da "AURORA" n° 28 (Agosto - Settembre 1995)

L'INSERTO

Eco - Fascismo

Francesco Moricca


«Pensare a un rapporto fra Dio e (...) la natura (...); a un suo rapporto con la morte e con il sesso, con la corrotta santità del Baal-Malech e con il suo culto, a Tiro, in cui gli uomini offrivano all'orribile Dio in una follia ripugnante, in una mortale spudoratezza, il loro seme. Il cielo ci guardi dal credere che egli avesse avuto a che fare con simili storie! (...). Per questo Abramo aveva avuto a Sichem lunghi colloqui con Melchisedec (...) sulla questione se e fino a qual punto esistesse una sostanziale identità tra la natura di questo Adon (Baal-Malech) e il Signore di Abraham.»

Thomas Mann, "Il giovane Giuseppe"


Il 24 aprile ultimo scorso, per commemorare la «liberazione dell'Europa dal nazifascismo», Umberto Eco ha tenuto alla Columbia University di New York una conferenza sul fascismo come «categoria eterna» della storia. "Repubblica" del 2 luglio ne riporta la parte più importante, e osserva che la conferenza (rivolta essenzialmente ai giovani americani) è avvenuta cinque giorni dopo l'attentato di Oklahoma City. Questa puntualizzazione la dice lunga... Ma è mio proposito astenermi dalla polemica e discutere le tesi di Eco con tutta la pacatezza di cui sono capace. Cercherò di assumere il punto di vista del più serio illuminismo critico: quello kantiano -per intenderci- la cui tradizione sembra oggi essersi del tutto smarrita, specie quando i migliori intellettuali contemporanei decidono di svolgere quella che secondo loro dovrebbe essere la «missione» pedagogico-politica della cultura.
Ciò, per intanto, allo scopo di mostrare che l'«irrazionalismo» che sarebbe proprio all'«Ur Fascista» non implica l'ottundimento delle facoltà razionali, ma potrebbe invece definirsi una critica della critica illuministica; al limite persino un «ipercriticismo» come tale riconducibile alle «nevrosi» indotte dalla modernità. È da notare poi, in secondo luogo, che il pensiero della Tradizione, nella sua versione non falsificata, poiché implica l'«instantia crucis» di una «illuminazione» (si pensi al Buddha e a San Paolo sulla via di Damasco), è un illuminismo: anzi, a rigore, il vero illuminismo rispetto al quale quello settecentesco, per i suoi caratteri intellettualistici (si veda il problema kantiano del rapporto fra «fenomeno» e «noumeno»), costituisce -non è facile negarlo- una netta involuzione; se non altro perché contiene in potenza l'ipercriticismo di cui si è detto poc'anzi; ovvero, più a monte delle sue manifestazioni «nevrotiche», quel carattere «ideologico-alienante» denunciato da Marx nell'idealismo hegeliano e più in generale in qualsiasi espressione del pensiero borghese.

