La Croce e la Mezzaluna
Francesco Moricca
Santa Caterina da Siena «in una visione del costato di Cristo aperto come una grande porta nella quale entravano due schiere, una di musulmani l'altra di cristiani, intravide misticamente la possibilità che le due fedi si ritrovassero in un'unità superiore».
Così Franco Cardini in un'intervista a più voci dal titolo "Crociate, la Chiesa deve
pentirsi?", pubblicata a cura di Franco Ognibene sull'"Avvenire" del 14 febbraio '95. Interlocutori di Cardini sono Attilio Agnoletto e Khaled Fouad Allam. I quali, ognuno secondo la propria confessione religiosa, sostengono in sostanza la stessa tesi: che, cioè, come soluzione bellica di contraddizioni vaste e complesse, le Crociate implicano, dall'una e dall'altra parte dei contendenti, responsabilità di atti oggi inammissibili e vanno pertanto condannate. Tesi, questa, puramente moralistica, che sottende la preoccupazione di un'incapacità reale di confrontarsi col fondamentalismo islamico e la paura di esso, paura a cui non si ha altro da opporre che uno scontato quanto sospetto pacifismo.
A voler conferire una qualche valenza scientifica ad una simile tesi, bisognerebbe supporre che Agnoletto e Fouad Allam diano per scontato che all'origine delle Crociate vi sia una bieca propensione alla violenza, mascherata dietro pretesti religiosi, che caratterizzerebbe l'umanità del Medioevo sia in Oriente che in Occidente; idea che riprende quella della tragedia volterriana "Maometto: ovvero del fanatismo" e che mi sembra sorprendente in due intellettuali che si riconoscono in una fede, e quanto meno dovrebbero intendere le ragioni della fede, distinguere la determinazione dell'uomo di fede dal puro e semplice fanatismo.
A queste ragioni si mostra invece molto attento Cardini. E ben al di là delle sue competenze di medievista; quantunque vi sia nel suo intervento qualche reticenza dovuta a
considerazioni -suppongo- di opportunità politica, visto che si sta ultimamente affermando una linea interpretativa delle Crociate fin troppo partigiana nei confronti dell'Occidente, e che giunge al segno perfino di negare il filo-arabismo di un Federico II di Svevia: linea interpretativa che fa capo alla destra filo-israeliana e che si caratterizza per essere specularmente opposta -e altrettanto fuorviante- di quella filo-araba della storiografia di orientamento marxista fino ad ieri vincente e indiscutibile. Preziosa cade dunque l'osservazione di Cardini che «i due secoli duri delle Crociate, il XII e il XIII, sono un'epoca nella quale la filosofia greca torna in Occidente proprio per il tramite degli autori arabi, un fatto che sottende forti e profonde relazioni».
L'islamismo stesso -è da dire- aveva alcuni debiti nei confronti dell'Occidente. Debiti filosofici e scientifici con la grecità classica e con l'ellenismo romano; debiti politici con la concezione universalistica bizantina fortemente influenzata dal diritto romano; infine anche debiti sul terreno del costume sociale, visto che all'originaria parità dei sessi vigente presso gli Arabi prima di Maometto (si pensi al ruolo che la vedova Cadigia esercitò nella sua ascesa al potere e al peso che ebbe poi Aisha, la giovanissima vedova del Profeta, durante il primo Califfato) si sostituì un rigido maschilismo di derivazione greca, con l'uso di segregare le donne nell'«harem» (il corrispettivo del greco «gineceo»), onde la poligamia semitica assunse un valore ben diverso da quello originario («poliandrico») proprio al matriarcato dei semiti «agareni». Se questi sono i debiti dell'islamismo nei confronti dell'Occidente, qualcosa è da aggiungere a quelli abbastanza noti
dell'Occidente cristiano nei confronti dell'Oriente islamico, che esercitò la sua benefica influenza a partire dalla formazione dello Stato normanno nell'Italia meridionale e in Sicilia.
Sullo scorcio dell'Alto Medioevo, il cristianesimo -che è quanto dire l'Ordine
benedettino- si trovò a dover fronteggiare la cosiddetta «anarchia feudale», le turbolenze di una feudalità il cui spirito guerriero non era più possibile conciliare col cristianesimo, dopo la breve stagione dell'Impero carolingio e la recessione economica seguita dall'ultima ondata delle invasioni «barbariche» (e fra questi «barbari», oltre ai Normanni, Magiari, Bulgari, vi erano anche gli arabi). Fu proprio un benedettino, San Bernardo di Chiaravalle, che avvertì questa insufficienza del cristianesimo e ne trovò una risposta adeguata, che prima di essere di «ingegneria sociale» e politica -intendo l'istituzione della Cavalleria- era di natura teologica e più in generale metafisica, come si vedrà tra poco.
