da "AURORA" n° 28 (Agosto - Settembre 1995)

IL DIBATTITO

Lamezia Terme 18 agosto '95

Egregio Direttore,
ho letto il Suo editoriale "Normalizzazione e subalternità: una politica per i nani" sul n° 27 di "Aurora" (luglio '95) e vi ho trovato un antiamericanismo terzomondista vecchia maniera, pregiudiziale quanto, a mio modesto avviso, gratuito e ingiustificato. 
Lei stesso ha riconosciuto che gli USA, dopo il collasso sovietico, sono stati «costretti», loro malgrado, a svolgere l'ingrato compito di «gendarme planetario», essendo rimasti l'unica grande potenza politico-militare e perciò obbligati a farlo. Era inevitabile che, nel mantenimento, per quanto possibile, dello status quo, l'America cercasse di guadagnare tempo al fine di analizzare e capire, nella situazione in rapido mutamento, le nuove tendenze geopolitiche.
Lei stesso ha esattamente affermato che la situazione in Europa, dopo il 1989, è «per molti aspetti simile a quella anteriore al 1914». Le amministrazioni Bush e Clinton si sono perciò trovate di fronte a compiti nuovissimi e, diciamolo pure, improbi. Mentre Bush azzeccò la mossa contro il dittatore di Bagdad con l'operazione "Desert Storm" (preludio alla definitiva pacificazione tra Israele e mondo arabo), lo stesso Bush entrò in un ginepraio con l'intervento in Somalia ("Restore Hope"), mentre Clinton è rimasto letteralmente paralizzato nel settore balcanico, dove la diplomazia americana soprattutto dopo l'esplosione della polveriera bosniaca, ha dichiarato forfait, dimostrando di non sapere che pesci pigliare. Ma, secondo Lei cosa avrebbe dovuto fare Clinton? Intervenire militarmente a fianco di una delle due parti? Schierare intere divisioni fra i contendenti per prendere schiaffi da entrambi senza potersi difendere, com'è accaduto ai Francesi ed agli altri? O magari fornire di tanto in tanto degli ostaggi ai belligeranti? O forse avrebbe dovuto procedere ai micidiali bombardamenti aerei delle «postazioni militari» dei Serbi? O, piuttosto dei Croati? O, perché no, di quelle dei Musulmani Bosniaci? Non le sembra, sig. Direttore, che nell'attuale fase della storia europea è alquanto difficile scegliere, per chiunque? Non Le è mai balenato che l'atteggiamento americano sia il segno d'una impasse politica molto seria e perciò sia dettato soprattutto dalla prudenza? Non dimentichiamo che la Grande Guerra, or sono 81 anni, cominciò proprio a Sarajevo!
La situazione umanitaria nella ex-Jugoslavia è certo gravissima, ma questo è il frutto avvelenato della precedente divisione dell'Europa e della mancanza di lungimiranza, di carattere e di coraggio dei governi del passato. I nodi sono venuti sanguinosamente al pettine e la guerra impedita attraverso vari espedienti (zone protette, forze di interposizioni, «no fly zone», embargo nei riguardi dei contendenti o potenziali tali, tavoli negoziali, mediatori internazionali, etc.), ha avuto finora l'unico scopo di contenere l'allargamento della conflagrazione. Quel che la guerra ha perduto in estensione, lo ha guadagnato, tragicamente, in profondità, con la pulizia etnica, gli stupri di massa e lo stillicidio quotidiano delle vittime innocenti. Una situazione disumana, sulla quale è semplicemente indegno speculare!
E passiamo al Mare Adriatico, secondo Lei un «mare interno» divenuto «mare degli altri» con la crisi Jugoslava. Ebbene, sig. Direttore, se l'Adriatico può definirsi geograficamente un mare interno in quanto si presenta come un bacino chiuso, tale non è mai stato dal punto di vista del diritto internazionale. Se ci riflette bene non lo fu nemmeno nell'epoca di massimo splendore della Serenissima Repubblica di San Marco. L'Adriatico è stato anzi fino a qualche anno fa una frontiera geopolitica vera e propria, uno dei confini tra il mondo libero e il mondo comunista, «benché non-allineato», come la Jugoslavia di Tito. Che forze aeronavali multinazionali, peraltro sotto controllo ONU, nella presente crisi balcanica, incrocino nelle acque adriatiche, non credo quindi debba scandalizzare nessuno. Direi anzi che è una necessità militare!
