da "AURORA" n° 28 (Agosto - Settembre 1995)

EDITORIALE

Bagattelle estive

Luigi Costa

Puntuali, come le grandinate estive sui raccolti, gli scoops giornalistici si sono rovesciati sugli italiani in vacanza. Nella «riscoperta dell'acqua calda» si è particolarmente distinto, fra i tanti, "il Giornale" di proprietà della famiglia Berlusconi, diretto da quel monumento ambulante alla coerenza che risponde al nome di Vittorio Feltri, già cantore del Craxi-pensiero e indimenticato aedo della Lega bossiana, da qualche tempo penna virtuosa, quanto smaliziata, al servizio di re Silvio.
Due sono stati gli «affondi» del quotidiano milanese: uno in direzione dei «nemici» progressisti e degli «amici» Casini, Mastella e Buttiglione, denominato «Affittopoli» e che, per l'appunto, trattava degli «allegri» affitti praticati da diversi Enti pubblici (Inps, Inpdap, Enasarco, Amministrazioni comunali, Casse di Risparmio, assicurazioni, etc.) ai soliti noti: politici, sindacalisti, gran commis di Stato e privilegiati vari collegati alla nomenklatura della cosiddetta Prima repubblica. L'altro, con obiettivi più strettamente politici, diretto contro la più importante, dopo Forza Italia, componente del «Polo delle destre», che prende di mira la vocazione «lottizzatrice» di Alleanza Nazionale e mira a porre in evidenza i limiti culturali e l'approssimazione culturale dei Fiuggiaschi di Gianfranco Fini.
Per quanto attiene «Affittopoli», siamo di fronte alla tipica furbata agostana che ha consentito a Feltri di agguantare «tre piccioni con una sola fava», ossia: far lievitare sensibilmente la tiratura del quotidiano da lui diretto; compiacere il «Principale» con un'inchiesta dai risvolti negativi per il Polo progressista; creare più di qualche imbarazzo agli inaffidabili alleati di centro, coinvolti nella vicenda degli affitti di favore. Il tutto con la complicità degli italiani sempre pronti a scandalizzarsi anche di situazioni, come quella degli affitti-truffa che (al pari delle raccomandazioni, delle tangenti, del nepotismo, delle false pensioni di invalidità, porcherie e ladrate varie) sono da tempo, alla maggioranza dei cittadini, ben note (ogni italiano, crediamo, conosca personalmente qualche improbabile invalido e qualche probabile raccomandato sempre pronto ad indignarsi della disonestà... altrui).
Più oscure le ragioni della proditoria offensiva contro Alleanza Nazionale, specie se si considera che il compito di aprire le ostilità è stato affidato alla penna, intinta nel veleno, di un «ex» come Stenio Solinas, intellettuale della "Nuova Destra", da sempre legatissimo al già enfant prodige del Movimento Sociale: quel Marco Tarchi espulso dal partito di Almirante nei primi anni Ottanta, critico feroce della approssimazione culturale e del vuoto progettuale del MSI prima e di Alleanza Nazionale poi.
Certo è che le accuse del quotidiano berlusconiano, condivisibili per molti aspetti e avvalorate, nella sostanza di fondo, dalle scomposte e sconsiderate repliche dei D'Urso, Gasparri, Storace e via elencando, ci appaiono funzionali alla necessità (ancorchè non pubblicamente espressa) del Cavaliere di Arcore -sempre sensibilissimo al responso dei sondaggi- di ridimensionare, di qualche punto, gli indici di gradimento di cui è accreditato Gianfranco Fini, evidenziando i limiti culturali e la pochezza umana del personale politico di un partito repentinamente trasvolato dalle teorizzazioni sul «Fascismo del Duemila» all'antifascismo dichiarato.
L'inconsistenza della polemica viene però in solare evidenza qualora si vada a vagliare la superficialità delle argomentazioni del Solinas, tanto che, nemmeno il consistente apporto culturale di un Marcello Veneziani è valso a far decollare una polemica, ristretta fin dall'inizio nelle pastoie di una banale strumentalità.
Non è accettabile, a nostro parere, discettare della «messinscena» di Fiuggi e dei suoi sviluppi successivi, senza tenere nella dovuta considerazione le componenti umane di una comunità politica e le istanze di cui queste sono portatrici, accontentandosi di indagare le sovrastrutture e gli involucri organizzativi.
Checché ne pensino, Veneziani e Solinas, non si può negare che all'interno del Movimento Sociale, fino al luglio del '91, fosse ben presente e radicata una «ala sinistra» a cui facevano riferimento sia i seguaci di Beppe Niccolai che i cosiddetti rautiani «atipici», quelli, per intenderci, rimasti estranei ai «miti incapacitanti» propri degli ex-ordinovisti tipo Maceratini, oggi tra i più accesi sostenitori dell'abiura finiana.