È San Bernardo, intanto, il fondatore di quell'Ordine Templare col quale storicamente hanno inizio le influenze non solo «culturali» dell'Islam sull'Occidente: quella rivoluzione teologica del cristianesimo della patristica che condurrà alla dottrina iniziatica della Cavalleria, alla concezione dell'«amor cortese» dei trovatori provenzali, dei Fedeli d'Amore, dei poeti siciliani della Magna Curia federiciana e della poesia italiana fino a Dante. I nove cavalieri condotti da Ugo de Payns (il fondatore ufficiale dell'Ordine del Tempio) che sono inviati nel 1118 da San Bernardo a Gerusalemme con lo scopo di presidiare l'accesso ai Luoghi Santi, ma in realtà -com'è documentabile- per effettuare ricerche archeologiche ante litteram fra le rovine del Tempio di Salomone, cercavano i segreti dell'architettura sacra dei maestri muratori del fenicio Hiram? O il Santo Graal, nascosto da Giuseppe d'Arimatea nei sotterranei del Tempio secondo una leggenda? O l'una e l'altra cosa? Senza entrare in simili dettagli, ma avendo presenti le indicazioni generali sull'essenza del Graal contenute nel noto saggio evoliano sull'argomento, si può sostenere che i nove cavalieri cercassero un contatto con la Tradizione Primordiale che si era «oscurata» nei «secoli bui» dell'Alto Medioevo. Doveva essere proprio questo, verosimilmente, il mandato che avevano ricevuto da San Bernardo, colui che il Louis Charpentier, con felicissima espressione, definisce il «superuomo di Dio». (1)
Scopo della missione dei nove cavalieri era dunque di raccogliere tutto il necessario per costruire i fondamenti della dottrina iniziatica e neo-platonica dell'Amore -che peraltro era componente essenziale della concezione della «charitas» cristiana in specie presso i Padri Orientali-, dottrina iniziatica che troverà la sua prima sistemazione nel trattato "De Amore" del chierico provenzale Andrea Capellano.
Prova indiretta -epperò non per questo meno convincente- di questa tesi, è costituita dal fatto che un simbolo centrale e ricorrente delle liriche dei Fedeli d'Amore, dei poeti siciliani, dello stesso Federico II e di suo figlio Manfredi è la «Rosa di Sorìa» (cioè «di Siria», di cui nel Medioevo la Palestina era una parte), senza contare che la pianta ottagonale del federiciano Castel del Monte potrebbe essa stessa alludere schematicamente alla forma di una rosa e al problema della «quadratura del cerchio».
Nell'introduzione al "Federico II e le correnti spirituali del suo tempo" di Antonio De Stefano (un libro fondamentale per la conoscenza delle influenze islamiche sul cristianesimo medioevale e sui rapporti dei Crociati con la cavalleria islamica degli Ismaeliti, col Vecchio della Montagna e i suoi Assassini, col Prete Gianni e il nestorianesimo), Claudio Mutti scrive che il simbolo della sorìa non si riferisce soltanto alla sûriya araba, ma alla regione «che si estende fra la riva orientale del Mediterraneo e il medio corso dell'Eufrate; Sorìa è anche la Syrìe omerica, dove sono le rivoluzioni del sole (tropaì eelioio): una Siria imperborea, identica a Tula, il cui nome riecheggia il sanscrito Sûryâ, che è appunto la denominazione del Sole. D'altronde, secondo una tradizione d'ambito islamico, l'idioma ritmato che Adamo parlava nel Giardino era la lingua siriaca (al-lugha as-suryaniyya). Perciò il paese designato come Sorìa o Siria nei tempi storici appare come la sede recente di un centro spirituale derivato da quello iperboreo (adamico, solare) dei primordi, sicché la federiciana «Rosa di Sorìa» a nulla altro equivarrebbe se non alla Sapienza primordiale, nella sua forma islamica e più esattamente sufica». (2)
In definitiva, è possibile sostenere che l'origine della Cavalleria, con quanto ne seguì per la rinascita dell'Occidente, è
sostanzialmente orientale e islamica; ed è da ritenersi occidentale solo nel senso che fu l'occidentale San Bernardo a volere questa rinascita, con una spregiudicatezza inusitata e «superumana» per un cristiano.
Discutendo delle Crociate, non si deve pertanto prescindere da un'analisi serena delle reciproche influenze fra Oriente e Occidente, ma anche fra Nord «iperboreo» e Sud «pelasgico-tellurico», tal che, nella fase terminale del Ciclo, cioè al presente, i termini della dialettica positivo-negativo appaiono del tutto invertiti rispetto a come si presentarono nei primordi, con un Nord del Pianeta che oggi ha quasi completamente smarrito i suoi connotati iperborei per acquisire quelli pelasgico-tellurici di una cultura dominata dalla smaniosa instabilità propria allo spirito mercantile-piratesco. In un simile oggettivo punto di vista, è possibile osservare i fatti in una prospettiva duplice, dall'alto e dal basso.
Osservandoli dall'alto; non si può più confondere il principio propulsivo dell'evento con le modalità della storica (fisica) realizzazione (come se, per esempio, nella nascita di un individuo umano si riducesse a fatto puramente naturale la copula, la gestazione del feto in una regione anatomica prossima a particolari organi, l'insorgenza d'alcunché di metafisico quale in definitiva è un'individualità autocosciente). Non sarebbe più possibile enfatizzare -ipostatizzare- le motivazioni economico-politiche del conflitto fra cristianesimo e islamismo, non riflettere sui processi che in questo conflitto rinvigorirono sotto ogni aspetto l'Occidente, mentre l'Oriente ne usciva come svuotato, iniziando una decadenza che avrà termine durante il Secondo Conflitto mondiale, quando il nazionalismo arabo, prima di scegliere il campo dei Paesi del «socialismo reale», s'era non per caso, schierato con le Potenze dell'Asse.