La Sua affermazione poi circa «la vergognosa condiscendenza alla politica militare statunitense, con basi navali, aeree e terrestri poste sotto il diretto controllo americano», a me sembra imprecisa e faziosa. Primo perché l'Italia, paese membro della NATO, è tenuta a fornire, in quanto paese alleato di prima linea, le proprie basi militari ed il supporto logistico per le operazioni (in occasione di "Desert Storm", nel '91, toccò alla Turchia fornire le sue basi orientali ai bombardieri americani impegnati in Irak). Secondo perché, giuridicamente parlando, non v'è stato nessun esproprio della sovranità nazionale, in quanto gli alleati, prima di poter utilizzare le strutture sul suolo italiano, hanno ricevuto il prescritto consenso del governo della Repubblica.
Lei conoscerà la celebre massima: «Ubi commoda, ibi incommoda» e d'altronde per il sottoscritto non ci sono mai stati dubbi sulla appartenenza dell'Italia all'Occidente e quindi sulla necessità dei rapporti politico-diplomatici migliori possibili con gli USA, senza giungere ovviamente ad inutili servilismi o a dannose timidezze.
Dissento pertanto, egregio Direttore, dalla prima conclusione che Lei trae nel Suo scritto, quando parla di sudditanza geostrategica nei confronti della superpotenza americana perché impedirebbe, fra l'altro, un proficuo dialogo col mondo arabo. È una tesi del tutto inconsistente! Intanto i paesi arabi moderati (Marocco, Egitto, Giordania, Arabia Saudita e monarchie del petrolio) intrattengono ottimi rapporti con gli USA, anzi hanno ricevuto e continuano a ricevere protezione dagli Americani nei riguardi dell'Iran, dell'Irak, del Sudan e della Libia che fomentano, chi più chi meno, il fondamentalismo islamico ed il terrorismo internazionale. In secondo luogo, dopo la pace tra Israele ed i Palestinesi, auspici gli americani Bush e Clinton, la questione sionista, per il mondo arabo, è superata (un segno importante è rappresentato dallo stabilimento di relazioni diplomatiche tra Israele e Vaticano il 30 XII '93). Certo non lo sarà mai per gli estremisti ed i fanatici di ogni risma e colore (come, immagino, gli antisemiti di casa nostra!).
Sul punto dei rapporti dell'Italia con gli Arabi bisogna comunque essere chiari una buona volta. Il mondo arabo moderato -ma non per questo meno religioso o meno dignitoso, glielo assicuro- non ha nulla contro la presenza americana ed atlantica nel Mediterraneo, sentita anzi come garanzia di sicurezza, un tempo dalla minaccia comunista, atea e materialistica, oggi dalla minaccia, non meno grave di un fondamentalismo islamico violento e prepotente. In conclusione, se il fondamentalismo in quei paesi resta debole, la presenza americana nell'area non sarà in futuro di nessun ostacolo allo sviluppo di relazioni proficue con il mondo arabo, così come non lo è stata in passato. Se invece il fondamentalismo dovesse alla lunga rafforzarsi (conquistando il governo in paesi come l'Algeria e l'Egitto), allora sarebbe indispensabile non solo avere a fianco un alleato affidabile, ma collaborare lealmente con esso. E questo credo sia l'interesse non solo dell'Italia, ma di tutta l'Europa mediterranea. Lei ricorderà certamente, egr. Direttore, che dopo il bombardamento americano di Tripoli nel 1985, il colonnello Gheddafi ed il suo entourage guarirono dal delirio di onnipotenza che li affliggeva da anni e la Libia ha ridimensionato le sue pericolose velleità di potenza militare.
Tanto più importante la vicinanza degli USA all'Italia, se mi consente, considerando proprio la sua conclusione, che mi sento invece di condividere. L'Italia infatti, come la Gran Bretagna, ha bisogno di bilanciare nella costruzione dell'Unione Europea il crescente peso politico ed economico di Germania e Francia. Ciò e possibile soltanto mantenendo un rapporto privilegiato con l'America e sviluppando una politica estera non solo e non tanto orientate verso il mondo arabo (come ha fatto nel dopoguerra con successo la DC dei Mattei, dei Moro, dei Fanfani e degli Andreotti e dove siamo perciò già presenti ed apprezzati), quanto verso l'Europa orientale, cercando anche lì di riconoscere gli amici e di non impelagarci con i nemici, evitando di abbandonare quei paesi all'influenza tedesca.