È stata nel bene e nel male questa «ala sinistra», che Piero Ignazi nel suo saggio sul MSI ("Il Polo escluso", Il Mulino, Bologna '89) definisce «partito della società civile», a mantenere vivo, in specie dopo l'espulsione di Marco Tarchi, il dibattito interno, sopperendo sia a livello nazionale che sul piano locale al vuoto progettuale e culturale di un Partito nel quale convivevano, l'una contro l'altra armate, troppe diversità.
La necessità oggettiva di preservare l'unità del MSI passava attraverso l'opportuno equilibrio tra esigenze esistenziali e istanze politiche contrapposte e conflittuali e si sostanziava nel sabotaggio sistematico, da parte della Segreteria nazionale, di tutte quelle iniziative, anche esterne, non supportate dal «peso interno» della «corrente» di riferimento.
Con la morte di Beppe Niccolai e la mini-scissione del luglio '91, l'involuzione a destra del MSI subì un'accelerazione; Pino Rauti, indebolito dalle dimissioni di massa della parte «meno allineata» e culturalmente più viva della sua «corrente», tradito dagli ex-ordinovisti e dai giovani arrivisti che aveva largamente beneficiato durante la sua breve segreteria (non è vero Alemanno?), ingabbiato nelle proprie contraddizioni, fu presto emarginato dall'ala reazionaria di Servello-Tremaglia e da quella pragmatico-conservatrice di Fini-Tatarella.
Il deserto culturale è una conseguenza della «almirantizzazione» del partito, ossia del retrocedere a quel pragmatismo filo-governativo e paleo-democristiano che aveva uniformato il «sinistro» Almirante al «destro» Michelini.
In conclusione, l'ansia di legittimare se stessi come unici depositari-interpreti della sedicente «cultura di destra» ha condotto Solinas e, in parte, Veneziani a sottovalutare (o scientemente tacere) sul decisivo apporto delle analisi rautiane alla crescita culturale dell'area missina, fin dai primi anni Settanta, che sul piano politico produssero un fiorire di iniziative (dai campi "Hobbit" all'associazionismo ecologico, dal quindicinale "Linea" al mensile "Elementi", solo per citarne alcune) propedeutica a definire, anche se solo in parte, in «positivo» una militanza che il proprio «modo di essere» l'aveva sempre costruito in «negativo».
Per uguali, e ancora più importanti ragioni, non può essere taciuto l'apporto di Beppe Niccolai: la sua circostanziata e spietata critica ai «bonzi» di quel neo-fascismo tronfio, rituale, incolto e pedestre esauritosi nell'apostasia di Fiuggi ed il recupero e l'attualizzazione dei fascisti «eretici» quali Bombacci, Giani, Berto Ricci, per limitarci a qualche nome.
Ci sentiamo di affermare, avendone diretta esperienza che il MSI, anche se marginalmente, ha sempre partecipato alla lottizzazione: mamma DC gli ha riservato, in modo costante e sistematico, le briciole del banchetto consociativo. Le «briciole» di ieri sono state sostituite dalle «fette» di torta di oggi, ma la vocazione viene da lontano.
Altra «succosa» polemica estiva è quella innescata dalla "Lettera sul diritto alla violenza", firmata «il Cid Campeador» e pubblicata dal quotidiano milanese "l'Indipendente" diretto dal biografo ufficiale di Umberto Bossi, Daniele Vimercati.
La lettera, attribuita in un primo momento dallo stesso Vimercati a Bossi, ha provocato la violentissima reazione di tutte le forze politiche e si è poi rivelata una colossale «bufala», organizzata dal Direttore del quotidiano -con la presumibile complicità del leader leghista- e redatta saccheggiando opere e letterarie di varie personalità storiche tra cui Gramsci, Croce, Ghandi e Lenin.
In ogni caso, al di là delle successive ritrattazioni, la «Lettera» era perfettamente in linea con le più recenti posizioni del Segretario leghista, che ha da qualche tempo accentuato i toni indipendentisti, arrivando a minacciare la secessione del Nord, qualora il progetto federalista, proposto dalla Lega non sia rapidamente e completamente attuato. Pur essendo fra coloro da sempre persuasi che tra i bottegai e piccoli industriali, che sono l'ossatura politica della Lega, siano pochi i disposti a giorcarsi un benessere faticosamente conquistato per assecondare il «sogno» separatista del sen. Bossi, non è il caso di sminuire la pericolosità di certi atteggiamenti.