Viste invece dal basso, secondo la loro fisicità storica, le Crociate si mostreranno nella medesima luce in cui si mostra una qualsiasi guerra e apparirà allora puerile scandalizzarsi delle efferatezze che vi furono commesse da cristiani e musulmani nella stessa misura, altrettanto puerile di quanto sarebbe scandalizzarsi del fatto che l'evento metafisico della nascita di un essere umano si verifichi in prossimità di parti del corpo assai poco nobili. La guerra e i suoi orrori li si accetta virilmente se sono inevitabili. Se possono essere evitati al prezzo di rinuncie che sono imposte da un superiore senso di giustizia, quelle rinuncie vanno fatte altrettanto virilmente. Il fondamentalismo islamico e tutti i suoi eccessi sono la conseguenza dell'indisponibilità dell'Occidente contemporaneo ad un atto concreto di giustizia. Invece che giustizia l'Occidente offre -non solo all'Oriente islamico- il penoso spettacolo di una callida violenza legittimata dal «diritto internazionale», nonché moralistiche e più o meno lacrimevoli condanne della guerra che non si può, che non si sa se dettate da un tragico sentimento di impotenza o da pura e semplice pusillanimità. Ai cristiani, agli intellettuali cattolici, non si può non additare l'esempio di San Bernardo, il coraggio, la spregiudicatezza del «superuomo di Dio». Charpentier ci ricorda che il Santo non si fece scrupolo di ammettere nelle file dei Templari nobili poco raccomandabili (in tempi di anarchia feudale erano tantissimi) e perfino scomunicati. Un giorno rivolse loro una «bellissima» omelia sulla redenzione, per far loro intendere perché dovessero sottoporsi ad una disciplina durissima. Per avere un'idea, basti pensare che si fondava sul tabù di non rifiutare mai il combattimento, anche in condizioni di inferiorità numerica (uno contro tre, si dice).
Studiando le Crociate in una prospettiva dal basso, vanno fatte tre considerazioni.
La prima riguarda la crudeltà dei Crociati denunciata dagli storici arabi antichi, che spesso viene addotta da certa storiografia «pentitistica» occidentale come prova documentale incontestabile. È da domandarsi quando mai gli intellettuali di un paese in guerra abbiano scritto in termini positivi del nemico. Giudizi obiettivi in merito li possono dare solo i militari seri, quelli, cioè, che non sono indotti ad esaltare o sminuire il nemico per esaltare
sé stessi. Sono pertanto poco attendibili i giudizi sui Crociati espressi da Usama ibn Munquid emiro di Shaizar o dalla principessa bizantina Anna Comnena. Il primo sembra ignorare alcuni eccessi della «gihàd» e non solo quelli relativi alla sua fase originaria e «barbarica». La seconda, dal canto suo, ignora del tutto gli intrighi di corte che aveva sotto gli occhi ogni giorno, per non parlare delle iniquità commesse dai politici bizantini durante la Guerra greco-gotica di cui ci informa -forse anche esagerando- il cronista Procopio di Cesarea nell'opuscolo "Carte segrete". (3)
La seconda considerazione è di carattere storico e concerne l'idea stessa di «crociata» che è esplicita nella «gihàd» ed è anzi uno dei capisaldi teologici dell'islamismo. Essa è totalmente estranea al cristianesimo fino a San Bernardo. I Padri della Chiesa condannano infatti la guerra e la giustificano solo a scopi difensivi. Poiché per il cristiano il pellegrinaggio in Terra Santa aveva un significato molto importante essendo l'equivalente per il musulmano del
pellegrinaggio a La Mecca, i Califfi abassidi avevano concesso ai cristiani occidentali il protettorato morale su Gerusalemme fin dai tempi di Carlo Magno. Ma, agli inizi dell'XI secolo, il Califfo fatimide Al-Hakim aveva cominciato a perseguitare i cristiani impedendo ai pellegrini l'accesso ai Luoghi Santi. La situazione era andata peggiorando con la conquista dei Turchi e la fine del califfato. Sicché la Iª Crociata (1096-1099) ebbe tutto l'aspetto di una guerra difensiva, anche come risposta strategica alle incursioni saracene che devastarono l'Occidente dopo la dissoluzione dell'Impero carolingio (per avere un'idea delle devastazioni causate dagli Arabi, basti pensare che l'antica città calabrese Vibo Valentia fu rasa al suolo nel X secolo, per essere poi riedificata, ma solo come centro fortificato a difesa della capitale dello Stato normanno, la vicina Mileto, da Ruggero D'Altavilla). Le violenze e i saccheggi che i Crociati consumarono durante la Iª Crociata al loro passaggio in Renania, Ungheria e nell'Impero Bizantino, ebbero cause contingenti ma non possono ricondursi a ragioni di principio.