Penso che l'Italia dovrebbe incrementare e migliorare le proprie relazioni con paesi come l'Ungheria, la Serbia, la Russia, la Bulgaria, la Romania, forse l'Ucraina. Insomma con i paesi dell'area ortodossa, sia perché i nostri interessi geopolitici sono lì e vanno perciò tutelati, sia per rispondere, sul piano della politica e della economia, all'appello lanciato dal Santo Padre, alla riunificazione delle cristianità d'Occidente e d'Oriente. Un appello già contenuto nella Lettera apostolica "Orientale lumen" del 2.5.95 e ripetuto nell'Enciclica "Ut unum sint" pochi giorni dopo (25.5.95), che invita a costruire realmente, ciascuno secondo le proprie capacità e tutelando i propri autentici interessi, in spirito di fraterna collaborazione tra le nazioni, la casa comune europea.

Giovanni Saladino

"AURORA" RISPONDE


Egregio Professore,
rispondo, non senza qualche disagio, ai rilievi critici contenuti nella Sua lettera. Quando si premette: «vi ho trovato un antiamericanismo terzomondista vecchia maniera, pregiudiziale quanto gratuito ed ingiustificato», si dovrebbe essere in grado di supportare tali, pesanti, affermazioni con argomenti «forti», tali da ridimensionare le tesi contestate se non proprio di capovolgerle del tutto.
Io non ho «riconosciuto», sarebbe una palese falsificazione della storia, che gli USA sono stati: «costretti, loro malgrado, a svolgere l'ingrato compito di gendarme planetario». Ho invece affermato: «gli Stati Uniti sono stati costretti ad un ruolo di subalternità dall'interventismo franco-britannico, volto a coagulare attorno alla Serbia, loro tradizionale alleata, una zona di contenimento dell'espansionismo tedesco». Una differenza, mi pare, non da poco.
D'altro canto, affermare che la politica di «dominio planetario» perseguita dagli USA sia un «obbligo» loro imposto (non si capisce bene da chi!), è di una banalità sconcertante. Gli Stati Uniti hanno coerentemente perseguito una loro «politica di potenza» fin dal 1823 (messaggio al Congresso del presidente James Monroe in cui si enunciava la famosa «dottrina»), quando non avevano ancora completato la loro «unità nazionale», e la popolazione non raggiungeva i sei milioni di abitanti (compresi 700.000 schiavi ed esclusi i nativi, già allora sottoposti a «democratica» decimazione attraverso l'alcool e le coperte infettate dal vaiolo). Non è qui la sede, lo spazio è tiranno, nella quale enumerare le guerre (sempre di aggressione, nessuna a difesa del territorio nazionale) combattute dagli USA; ad iniziare dalle due contro il Messico (la prima nel 1835: annessione del Texas -690 mila Km²- la seconda nel 1847: annessione di Arizona, California, New Messico, Nevada, Utah -1.700.000 Km²) fino all'attacco contro i Serbo-Bosniaci di questi giorni. Un totale di circa 190 guerre, in poco più di due secoli di vita. Non male per una potenza «pacifista» costretta «suo malgrado» ad una politica di arroganza politica, diplomatica e militare.
Come vede nessun «compito nuovissimo e improbo» per Bush e Clinton (i periodi di pace sono una vera rarità nella storia del loro Paese), ma totale aderenza ad una vocazione «imperialista» ormai secolare.
