsivoglia governo non solo dell'Occidente liberista e capitalista, ma anche del Terzo e Quarto mondo. Solo in Italia le diverse «entità» politiche, sia di destra che di sinistra, sono incapaci di anteporre ai loro personali tornaconti le esigenze della comunità nazionale. I nostri politici continuano a recitare a soggetto: elezioni, antitrust, referendum, reciproca legittimazione, tavolo delle regole, democrazia dell'alternanza, normalizzazione dei rapporti politici, rapporti tra politica e magistratura, riforma della riforma elettorale. Un bailamme, insomma, in cui tutti post-fascisti, post-comunisti, neo e post-democristiani e tirannelli videocratici esaltano la propria affidabilità democratica e la irreversibile vocazione liberista. 
Sui problemi veri, concreti, urgenti nulla! La classe politica non ha recepito il mutamento degli equilibri internazionali, continua a blaterare di Seconda repubblica ed è sempre condizionata dalle categorie mentali e comportamentali della Prima. Allora si ritiene indispensabile il pellegrinaggio alla City, si attende con ansia l'invito ufficiale negli Stati Uniti; lontani anni luce dalla lucidità e dal pragmatismo che hanno spinto i Khol, gli Chirac e tutte le èlites europee appena responsabili, a tornare alla «grande politica». I politici italiani sono rimasti prigionieri della mediocrità propria alle corrotte classi dirigenti succedutesi nell'ultimo dopoguerra; incapaci di pensare in grande, di assumersi responsabilità chiare e definite, di recitare in ruoli che non siano subordinati e secondari.
Noi non vogliamo certo evocare «missioni mediterranee», né prospettare per l'Italia ruoli di grande potenza, ma ci pare scandaloso che perfino un «mare interno» com'è l'Adriatico sia divenuto «mare degli altri», mentre si continua ad ostentare indifferenza nei confronti di regioni giocoforza gravitanti verso la penisola, come l'Albania e l'Istria. Ciò avviene nel momento in cui gli Stati Uniti in Albania e la Germania in Istria danno corso a progetti economici di grande respiro. Non a senso politico, tanto per fare un esempio, riconoscere validità, dopo la dissoluzione della Jugoslavia, al "Trattato di Osimo" subendone tutti gli effetti negativi e non rendere operativi quelli positivi, non pretendendo l'immediata realizzazione di quella zona economica mista italo-slovena attorno alla quale si potrebbe costruire quella «regione autonoma europea», vagheggiata dalle genti istriane, Croati compresi, in grado di controbilanciare il progetto viario austro-tedesco-ungherese che rischia di strozzare tutta l'economia del Nord-Est italiano con un asse produttivo, sloveno-croato, imperniato sui porti di Fiume e Capodistria.
Le conclusioni da trarre da questa breve analisi sono due.
La prima: la sudditanza «geo-strategica» nei confronti della superpotenza americana inibisce lo sviluppo di una politica autonoma in grado di tutelare gli interessi nazionali specie nell'area, per noi vitale, del Mediterraneo. La presenza di basi aeronavali e logistiche degli Stati Uniti, stretto alleato dello stato israeliano, nel nostro territorio nazionale, è d'intralcio allo sviluppo di più stretti rapporti politici, culturali ed economici con i Paesi arabi, africani e mediorientali. Rapporti per noi indispensabili.
La seconda: la politica di integrazione europea ha fortemente danneggiato l'economia italiana in settori di produzione vitali. Il "Trattato di Maastricht" imposto dalla nazione economicamente egemone, la Germania, marginalizza il nostro Paese, costringendolo a occupare solo nicchie di mercato secondarie, ridimensionando il settore primario (allevamento e agricoltura), quello industriale (chimica, siderurgia, cantieristica) e quello della ricerca e dell'alta tecnologia. L'integrazione economica nelle attuali condizioni sarebbe micidiale per l'avvenire del nostro Paese in quanto esso sancirebbe uno stato di subordinazione verso le economie Centro-europee, e sarebbe tale da mettere in forse la stessa unità nazionale. Se, infatti, teniamo conto che le frontiere -degli Stati della CEE- non saranno più confini economici ma solo politici, nessuno garantisce che l'attrazione esercitata dal Centro Europa sul piano economico per il Nord-Italia non si estenda anche a quello politico. Quello che ci pare il rischio, al momento inevitabile, è che in Europa ci vengano riservati solo ruoli da lustrascarpe e camerieri che, se tutto considerando, possiamo ritenere adeguato alla consistenza e capacità della nostra classe politica, non ci pare rispondere alle doti che dopo tutto, anche i più feroci denigratori, riconoscono agli italiani.

Luigi Costa

 

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