La «crociata» musulmana precede quindi quella cristiana. Inizia, a rigore, quando gli Arabi attaccano l'Impero Romano d'Oriente. La distruzione di Vibo Valentia ne è
un episodio tardo ed è il caso di ricordare che l'Impero d'Oriente si orientalizzerà diventando «bizantino» con Leone III Isaurico per la drastica riduzione territoriale dovuta all'espansionismo arabo. Con maggior precisione si dovrebbe però far iniziare la «crociata» musulmana con l'invasione della penisola iberica, esauritasi poi come fatto militare di grande respiro a Poitiers, dove gli Arabi furono sbaragliati dai Franchi di Carlo Martello e non si dimostreranno più in grado di proseguire l'attacco all'Europa dalla parte occidentale. La «crociata» musulmana proseguirà fino allo scorcio del XVI secolo ad opera dei Turchi sul fronte balcanico. Sul fronte occidentale e segnatamente nell'Italia meridionale, i barbareschi useranno i mezzi esigui, ma efficaci anche sul piano del proselitismo, propri alla vecchia e sperimentata tattica dell'incursione piratesca, finalizzata alla cattura dei cristiani di ambo i sessi da vendere come schiavi nei fiorenti mercati orientali. Le incursioni barbaresche sulle coste calabresi ebbero notevoli influenze politiche e perfino teologico-iniziatiche nella storia europea della seconda metà del XVI secolo: mi riferisco ai casi di due calabresi illustri, Tommaso Campanella e il rinnegato Ulucci Alì (Giovanni o Luca Galeni da Isola Capo Rizzuto), ammiraglio di squadra della flotta turca a Lepanto, il solo ad uscire imbattuto dall'epico scontro. (4)
In quanto guerra «giusta» perché guerra difensiva, la Crociata non dovrebbe ritenersi una «ordalia» o «giudizio di Dio», come sostiene Maurizio Blondet ne "I fanatici dell'Apocalisse". Tale la si può vedere solo nella prospettiva dall'alto, a un livello esoterico. Ma immaginare che lo fosse anche per il popolo cristiano e per gli stessi militi crociati non appartenenti agli Ordini monastico-cavallereschi dei Templari e dei Teutonici, significa appunto confondere la fede dei non iniziati col fanatismo -cui si riferisce esplicitamente il titolo del saggio di Blondet-, dunque ricadere, malgrado tutto, nell'errore di Voltaire. Per San Bernardo e per la Cavalleria europea, si può affermare che la Crociata fu una «ordalia» in quanto, con un passaggio logico -anzi teologico- arditissimo e rivoluzionario per la concezione dell'antica patristica, nel concetto di «guerra difensiva» venne compreso anche quello di «guerra offensiva». Il che, sul piano rigorosamente logico, costituisce una «pericolosa» sussunzione, perché «al credo ut intelligam delle scuole e delle cattedre» viene sostituito -come afferma Silvano Panunzio nella sua introduzione a "San Bernardo" di Guénon- il «credo ut experiar della sperimentazione ascetico-mistica: veicolo della rivelazione personale e base di lancio verso l'assoluto». È da ricordare al riguardo che San Bernardo, ammiratissimo dall'Alighieri, fu il primo a definire la Vergine Maria «Nostra Signora», come «Nostra Signora» e «Madonna» i poeti provenzali e stilnovisti chiamavano la loro «Donna» (letteralmente dal latino, Signora), intendendo non già la loro amasia come una donna reale, ma invece come una metafora della Potenza, della loro virilità spirituale che può anche immanentizzarsi in un amore terreno e impossibile come quello di Abelardo ed Eloisa, senza però esaurirsi in esso.
La terza considerazione che si propone secondo la prospettiva dal basso, riguarda il fondamentalismo islamico; col che si ritorna alle questioni sollevate da Agnoletto e Fouad Allam. Per la stessa ragione per cui le Crociate (specie la prima che non per caso sarà celebrata dal Tasso) furono sentite dal popolo cristiano come una risposta legittima a quel che nei fatti era l'aggressione islamica, la «gihàd» del contemporaneo fondamentalismo non può presentarsi come alcunché di scisso dalla comune coscienza delle genti arabe e più in generale di tutti i musulmani, come alcunché di aberrante e come tale da condannarsi, come lo condannano sedicenti cristiani e musulmani, o piuttosto «spiriti illuminati» più o meno consapevoli di esserlo. Come fanatici non si possono ritenere gli uomini del Medioevo che sostennero a livello di massa le Crociate anche non partecipandovi direttamente e a fianco degli Ordini monastico-cavallereschi, alla stessa maniera non possono ritenersi fanatici moltissimi fra gli Arabi che approvano persino le tecniche terroristiche dei fondamentalisti. Le quali, in effetti, non sono altro che una risposta commisurata ai mezzi adoperati dagli Occidentali, mezzi che vanno dall'embargo ai bombardamenti «di precisione» del «blizkrieg» contro l'Iraq. Il terrorismo islamico non è altro che la risposta dei paesi poveri al sofisticato terrorismo dei paesi ricchi, una risposta che può essere contestata validamente sul piano logico -prima che etico- solo se i paesi ricchi si dimostreranno coi fatti disposti a rinunciare allo sfruttamento puro e semplice delle risorse dei paesi poveri, associandoli, in una situazione tendenzialmente e oggettivamente paritaria, alle proprie attività economiche e senza imporre ad essi il sistema capitalistico. Ove questa disponibilità non esista si abbia almeno l'onestà di evitare condanne moralistiche e si faccia senza ipocrisia quel che purtroppo i prepotenti han sempre fatto sui deboli; fintanto che vogliono e sanno fare i prepotenti si conceda almeno all'avversario -o al nemico?- lo stesso diritto che ci si arroga da prepotenti, di rispondere alla violenza con la violenza: il diritto alla legittima difesa.
Quanto al terrorismo, infine, va detto che esso ripugna alla concezione del mondo propria alla società tradizionale quale nessuno può negare sia ancora quella islamica. Il terrorismo e l'assoluta spregiudicatezza nell'uso dei mezzi sono frutti del «progresso». Che essi vengano fatti propri dalla concezione del mondo tradizionale, significa soltanto una cosa: che esso è costretto ad appropriarsene per non soccombere. Epperò, spostando adesso il punto di vista dal basso all'alto, si potrebbe affermare che è proprio questo il primo passo verso la decadenza dell'ordine tradizionale. E lo è, in effetti, ma laddove venga prima di tutto a mancare il contatto diretto coi valori della Tradizione, laddove il «credo ut experiar» degli uomini come San Bernardo ceda il posto al «credo ut intelligam» dei retori della mistica, cui immancabilmente si sostituirà l'«intelligo ut credam» dei razionalisti materialisti, degli scettici per partito preso, degli indifferenti a tutto fuorché al proprio «particulare».