Quanto all'operazione "Desert Storm", gli antefatti sono abbondantemente noti. Allorché Saddam Hussein ripropose la «questione» confinaria e di «legittimità» del Kuwait (mai riconosciuto da Bagdad come entità indipendente e già in precedenza rivendicato -nel 1971 e nel 1982-, nelle sedi internazionali, come territorio nazionale iracheno) gli USA, per mezzo dell'ambasciatore a Bagdad, April Glaspie, informarono il Dittatore di «comprendere» le ragioni irachene: «Lei, signor Presidente, si è battuto in una guerra lunga e difficile. Noi ora ci limitiamo a rilevare un'imponente spiegamento di forze nel sud. Di norma questo non sarebbe problema nostro (...). Il presidente Bush è un uomo intelligente; non farà guerra all'Irak ...». Il colloquio, tra l'ambasciatore statunitense, Saddam Hussein e Tarek Aziz ebbe luogo il 25 luglio ed è stato, dagli iracheni, interamente registrato. D'altro canto, il Presidente iracheno aveva buone ragioni per dare credito alla posizione americana: la guerra contro l'Iran di Khomeini (costata 1.500.000 morti) era stata condotta con il determinante appoggio degli Stati Uniti. L'Irak infatti dopo una lunga amicizia-sudditanza con Mosca aveva stretto ferrei legami con l'Occidente; basti dire che secondo un «dossier segreto», redatto da Pierre Salinger ed Eric Laurent, ben 2.908 imprese tedesche, italiane, americane, inglesi, francesi, avevano collaborato al programma di armamenti iracheno ed in particolare alla sua parte chimica. Né furono eccessivamente dure le reazioni dei governi del «libero e pacifista Occidente» allorché la Guardia Nazionale di Saddam bombardò con testate chimiche (iprite, gas nervino, cianuro) la cittadina curda di Halabja (6350 civili morti accertati). Così, come oggi si tace sui crimini compiuti dagli alleati turchi da tempo impegnati in una bestiale caccia ai «Turchi di montagna», in quella stessa area che vide gli eserciti occidentali (italiani compresi) mobilitati per difendere il Popolo curdo dal «criminale» di Bagdad.
È legittimo, caro Saladino, ricordare gli appelli del Santo Padre a proposito dell'unione delle cristianità, ma è, scusi la franchezza, ipocrita dimenticare gli appelli di Giovanni Paolo II sulla questione irachena, sulle vittime innocenti (in gran parte bambini) di un embargo sui medicinali e sulle derrate alimentari che provoca (dati UNICEF) oltre 100.000 morti l'anno.
Sorvoliamo sulla questione somala (Restore Hope), anche se molto pure in questo caso vi sarebbe da contestare delle Sue incaute affermazioni. Mi preme solo rilevare che in quel «ginepraio» il comportamento delle truppe italiane, una volta tanto, fu antitetico a quello comico-criminale dell'alleato d'Oltreoceano, grazie alla saggezza dei comandanti, al coraggio e all'umanità dei nostri soldati.
Rispetto alla questione bosniaca, evidentemente Clinton ha ritenuto opportuno, in questi giorni, rompere gli indugi lanciando i suoi cacciabombardieri sulle posizioni Serbo-Bosniache, quindi le ragioni da Lei addotte, per spiegare la prudenza statunitense, sono prive di fondamento. L'atteggiamento americano non era dunque il «segno di un'impasse politica molto seria dettata dalla prudenza», ma rispondeva ad una logica politica precedente, inficiata in parte dallo sviluppo della situazione sul terreno. Gli è che lo scenario, in seguito all'offensiva croata, è completamente capovolto e la Potenza americana, che per anni è rimasta insensibile a qualsivoglia tipo di massacro (basti ricordare le precedenti stragi a Serajevo e Bihac, nonché gli eccidi di massa di Zepa e Srebrenica) si è resa conto che l'obiettivo della «Grande Serbia» perseguito dal presidente Milosevic (è costui, e non il Gen. Madlic e il dottor Karadzic, il massimo responsabile della tragedia jugoslava), con l'appoggio franco-inglese cozzava contro la volontà di riscatto di una Croazia il cui esercito, grazie al massiccio sostegno economico austro-tedesco, si era potentemente riarmato.
Fa specie che una persona dotata di grande capacità analitica e filologica, quale Lei sicuramente è (e come dimostra la Sua ultima fatica letteraria), non recepisca l'importanza di quanto accade nei Balcani. La mia affermazione: «la situazione è per molti aspetti simile a quella anteriore al 1914», va intesa che oggi, come allora, la Mitteleuropa ridiventa un centro di irradiazione geopolitico per un'immensa area strategica, e che il sostegno economico-militare fornito da Austria e Germania (ma anche dall'Ungheria che, oltre alle forniture belliche, si è fatta carico dell'addestramento degli equipaggi dei mezzi corazzati e dei piloti dei cacciabombardieri) alla Croazia andava inteso come rinvenimento di dinamiche che il bipolarismo nato ad Yalta sembrava aver per sempre annullato. A quanto sopra vi è da aggiungere la recente presa di posizione dei Paesi Arabi, che hanno addirittura minacciato di creare una legione di volontari da inviare a sostegno dei musulmani bosniaci.
