da "AURORA" n° 27 (Luglio 1995)

QUESTIONI DELLA SINISTRA

Sindacato e Socializzazione

Nunziante Santarosa

Il 1935 viene in evidenza come anno di svolta dentro il movimento sindacale fascista. Viene, cioè, recuperato l'antico spirito del sindacalismo rivoluzionario, dell'interventismo «sovversivo», del sansepolcrismo. E, con esso, la polemica antiborghese tanto ostica alle componenti conservatrici e moderate del regime.
In altri termini, il sindacato littorio si riappropria della politica al fine, soprattutto, di cambiare di spalla al fucile per meglio sparare sull'egemonia capitalistica, per meglio servire il primigenio spirito della Rivoluzione. Si tenga presente che già nel marzo del '34 dal mondo del lavoro organizzato erano scaturiti i primi inequivoci segnali di un disgelo, di una ripresa di iniziativa, di una pulsione forte e caratterizzata. A conclusione di un significativo convegno sindacale dell'area industriale si era varata una programmatica relativa ai compiti dell'ordinamento corporativo. Essa si fondava sui seguenti punti: gestione diretta dei fondamentali settori produttivi; controllo sui costi, sulla formazione del capitale, sul funzionamento delle imprese; congruo coinvolgimento dei rappresentanti del sindacato nell'attività corporativa; fissazione paritetica della partecipazione sindacale non solo nel senso della forma e del numero, bensì anche della cognizione tecnica ed economica dell'esercizio aziendale.
Nel '37 le scuole confederali si impegnarono intensamente nell'opera di formazione di quadri, sono infatti persuasi delle potenzialità rivoluzionarie del Regime che intendono concretizzare mediante l'attivazione politica del sindacato, stante l'abitudine ormai inveterata delle strutture corporative ai ritmi lenti. Alla scontata obiezione dell'«inevitabile» confusione di ruoli fra Confederazione e Corporazione e di una alea di compressione della seconda da parte della prima, pure un sindacalista ritenuto «moderato» come Augusto Venturi impugna la penna per un articolo su "Il Maglio" (14 settembre '38) in cui asserisce che «la natura squisitamente politica del sindacato fascista non poteva che sovrastare di gran lunga gli aspetti strumentali, la configurazione giuridica dell'istituzione».
In proposito Giuseppe Parlato, autorevole saggista specializzato nelle materie attinenti al sindacalismo del Ventennio, nel fare riferimento anche all'analisi del De Felice, così si esprime: «... L'allargamento e la trasformazione dei quadri di base, e intermedi, il progressivo radicalizzarsi delle posizioni di gran parte dei dirigenti di formazione sindacalista rivoluzionaria, anarco-sindacalista o socialista e l'aumento dell'influenza dei quadri più giovani, portatori di istanze rivoluzionarie e sociali determinarono il sorgere di alcune tendenze che, partendo da un anticapitalismo giudicato da De Felice «spesso retorico e parolaio, ma spesso anche sincero», giungevano a chiedere più ampi compiti e funzioni al sindacato». Per la verità, la polemica contro gli industriali lungi dall'evidenziarsi come «retorica e parolaia» era molto seria. Essa investiva, ad esempio, il potere capitalistico in aspetti nodali, quali la linea monopolistica delle grandi concentrazioni, l'inclinazione a sabotare la realizzazione di nuovi apparati produttivi, la densa e deformante ed intralciante burocratizzazione della vita contrattuale delle categorie.
Nell'ambito del pensiero sindacale del Fascismo si fecero interpreti di tali fermenti ed inquietudini personalità del calibro di Luigi Fontanelli, Sergio Panunzio, Ugo Manunta. Il primo, in un articolo dal titolo "Fino all'estremo limite" pubblicato dal quotidiano ufficiale "Il lavoro fascista", di cui era direttore (3 marzo 1938), indicò nel sindacato il congruo strumento atto a consentire al partito il dispiegarsi pieno della sua missione rivoluzionaria. A sua volta il Panunzio giunse a teorizzare una «legge espansiva del sindacato nell'ambito della totalità della vita economica, nonché la transazione del sindacalismo giuridico professionale a quello economico produttivo». Il para-sindacalismo, insomma, il quale immaginava un sindacato che «promuove, organizza, controlla gli enti economici para-sindacali, che sono gli enti economici collettivi: più propriamente le intese nell'industria, le compagnie nel commercio, i consorzi nella agricoltura, le cooperative di produzione e di lavoro fra i lavoratori». Queste idee in "Il Maglio" del 13/7/'38 ("Parasindacalismo") e in "Rivista del Lavoro" dell'1/11/'40 ("L'iniziativa sindacale nella produzione").