Che aggiungere, a questo punto, se la Fondazione Agnelli organizza a Torino un convegno per discutere sulla crisi del «pluralismo religioso» in Medio Oriente, che è quanto dire sul declino in Oriente del cristianesimo nelle sue varie confessioni? Basti qui riportare l'amletico interrogativo posto da Marcello Pacini, direttore della Fondazione, che si domanda «quale atteggiamento politico si debba assumere in relazione a questi problemi» dato che è «questa la base implicita per una più ampia evoluzione democratica e pluralista degli Stati e delle società arabe contemporanee». Sull'argomento il Cardinale Silvestrini, Prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali, ha replicato che «la Chiesa non fa un discorso socio-politico, ma di presenza cristiana», la quale ha ben precise ragioni teologiche e vorrei aggiungere iniziatiche, in quanto, afferma il Cardinale: «l'Oriente è la nostra radice. È questa la fondamentale preoccupazione della lettera apostolica "Orientale Lumen" di Giovanni Paolo II: far vedere soprattutto all'Occidente ciò che si è perso con il dramma consumato nel 1054. Quella separazione tra Oriente e Occidente cristiano fu come una deriva di due continenti piuttosto che una frattura violenta e lacerante, cosa che avvenne più tardi con la Riforma». (5)
Con quanto ne seguì per cause da attribuirsi -si può dire- più a Calvino che a Lutero.
Nell'intervento del Cardinale Silvestrini, senza troppo forzarne il senso, è da vedersi proprio la contestazione di questa «evoluzione democratica e pluralista» degli Stati islamici che è nei voti di Pacini. A costui la crisi del cristianesimo orientale interessa solo in quanto determinata dal risveglio religioso dell'Oriente, dal un fondamentalismo che potrebbe suscitare in Occidente -se già non lo sta suscitando- il risorgere di un fondamentalismo cristiano non più antagonista, ma alleato di quello islamico. Che l'Oriente sia «la nostra radice», non va riferito solo alle origini orientali del cristianesimo, ma -mi sembra- a ciò che l'Oriente islamizzato continuò a dare al cristianesimo contribuendo alla sua rinascita in Occidente, in specie all'epoca della Iª Crociata, con San Bernardo prima e con Federico II poi.
Riguardo allo Staufen, va detto che è ormai tempo di mettere da parte l'interpretazione della storiografia più accreditata che ne concepisce il ghibellinismo in chiave «moderna», assolutistica e laica: interpretazione la cui ultima trovata è quella -non a caso- di negarne il filo-arabismo, dopo che questo era stato uno degli argomenti principali per dimostrare la «spregiudicatezza» dell'Imperatore e il suo sostanziale ateismo, in quanto, pur di perseguire i suoi scopi, questi non aveva esitato a venire a patti col nemico della cristianità anche per «far dispetto» al Papa (ci si riferisce alla Crociata «diplomatica» che lo Staufen concluse vittoriosamente senza versare neanche una goccia di sangue cristiano e musulmano). In realtà Federico II, che aveva una concezione sacrale e assolutamente romana e cristiana della dignità imperiale, si opponeva al Papa non in quanto tale, ma perché vi vedeva il più pericoloso oppositore del suo progetto politico: ricostruire l'Ecumene romano, un'unità
geopolitica che di nuovo abbracciasse le opposte sponde del Mediterraneo, la settentrionale e la meridionale, l'orientale e l'occidentale. Tale progetto ha oggi una particolare attualità, una rilevanza che esula dai termini meramente politici come già esulava nella mente del Grande Svevo. Questi termini preoccupano la Fondazione Agnelli, le multinazionali, la setta mondialista.
Si è accennato al fatto che durante la Seconda Guerra mondiale l'islamismo e il nazionalismo arabo scelsero spontaneamente il campo dell'Asse. Si aggiunga ora, a conclusione del discorso, che gli Arabi combatterono egregiamente non solo inquadrati nelle truppe coloniali dell'Esercito italiano, ma anche, a partire dal '42, in un raggruppamento italo-arabo (le "Frecce Rosse") che partecipò alla difesa di Roma contro i Tedeschi, per poi entrare nelle Forze Armate della RSI, fornendo anche numerosi volontari al X Reggimento Arditi. Si ricordano anche le chiare prese di posizione a favore dell'Asse dell'iracheno Rashid el Kilani col suo movimento del "Cerchio Dorato", nonché del Gran Muftì di Gerusalemme. Si ricorda, infine, che reparti arabi inquadrati nella Wermacht parteciparono alla difesa di Berlino, della capitale di quello Stato prussiano che era stato fondato dai Cavalieri Teutonici, i prediletti del Grande Svevo.