In conclusione, dallo scenario bosniaco, emerge con prepotenza lo scontro di interessi tra la Potenza americana e la risorgente Potenza tedesca. Né può ingannare il dietro front di Washington che, all'ultimo momento, ha fornito assistenza militare (in specie intelligence elettronica) all'esercito croato per la riconquista delle Krajine. L'incendio balcanico potrà anche essere momentaneamente «domato», ma, qualunque compromesso si raggiunga, la pace non potrà durare a lungo: Kossovo, Macedonia, Vojvodina, sono altrettanti barili di polvere la cui esplosione può essere accelerata da una sconfitta dei Serbi. Come non si possono non considerare le ripercussioni, che una sconfitta politico-militare di Belgrado può avere nell'intero schacchiere slavo e in particolare nell'ex-URSS, anche in ragione dei precari equilibri politici interni degli Stati ex-comunisti.
L'errore, a mio avviso, fondamentale, è stato compiuto nel '91, quando fu permesso all'Armata Rossa jugoslava, controllata da un corpo ufficiali quasi interamente serbo, di conquistare larga parte del territorio della Croazia prima e della Bosnia poi. Ma gli interessi «occidentali» prevalsero sulla ragionevolezza e sulle considerazioni di lungo periodo: i franco-inglesi vedevano nella «Grande Serbia», vagheggiata da Milosev, l'antemurale storico per contenere l'espansione economica tedesca verso sud e gli USA e la NATO si adeguarono. Così i Serbi ebbero mano libera, nel momento in cui per fermare la guerra sarebbe bastato lanciare due missili sull'aeroporto militare di Belgrado.
Sulla questione «adriatica» Lei sostiene: «se l'Adriatico può definirsi geograficamente un mare interno in quanto si presenta come un bacino chiuso, tale non è mai stato dal punto di vista del diritto internazionale, etc. ...». Non è il caso di inoltrarsi sulla serie di affermazioni storiche (in gran parte contestabili), mi limito a rilevare che, dal punto di vista geopolitico, non conta il diritto, ma il potere, ossia la condizione che si raggiunge sotto il profilo del controllo strategico che non è solo quello della sovranità politica ma della funzione di dominio che su una determinata area si esercita.
Ora mi pare innegabile che se, come io sostengo nell'editoriale, il nostro ceto politico avesse agito tempestivamente, offrendo alla Albania i crediti e gli investimenti impegnati dagli americani, non di «diritto», ma di fatto l'Adriatico sarebbe oggi un mare interno in quanto, con il controllo «geografico» di Capo Linguetta e Capo d'Otranto, questa sarebbe la sua condizione.
Personalmente sono sempre stato avverso all'Alleanza dell'Atlantico del Nord (NATO), anche quando la si riteneva un necessario baluardo contro il pericolo comunista. Questo per una serie di ragioni che qui sintetizzo:
a) il ruolo dell'Italia nella NATO è solo formalmente quello di alleata, nella realtà noi siamo un Paese non libero, a sovranità limitata come lo furono i Paesi dell'Europa Orientale sotto il giogo sovietico. Le prove: nessuna delle basi USA si è insediata «col prescritto consenso» del Parlamento italiano, tutte le concessioni, i trattati di tipo militare sono segreti, non sono mai stati discussi dai legittimi governi della Repubblica, e sono stati gestiti dai proconsoli italiani della Potenza americana (certe incaute affermazioni dell'On. Cossiga andrebbero rilette, anche alla luce delle torbide e criminali vicende che hanno funestato la storia italiana di questo mezzo secolo: dalla strage di Portella delle Ginestre a quella di Ustica), quindi dal punto di vista «giuridico» l'esproprio della sovranità nazionale è un dato di fatto;
b) l'Italia (e l'Europa) non ha perso in sovranità e guadagnato in sicurezza. Esiste su questo un esaustivo documento segreto (che i giornali americani resero noto durante la presidenza Reagan), nel quale erano riportate alcune opzioni strategiche nell'eventualità di un conflitto nucleare. Tale documento chiariva che in caso di attacco atomico sovietico all'Europa occidentale, la risposta statunitense sarebbe stata limitata ai Paesi dell'Est, senza violare il territorio sovietico. Era la cosiddetta strategia della «risposta flessibile» che in pratica condannava l'Europa occidentale ed orientale all'annientamento:
c) la NATO è la struttura che, più di qualsiasi altra, permette agli Stati Uniti di mantenere una presenza nel Vecchio Continente, sabotando, con la scoperta collaborazione dell'Inghilterra (e con quella subdola dell'Italia) qualsiasi tentativo di Unità Europea: basti ricordare l'atteggiamento dei vertici militari statunitensi di fronte alla creazione della Brigata mista franco-tedesca (alla quale era stata invitata a partecipare anche l'Italia che, fatto indicativo, ha opposto un netto diniego!);
d) dopo lo scioglimento del Patto di Varsavia era nella logica delle cose che anche la NATO disarmasse. Così non è stato, anzi, questa organizzazione si è trasformata da strumento «nominalmente» difensivo in strumento «dichiaratamente» offensivo; creando forze integrate di «intervento rapido» allo scopo di tutelare gli interessi (o furti?) dell'Occidente ricco in ogni angolo del globo.