E veniamo al Manunta, fra i protagonisti della rivoluzione socializzatrice della RSI nella veste di Direttore dell'Istituto per la Socializzazione, fin dagli anni precedenti il periodo '43/'45 una delle più suggestive e agguerrite teste pensanti della cultura sindacalista. Il brillante scrittore sardo aveva licenziato alle stampe in opuscolo, nel '35, un'antologia di vari suoi contributi già apparsi sulle pagine de "L'ordine Corporativo" al fine di far luce sulle relazioni fra corporazione e sindacato nonché di seminare alcune idee in ordine al rapporto fra la confederazione dei lavoratori e le imprese, propedeutiche all'ingresso delle prime nella vicenda economica. In proposito, così esterna: «si ricorda che il Sindacato, cui si aprono con tutti gli onori le porte della Corporazione, continua a trovare sprangate in ogni suo intervento le porte delle aziende, mentre l'ingresso del Sindacato nella vita economica non è una pretesa arbitraria della organizzazione operaia, ma una necessità elementare dell'opera di tutela che lo Stato Fascista assegna ad essa nel campo del lavoro».
Ancora: «Bisogna far sì che il lavoro assuma un nuovo ruolo nella vita economica: il che non può avvenire che attraverso l'organizzazione sindacale». Ed ecco il discorso manuntiano dilatarsi verso ulteriori, rivoluzionari orizzonti. Onde conseguire tale obiettivo il sindacato dovrà «accelerare il processo di sproletarizzazione delle masse, potenziando tutto ciò che può costituire uno sbocco diretto dei gruppi e del singolo associato nell'economia». Sarà quindi necessario che il sindacato gradualmente si approssimi «alle responsabilità della vita produttiva», tuttavia evitando di caricarsi di compiti gestionali. Insomma: il trasguardo, per Manunta, è nella diretta conduzione delle aziende da parte dei lavoratori, immessi in quel ruolo di eccezionale prestigio dalle pulsioni del sindacato con tutti i controlli che il medesimo dovrà a sé attribuire. Giuseppe Parlato chiosa ciò in tal modo: «In realtà le tesi di Manunta sulle aziende direttamente gestite dai lavoratori, o quelle di Panunzio sul sindacato gestore di attività economiche si possono collegare ben più logicamente in una ottica cooperativistica. Si trattò del riemergere della tradizionale sfiducia sindacale nei confronti della gestione statale dell'economia, tendenza questa che aveva notevoli e illustri radici nel sindacalismo rivoluzionario e che, nonostante lo sviluppo dell'organizzazione corporativa non erano mai venute meno».
Nella offensiva culturale diretta a «sdoganare» la valenza politica del sindacalismo in oppugnazione dell'interpretazione conservatrice del Regime si distinsero altre personalità. Anzitutto il Malusardi, che vagheggiò per il sindacato una funzione, appunto, squisitamente politica quella di preparare i suoi dirigenti, anche, diremmo soprattutto, come uomini politici spendibili a livello di governo del Paese mediante corsi di formazione ad hoc. Poi il Venturi secondo cui era compito dell'organizzazione dei lavoratori evitare l'abbandono dell'uomo e della donna a uno Stato «potente, giusto, ma lontano». Quindi nuovamente il Panunzio, che rivendica nei confronti dello Stato un «protagonismo» del sindacato nel senso di un'azione politica, pedagogica, psicologica verso i lavoratori!
Sempre il Parlato così mette a fuoco la questione: «Tuttavia lo stesso Panunzio non si nascondeva che una simile affermazione tendeva a rimettere in discussione l'analoga funzione svolta dal Partito, e comunque a creare una sorta di concorrenza fra le due realtà. (...) La soluzione stava -secondo Panunzio- nelle differenza metodologica delle due funzioni, intensiva quella del partito ed estensiva quella del sindacato. Ma è evidente che, una volta incamminatisi nel solco di una visione "pan-sindacalista" diventava difficile, dopo aver sostanzialmente usurpato la funzione economica alle corporazioni, sostenere la coabitazione con il partito nel campo politico. E se la situazione si rivelava complessa sul piano teorico, lo era assai più drammaticamente in quello pratico». Dove traspare una valutazione negativa del "pan-sindacalismo" panunziano, rispetto alla quale restiamo cauti anche in omaggio al legato storico e ideale del sindacalismo rivoluzionario, su cui sempre ci guarderemo bene dal collocare una pietra tombale. Sia ciò detto senza né negare né rinnegare il ruolo del partito, insostituibile in ogni contesto ideologico e indipendentemente dai tempi e dalle reminiscenze qui in svolgimento.