Francesco Moricca
Note:
1) Louis Charpentier, "Il mistero dei Templari", Atanòr, Roma, 1985. Charpentier afferma con spregiudicatezza che «la missione (dell'Ordine) del Tempio è in Occidente; in un certo senso, la difesa della Terra Santa non è che uno strumento; un mezzo per compiere il noviziato e per conquistare potere, poiché la campagna pubblicitaria dell'Ordine è imperniata su questa difesa» (pag. 75). L'Autore mette altresì in evidenza l'influenza druidica («pagana») che il movimento benedettino ricevette in Francia fin da quando prese a diffondervisi. Ciò è importante per comprendere le origini del mito del Graal e della «materia» dei romanzi del Ciclo bretone. Va detto che, secondo una leggenda medioevale, in cui credette anche Hitler come prima di lui Filippo il Bello di Francia (colui che distrusse di fatto l'Ordine del Tempio), gli ultimi custodi del Graal furono proprio i Templari.
2) Claudio Mutti, in "Federico II e le correnti spirituali del suo tempo", Edizioni all'Insegna del Veltro, Firenze, 1981, pag. 10-11.
3) Ibn Munquid ci presenta i Crociati come volgari pirati e ladroni, e ironizza sull'ignoranza e cialtroneria dei medici franchi. Anna Comnena descrive Boemondo di Taranto e «quelli della sua risma» come avventurieri e criminali che avevano preso a pretesto la predicazione di Pietro l'Eremita («un celta soprannominato Pietro Cocolla») per impadronirsi di Bisanzio e delle sue ricchezze. Tuttavia è scopertamente affascinata da Boemondo, «un'incarnazione, diciamo così, del canone di Policleto». Ne osserva ammirata la statura fisica «tale da superare di quasi un braccio tutti gli uomini più alti». Ma quello che sembra maggiormente estasiare la Principessa è il fatto che «da tutti i pori emanava come una sensazione di selvaggia durezza», nonché le «sue parole calibrate, le risposte sempre ambigue». Cfr. "Le Crociate", Gallimard, Parigi, 1994, pag. 137.
Quanto allo spirito originario della «gihàd» valga il passo seguente (anonimo): «colui che si lascia sempre dominare dagli altri e subisce tutte le umiliazioni, un giorno lo rimpiangerà. Colui che non prende le armi per difendere la sua cisterna, quegli la vedrà demolita. Colui che non assale gli altri, certo sarà assalito» (opera cit., pag. 93).
La «crudeltà» dei musulmani è testimoniata da questa descrizione della conclusione della battaglia di Atareb vinta dagli Arabi nel 1119: «Quelli dei Franchi che fuggirono verso il campo (il cosiddetto
"ager sanguinis") furono ammazzati (...). Sire Ruggero (di Salerno) fu ucciso, mentre da parte musulmana caddero (solo) venti uomini. Dei Franchi si salvarono del pari non più di venti uomini (...), quasi quindicimila caddero in battaglia (Kamal ad-Din, in op. cit., pag. 59).
A proposito dei giudizi di Anna Comnena, eloquenti di per sé, bisognerebbe riflettere ancora su quanto riferisce Procopio sul Generale Belisario (l'eroe della Guerra greco-gotica), uomo crudele quanto sciocco, strumento nelle mani della moglie Antonina che per tutta la vita fu protagonista di «scandali innominabili». Dell'Imperatrice Teodora, moglie del mitico Giustiniano, Procopio ci informa che «spesso andava ai banchetti con dieci giovanotti e anche più (...) e si metteva al letto con tutti per l'intera notte». Su Giustiniano, Procopio esprime un giudizio certo eccessivo, epperò sulla base di fatti che non possono ritenersi inventati di sana pianta: «ebbe il grave torto non solo di non essersi (mai) voluto schierare dalla parte delle vittime, ma nel non aver disdegnato di erigersi, ostentatamente, a protettore degli estremisti. Finanziava largamente questa gentaglia, se ne teneva molti d'intorno ed alcuni pensò bene di sistemarli in magistrature e in altri posti chiave (Procopio di Cesarea, "Carte segrete", Garzanti, 1977.
4) Un discorso approfondito sull'esoterismo campanelliano, a quanto ne so, non esiste. Campanella certamente si inquadra in quella corrente del pensiero magico rinascimentale donde avrebbe preso le mosse la scienza sperimentale moderna alla quale il Campanella diede innegabilmente impulso, a me sembra, tuttavia, ben al di là delle sue intenzioni. A sostenere ciò mi induce la considerazione della personalità del Campanella, veramente «luciferina» e tesa sempre verso una «operatività» ben diversamente e integralmente orientata che non quella del Galilei. Anche nelle sue apparenti «cadute», nei suoi «compromessi» col potere costituito, Campanella mantiene una coerenza di fondo col suo ideale rivoluzionario; è immune da qualsiasi opportunismo individualistico e borghese. Che gli sia un «precursore» della scienza moderna è pertanto dubbio, nonostante la sua presa di posizione a favore del Galilei (di pensi all'"Apologia"), e nonostante le affinità del suo metodo al moderno. Egli immaginava una repubblica teocratica che nella sostanza non ha niente da spartire con quella tecnocratica che era negli auspici di Galilei e nelle teorie di Francesco Bacone. Benché in stato di oggettiva necessità dopo la liberazione da una quasi trentennale detenzione nelle carceri del Vicereame di Napoli, Campanella rifiuta la somma di denaro che gli viene inviata da Galilei; la rifiuta non per orgoglio, ma perché, come specifica nella risposta all'amico, avendolo a suo tempo difeso per un profondo convincimento, non voleva ora, accettando denaro, che le sue motivazioni ideali dovessero contaminarsi, sia pure «a
posteriori», con alcunché di comunque irriducibile alla idealità.