Veniamo infine al «fondamentalismo islamico» (tralasciando gli «antisemiti di casa nostra» che ci porterebbe lontano) e ai rapporti arabo-italiani. Non ho, personalmente, eccessiva simpatia per qualsivoglia integralismo; islamico, cattolico, ortodosso o sionista. Non per questo penso che si debba liquidare una realtà del nostro tempo (una realtà, è bene sottolinearlo, non diversa da altre: come l'integralismo liberista-democratico, quello antifascista, quello anticomunista, etc.) con l'insulto, senza indagarne le ragioni storiche e quelle contingenti. Non è lecito, tanto per fare un esempio, definire l'Arabia Saudita paese moderato solo perché filo-occidentale, quando si sa benissimo che quella monarchia è da sempre «integralista» ed applica la "Legge coranica" con tanto di mutilazioni, fustigazioni, lapidazioni - per carità sempre alla presenza di un valente chirurgo (quando non si tratta di condanne capitali). Le confesso che l'oligarchia saudita non l'ho in eccessiva simpatia. E se sono disposto a capire le ragioni del fellah algerino che ha scelto Dio come ultima risorsa, anche terrena, di fronte alle palesi ingiustizie di cui è stato ed è storicamente vittima, non sopporto gli «ipocriti» sui panfili dorati, che «fomentano» la vita diurna e notturna nei casinò e nelle spiagge alla moda, mentre i loro popoli versano in condizioni atroci di ignoranza e miseria. Né posso negare la pietà ai morti di Sabra e Chatila, alle migliaia di disperati della «Intifada» che combattono con le pietre contro le autoblindo e gli elicotteri corazzati. Né posso negare la mia solidarietà a quei 12 mila combattenti ospiti delle galere di uno Stato che, per bocca del suo Primo ministro, definisce «un male necessario la tortura» (anche se questa solidarietà dovesse costarmi l'accusa di «antisemitismo», troppo spesso confuso, ad arte, con l'«antisionismo».
È assurdo voler imporre, come pretende il Suo Occidente, egr. Professore, i propri valori, la propria organizzazione sociale a popoli che intendono restare fedeli al proprio modo di essere. Non si possono condannare gli «integralisti» algerini, dimenticando che la causa della guerra civile in quel Paese è nel colpo di Stato attuato dai militari con la benevolenza e l'aiuto occidentale.
La politica democristiana verso il mondo arabo è stata, come tutta la politica estera italiana, imbelle, priva di mordente, attenta a non urtare gli interessi della potenza egemone: gli Stati Uniti. L'unico, da Lei citato, che tentò un approccio diverso, di maggiore comprensione, con i paesi mediorientali produttori di petrolio fu il povero Enrico Mattei e il prezzo da lui pagato è noto a tutti.
Concludo questa lunga (e, mi rendo conto, limitata, per la complessità degli argomenti presi in esame, replica) con un cenno alla sua «ardita» tesi sugli interessi «geopolitici italiani nell'Europa orientale». Si potrebbe rispondere con la stessa battuta con cui, Benito Mussolini, rispose all'intimazione («l'entrata in guerra dell'Italia pone in serio pericolo gli interessi degli Stati Uniti nel Mediterraneo») fatta da Roosevelt nei primi mesi del '40: «Gli interessi degli Stati uniti nel Mediterraneo sono, per lo meno, pari a quelli italiani nel Mar dei Caraibi». Battute a parte, una nazione deve coltivare buone relazioni con tutti, nessun Stato escluso, ma indicare come area di influenza geopolitica italiana l'Est europeo mi sembra veramente spropositato, quantunque ne pensi il Santo Padre. Considerando anche che la politica estera italiana, quindi la «geopolitica», non dev'essere funzionale alle strategie ed agli interessi della Chiesa cattolica, ma unicamente protesa a difendere ed allargare l'ambito degli interessi della nazione italiana.

"Aurora"

 

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