Che fra partito e sindacato non esistesse una situazione idilliaca è documentato. Per esempio, da alcune affermazioni di Tullio Cianetti e di Pietro Capoferri. Il primo così scrive nelle "Memorie dal carcere di Verona": «Il Partito non ha mai assunto una precisa responsabilità nell'azione sindacale, della quale però ha raccolto i frutti». Il secondo nel suo volume "L'ora del lavoro" fa riferimento a ciò che chiama «fatalismo rivoluzionario», ossia, «all'indifferentismo che mantiene la disciplina formale di cui non ci preoccupiamo affatto, ma che interrompe o fiacca il mirabile trasporto delle masse verso il Duce». Di quelle masse, cioè, caratterizzate da una «presenza totale nell'organizzazione del Partito». Ancora Giuseppe Parlato chiarisce che quegli anni furono marcati da «una consistenza se non conflittuale, certamente non priva di astio e di scontri», avente radice nella «sfiducia nei confronti delle gerarchie del partito, responsabili di vanificare la spinta rivoluzionaria del messaggio sociale mussoliniano». Tale negativo sentire albergava soprattutto nelle giovani leve sindacaliste e particolarmente in quelle provenienti dai GUF. Ne testimonia Eugenio Curiel, intellettuale gufino poi passato al PCI clandestino e morto, giusto mezzo secolo fa, a Milano in uno scontro a fuoco con militari della RSI: «In definitiva possiamo dire che le poche espressioni di una lotta economica di classe del proletariato industriale italiano hanno luogo nell'ambiente sindacale fascista». Non crediamo di mancare di rispetto alla memoria di Curiel manifestando l'opinione che quelle «espressioni» non dovettero essere tanto «poche» se è vero, come è vero che un dirigente dell'importanza e dell'autorevolezza di un Cianetti ebbe a palesare molto interesse per le posizioni curieliane. E a proposito della densa e intensa inclusione di quadri sindacali nell'apparato del PNF -in una fase avanzata del Regime, coprente l'intero arco bellico- attingiamo sempre al saggio del Parlato, il quale si chiede se «l'immissione di elementi sindacali nel partito significava semplicemente l'acquisizione di questi alla mentalità dominante fra le fila del PNF, ovvero se -e in quale misura- le prospettive rivoluzionarie dei quadri intermedi sindacali, la cui età si aggirava fra i trenta e i quaranta anni, in qualche modo avevano occasione di sostanziare l'attività del partito».
Veniamo alla polemica antiborghese vera e propria, della quale occorre anzitutto dire che, nella versione più specificamente sindacalista, non tardò a tracimare il perimetro dei fatti e valori di costume per investire la totalità della tematica sociale. In essa si distinse "La Stirpe", diretta da Edmondo Rossoni, nelle cui pagine capeggiarono firme «guerriere» come quelle di Luigi Fontanelli, di Aldo Fiaccadori e -a tacer d'altre- del futuro giornalista e scrittore comunista Felice Chilanti. Le battaglie di costoro furono al calor bianco. Vediamo. Nell'aprile '33 Fontanelli scrive: «Gli orizzonti del Fascismo non sono quelli della borghesia perché non sono quelli del passato, così come lo spirito del Fascismo e l'antitesi dello spirito borghese». A sua volta Chilanti (12 dicembre '34) dice dei borghesi: «Sono al di là del 14 novembre 1933 (?) non solo, ma di tutta la Rivoluzione che non hanno compreso mai. Se hanno partecipato ad essa fu per un equivoco e siamo lieti che l'equivoco sia oggi chiarito nella maniera più decisiva». Potremmo continuare all'infinito con le citazioni, ma lo spazio di un articolo è quello che è. Non è detto, però, che noi non si ritorni sull'argomento. 
Ora ci limitiamo a concludere con il seguente interrogativo: e Mussolini? Qual'è la sua linea in questa scottante materia? Secondo De Felice, il comportamento del Duce è sintetizzabile nei seguenti termini: «non ignorare le richieste e le attese sociali, ma proiettare ancora una volta la realizzazione nel tempo, legandola per altro alla battaglia antiborghese in maniera da sfruttare in funzione di essa la carica sociale».

Nunziante Santarosa
da "Pagine Libere"

 

articolo precedente indice n° 27 articolo successivo