È dunque anche problematico vedere, nel fallito tentativo di Campanella (che pure era figlio di un poverissimo calzolaio di Stilo) di sollevare la Calabria contro gli Spagnoli, qualcosa che preannuncia, sebbene ad un livello «primitivo», le rivoluzioni «proletarie» dell'età contemporanea. Peraltro, il carattere della teocrazia prospettata dalla «comunista» "Città del Sole" è decisamente tradizionale, da ricondursi, più che all'utopia di Tommaso Moro, di certo più moderna, alle teorizzazioni della Compagnia di Gesù e alla loro attuazione nelle
reducciones dell'America latina. La stessa rivoluzione antispagnola di Campanella dovrebbe inquadrarsi in certe ardite interpretazioni del «diritto di resistenza» che si trovano presso i Gesuiti e presso la setta dei Monarcomachi in specie. La teocrazia campanelliana, inoltre, è ben lontana dalla ierocrazia
controriformistica, e fu questo uno dei motivi di fondo del processo intentato dall'Inquisizione romana contro il monaco calabrese. Questi sognava una società dominata da «uomini santi», non da una gerarchia ecclesiastica i cui membri erano «santi» di diritto piuttosto che di fatto.
In ciò è da vedersi quasi sicuramente l'influenza dell'islamismo, dove infatti non esiste nulla di simile alla Chiesa istituzione (da notare che in una delle sue deposizioni Campanella dichiarò di conoscere tutte le religioni, e sostenne vittoriosamente una disputa con un «giudaizzante», venendo poi accusato dall'Inquisizione per non aver denunciato l'ebreo sconfitto all'autorità costituita).
Da dire infine che, come risulta dagli atti del processo, Campanella si accordò coi Turchi per avere
un aiuto per la sua rivoluzione fallita, che fu anche appoggiata da una parte dell'alta aristocrazia e dei Vescovi calabresi. Campanella si difese davanti ai giudici romani sostenendo che non era vero nulla, che era una menzogna dettata dall'opportunità di celare ai suoi sostenitori l'identità del vero alleato, niente meno che il Papa! Campanella scriverà poi quell'opera ambigua che fu la "Monarchia Spagnola" per scagionarsi davanti all'Inquisizione spagnola. Alla fine, però, sceglierà come esecutore politico del suo progetto di rivoluzione mondiale il Re di Francia, sovrano pur sempre cattolico, epperò certamente avverso alla Spagna. Dal che io mi sono formato l'opinione che il Campanella si mise effettivamente d'accordo col Turco, ma non per ragioni meramente politiche, che per lui -come già per Federico II- erano inconcepibili.
Sulle questioni inerenti all'interpretazione del pensiero campanelliano esiste un volume redatto da insigni specialisti della Deputazione di Storia Patria per la Calabria, edito da Fausto Fiorentino a Napoli nel 1969, in occasione del quarto centenario della nascita di Campanella. A sostegno delle tesi accennate, si vedano le seguenti pagine del libro: 70-71, 74, 76, 161, 165-167 (note), 204-233, 261-291, 449-469. Segnaliamo infine, nello stesso volume, l'interessantissimo saggio di F. Pajac su "La fortuna di T. Campanella in Polonia" (pag. 489-498). Della metafisica di Campanella ebbe ad interessarsi Giovanni Gentile, che dedicò uno studio
approfondito alla genesi del "De sensu rerum et magia" nella sua prefazione ai cinque capitoli del secondo libro pubblicati nel 1906. Dell'opera citata vogliamo riportare qualche brano che evidenzia con notevole efficacia i caratteri imperborei, non demetrici e pre-scientifici del naturalismo del monaco calabrese; il quale naturalismo, pertanto non sarebbe possibile identificare in una forma speciale di panteismo.
Il «senso» che Campanella attribuisce a tutti gli esseri esistenti e all'uomo in maniera intensiva ed estensiva al massimo livello, è una facoltà attiva e non passiva, che agisce «non per informazione (...), ma per immutazione»; il che implica una dottrina generale degli enti come potenza in perpetuo conflitto, e -non mi sembra azzardato affermarlo- una dottrina generale della Potenza (libro II, cap. XV). Tanto più che, teorizzando sul «vuoto» come dimensione di approccio mistico alla
superindividualità di Dio, si legge: «San Paolo dice che se lo spirito ora (prega), la carne ora e la mente (meus ens) è supervacante senza effetto,
perché lo spirito nasce dalla carne e dal sangue, e noi di spirito, carne e membra sian composti, come espone (...) Sant'Agostino (anche ne) "Sopra il Genesi", dicendo che il viro sia la mente, femina lo spirito, serpente la carne»,
sicché «vera sapienza senza passione, ma attiva, è quella di Dio, e in noi e nelle cose è il senso di
sé stesso per cui s'opera naturalmente senza discorso. Da poi è il senso delle cose esteriori ch'è passione, onde sapemo quel che per noi è buono,
poiché non avemo in noi il bene nostro, come Dio, ma lo mendichiamo» (cap. XXX). Contro la possibilità di intendere il suo misticismo come panteismo, Campanella afferma che «è un negare la natura e la forma delle cose» il sostenere «che Iddio va in su col fuoco e luce e sole; et è errore manifesto,
perché le forme spesso errano, dar l'errore a Dio. E segue che pur non l'anima nostra voglia e senta, ma Dio voglia e senta in lei così il bene come il male, il che trapassa l'empietà di Calvino, che dice che Dio spinge l'animo a mal oprare, e non ch'egli solo operi il male, ma con noi» (libro I, capi. VI). Il Monaco poi asserisce d'aver avuto esperienza di Angeli e Diavoli «che si forzarono farmi credere che l'anima va di corpo in corpo e che l'uomo non abbia libero arbitrio», ebbe con loro rapporti «in apparenza certa che mai non l'averei pensato che siano tanto malvagi e pregai Dio che mi facesse vedere Angeli Buoni (...) e il Diavolo disse che tutti son buoni chi più e chi meno, e conobbi grande malignità e diventai più uomo da bene.