Riteniamo sia azzardato sottovalutare, come pare si faccia da più parti, le questioni che la Lega ha sollevato. Coloro che ritengono Bossi più folcloristico che pericoloso sono invitati a dare un'occhiata oltre Adriatico: forse tale visione renderebbe meno accettabile il martellamento propagandistico antimeridionale -condito da falsità marchiane e da vieti e banali luoghi comuni- della Lega Nord. E forse attribuirebbero ben altro significato al progettato referendum con quale si intende abrogare l'articolo 241 del Codice Penale che punisce chiunque attenti all'integrità territoriale dello Stato. Né serve cullarsi sulla illusione che l'Italia non è la Jugoslavia, che i popoli latini sono meno feroci dei popoli slavi, dimenticando le mattanze fratricide che per secoli (l'ultima, nel '43/45, costata oltre 300 mila morti) hanno insanguinato la Penisola.
Se poi si analizzano le cause del conflitto jugoslavo e si rileggono certe considerazioni di Tudjman sui trasferimenti di risorse dagli Stati del nord (Croazia e Slovenia) a quelli del sud (Serbia, Montenegro, Bosnia) non si possono non rilevare «fastidiose» analogie con i «deliri» leghisti.
I trasferimenti di risorse economiche dal Nord al Sud d'Italia, sui quali la Lega ha costruito le sue fortune elettorali, son propagandati in modo non veritiero e del tutto parziale. Non si può negare, ad esempio che gli aiuti erogati per i terremotati dell'Irpinia, a prescindere che siano giunti o meno alla legittima destinazione, siano stati più adeguati di quelli destinati agli alluvionati del Piemonte, nei confronti dei quali, il comportamento dello Stato, è scandaloso. È anche vero però che la tanto vituperata "Cassa del Mezzogiorno", conti alla mano, ha divorato meno risorse del capitalismo «assistito», pubblico e privato, che ha garantito la piena occupazione del Nord. Allo stesso modo non si può negare che ancora quest'anno la Provincia Autonoma di Bolzano (per tacere di quella di Trento e della Regione Autonoma della Valle D'Aosta) riceverà contributi statali per quasi 5 mila miliardi -oltre 10 milioni per residente-, una cifra ben più consistente di quella stanziata per qualsiasi regione italiana, quelle meridionali comprese.
Né le filippiche scomposte del leader leghista tengono nel dovuto conto quali siano i costi -non solo economici, ma anche nella perdita di dignità personale che la mancanza di lavoro comporta- che il Sud paga per mantenere inalterata la produzione delle industrie del Settentrione. E non ci riferiamo solo alla marginalità economica in cui la criminale politica comunitaria italiana ha costretto il Meridione per salvaguardare le quote del mercato automobilistico e di altre industrie settentrionali: distruzione dell'agricoltura, saccheggio delle risorse ambientali, sistema viario obsoleto, ma anche all'ulteriore aggravamento della situazione precedente in seguito a trattati tipo il GATT, con la ripartizione delle quote agricole comunitarie che penalizzano oltremodo settori trainanti dell'economia meridionale. Basti pensare alla situazione dell'importante settore caseario sardo che guida la classifica di esportazione di questo genere di prodotto (per farsi un'idea: 172 mila quintali di "pecorino" esportati nel '92, una quantità ben superiore a quella raggiunta dall'accoppiata parmigiano-grana padano con 116 mila quintali), penalizzato da un forte taglio nelle quote latte che mette a rischio gran parte delle 36 mila aziende del settore, con quali riflessi sulla già pesante situazione occupazionale isolana lo si può immaginare.
La strategia complessiva della Lega, se la si scandaglia a fondo, solo marginalmente appare ispirata alla «difesa» degli interessi reali del Nord, l'economia del quale non potrebbe, senza pesanti contraccolpi, perdere un mercato di milioni di consumatori com'è quello delle regioni del Sud. Se, infatti, come sostiene Keynes, il motore dell'economia e nella domanda di beni e non nella loro disponibilità, le affermazioni di Bossi sono prive di ogni valenza sul piano utilitaristico.
Ad essere cattivi si potrebbe ipotizzare che Umberto Bossi sia una semplice pedina di una situazione più complessa. In un recente saggio dell'economista Kenichi Ohmae, titolato "Dagli Stati-nazione agli Stati-regione, ecco dove va l'economia senza frontiere" ("Business Harvad Reviev" n° 4, luglio-agosto '95), si afferma: «gli effetti della mano invisibile hanno una forza ed una portata di gran lunga superiore a quanto si sarebbe sinora potuto immaginare ... Ora, invece, è l'attività economica che definisce il panorama nel quale tutte le altre istituzioni, comprese quelle politiche, devono operare». Si riscontra, per l'appunto, qualche assonanza con le tesi di Bossi e Tudjman; è solo un caso che sulle banconote croate il valore sia espresso anche in Marchi tedeschi. Varrà la pena di tornare presto sull'argomento.

Luigi Costa

 

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