Né questa è sapienza di sciocco né di bugiardo, chè dall'uno e dall'altro sempre mi guardai più che dal Diavolo istesso (libro II, cap. XXV). La «dignità» dell'uomo è dunque aspra conquista, lotta all'ultimo sangue contro enti fisici e iperfisici in cui l'uomo può sperare di essere aiutato dagli Angeli. Non si deve sfuggire la lotta, «perché l'uomo imparar desidera e vincere per immortalarsi e assicurarsi contra gli altri e deificarsi: cosa di troppo senno (...). Similmente appetisce il coito per eternarsi, e le belle femine più ama, dove il seme meglio s'avince e produce, e le giovani, non le vecchie in cui s'ammorta (...). Si vede poi lo spirito (che -si è detto- è «femina») gonfiare il membro e muscoli e nervi, e con l'incorporea facoltà,
perché non li gonfiaria senza corporeità; onde è falso dire ch'essa faccia tali atti (cap. 9).
Veniamo ora ad Ulucci Alì, il più celebre dei non pochi rinnegati cristiani dei quali ci offre una penetrante descrizione Miguel de Cervantes nei capitoli XXXIX-XL-XLI del "Don Chisciotte", dove pure si parla di Ulucci Alì in termini molto lusinghieri contrapponendolo -«uomo moralmente onesto»-
al rinnegato veneziano Hassàn Pascià che «divenne il più crudele rinnegato che io abbia mai conosciuto» (detto di sfuggita, l'islamismo esercitò su Cervantes un'influenza non solo limitata alla sua «bildung», come si può osservare dal fatto che i citati tre capitoli, in cui si parla della storia dello schiavo -lo stesso Autore-, sono preceduti dal capitolo sulle Lettere e le Armi, enigmatica riflessione sulla «contiguità» dei due mestieri più consoni alla concezione del mondo spagnola ed europea nell'età della controriforma). Senza addentrarci sulle vicende della vita avventurosa di Galeni Ulucci Alì su cui è fiorita tutta una leggenda, mi limito a ricordare che, dopo l'impresa di Lepanto che vide il rinnegato e la sua squadra di 63 galere unici e vittoriosi superstiti della flotta turca, egli fu nominato comandante supremo dell'Armata del mare ottomana e incaricato della sua ricostruzione (questa carica era la terza dell'Impero, dopo quella di Sultano e di Gran Visir). Galeni arma in breve tempo 200 navi, riprende Tunisi, firma la pace separata coi Veneziani. Diventa talmente temibile che gli Spagnoli cercano di tirarlo dalla loro parte fidando sulla diceria che egli fosse in cuor suo sempre restato cristiano. Galeni si mostra disponibile a tornare sotto la Spagna e chiede per
sé il Principato di Salerno, ma poi tronca le trattative. Morirà nel 1587 o nel 1595 (era nato intorno al 1520) e verrà sepolto nella grande moschea che aveva fatto costruire a sue spese sulle rive del Bosforo. Una leggenda vuole che avesse organizzato i suoi schiavi (3.000 a detta di Cervantes) in una comunità ispirata al modello del cristianesimo primitivo, coadiuvato in ciò dal suo ministro degli schiavi, il rinnegato spagnolo Pirillo, e da frate Cardone, che era stato rapito con lui sulla spiaggia di Isola ed era stato suo compagno nel corso di una molto movimentata esistenza. Al riguardo si veda l'"Occhialì istoriae" di Nino Gimigliano; si tratta dell'XI capitolo di un romanzo storico ancora incompiuto, "Cosacco al galoppo", in cui l'Autore prende spunto dal processo celebratosi nel 1945 in Catanzaro contro i giovani del gruppo "degli 88", i quali, dopo l'8 settembre '43, avevano dato luogo ad episodi di resistenza armata contro l'invasore
angloamericano. Nel libro è inserito un significativo brano della "Storia di Occhialì" del Cervantes, che tratta «ironicamente» del tema della schiavitù, un tema che circola nella vita di Galeni come nella vita -e nell'opera letteraria- di Cervantes stesso e di Campanella. Nel brano vediamo lo schiavo (Cervantes) denunciare, davanti ad Ulucci Alì, l'aguzzino ebreo Kemjir che aveva «sottoposto ad usura più del necessario la frusta, bene dello Stato». Ulucci Alì da ragione allo schiavo e condanna l'aguzzino a ventisette frustate; «la condanna venne immantinente eseguita sulla schiena nuda di Kemjir, diretta dallo stesso ministro degli schiavi, Pirillo, che, traendo ammaestramento dall'accaduto, per evitare errori di calcolo, si servì per la conta delle frustate di un rudimentale pallottoliere, e ad alta voce ne scandì il numero fino a ventisette. L'episodio si riseppe ad Algeri e la gente non mancò di ammirare in questa sentenza il senno di Occhialì, ed in particolare come egli proteggesse le cose di pertinenza dell'Erario quali gli schiavi e la Sacra Frusta, simboli di Civiltà e di progresso».
5) "Avvenire", 9-5-1995
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