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Dunque Eco parla di un «Fascismo eterno» che starebbe «dietro» tutte le forme di dispotismo o di fanatismo che si sono avute nel corso della storia. La presenza più o meno «casuale» di alcuni elementi fa sì che si determino le varie forme di fascismo realizzato: «togliete al Fascismo l'imperialismo e avrete Franco o Salazar; togliete il colonialismo e avrete il Fascismo balcanico; aggiungete al Fascismo italiano un anticapitalismo radicale (...) e avrete Ezra Pound; aggiungete il culto della mitologia celtica (solo di questa? - N.d.R.) e avrete uno dei più rispettati guru fascisti, Julius Evola».
Il concetto di "Ur Fascismo" è dunque una sorta di idea platonica iscritta «ab aeterno» nell'iperuranio di quello strutturalismo che è la corrente filosofica a cui appartiene Eco: uno strutturalismo marxisteggiante il cui carattere spurio a fronte del vero marxismo consiste nella inconciliabilità col «materialismo dialettico» denunciata a suo tempo dalla scuola marxista-leninista sovietica, e nella irriducibilità al «materialismo storico» posta in evidenza da Galvano della Volpe e dai suoi continuatori, in polemica, pur tuttavia, col rigido determinismo della «teoria del rispecchiamento» di Lukàcs e dell'ortodossia sovietica.
La «struttura» è infatti una totalità organica di fattori intimamente collegati fra loro, e in modo tale che anche il minimo mutamento di uno di essi farebbe mutare l'essenza della struttura stessa. Secondo questa definizione generale, non esiste contraddizione fra la «struttura» di cui parla Marx e la «struttura» degli strutturalisti. Sennonché -osserva Lévy-Strauss- la «struttura» è anche, anzi soprattutto, «un sistema di relazioni latente nell'oggetto», per cui in definitiva «la realtà più vera non è mai la più manifesta». La «struttura» è allora non già la «struttura economica» del marxismo, «storicamente» e «dialetticamente» mutevole dalla preistoria ad oggi, ma un assetto tipico immutabile e ricorrente nella varietà di fenomeni non solo «economici», anche assai distanti nel tempo e nello spazio.
Lo strutturalismo presenta così degli spunti critici interessanti, ne va taciuto che il concetto di «struttura» lo si trova in Spengler che lo intende come «organismo» impiegandolo per descrivere il ciclo vitale delle «epoche» storiche. Nell'ambito dello storicismo germanico, particolare menzione, merita la «struttura psichica» di Dilthey, «l'ordine secondo cui, nella vita psichica sviluppata, i fatti psichici di qualità differente sono reciprocamente legati da un'interna relazione che può essere immediatamente vissuta» come percezione, ad esempio, della valenza di un simbolo. Lo «strutturalismo di Spengler e Dilthey, su cui esercitò una forte influenza la kantiana "Critica del giudizio", si distingue per il suo finalismo: cioè per il fatto che la «struttura» è sempre un segno, che ha un senso preciso e orientato anche nell'oscurità e nella polisemia del simbolo. La casualità è esclusa nella genesi di una «struttura», ammesso che sia lecito parlare di genesi al riguardo. Qui, in altri termini, la «struttura» e l'«idea» platonica finiscono quasi col coincidere, né è possibile concepire il linguaggio come problema, costruire una semiotica come scienza probabilistica (è una curiosità degna di rilievo che anche Rousseau si sia mosso nella stessa direzione anticonvenzionalistica, nel suo "Discorso sull'origine delle lingue", quando si domanda come fu possibile «convenire» sul significato delle parole nelle varie lingue, senza che i «primitivi» possedessero un linguaggio inequivoco, certo e universale per intendersi).
Al contrario, lo strutturalismo alla Lévy-Strauss a cui si ispira Umberto Eco è decisamente convenzionalista. È un platonismo rovesciato, senza alcuna certezza, e in cui il problema del linguaggio -la semiotica- finisce col prendere il posto dei massimi problemi della speculazione, allontanandosi da quel rigore per il quale Kant -che era ben altra tempra di pensatore che non uno Hume e un Locke messi insieme- non si era accontentato di stabilire i «limiti della ragione», ma entro quei limiti aveva rivendicato alla ragione un dominio totalitario in ogni ambito dell'esistenza, anche in quello religioso. Il che è di certo un'eresia, epperò ben altra cosa dell'agnosticismo e della pura e semplice irreligiosità. Quello che ancora si ritrova in Lévy-Strauss, una certa considerazione del sacro, è quasi del tutto perso in Umberto Eco; non a caso il più grande esponente del «pensiero debole» contemporaneo, non solo filosofo, ma anche artista di notevole capacità.

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Ne "Il nome della rosa" troviamo infatti una completa e forse insuperata esemplificazione della problematica strutturalistica nei suoi aspetti metafisici, etici, politici.
Eco riconosce l'origine remota dello strutturalismo nella medioevale disputa sugli «Universali». Precisamente nelle conclusioni ultime, radicalmente «nominaliste», cui pervenne col suo celebre «rasoio» Ockam, massimo esponente di quel movimento francescano pauperista degli «Spirituali», in cui è da vedersi l'inizio vero della moderna epistemologia, nonché della concezione democratica della «sovranità popolare». Ciò nel quadro della crisi della Scolastica e delle due massime autorità, il Papato e l'Impero. L'azione del romanzo si svolge nel 1927, al tempo della discesa in Italia di Ludovico il Bavaro, mentre ad Avignone regna «l'anima peccatrice di Giacomo di Cahors, che gli empi onorano come Giovanni XXII» (non è una strana coincidenza né una contraddizione che Giovanni XXIII riprenderà con il Concilio Vaticano II lo spirito rivoluzionario del francescanesimo avversato invece da Giovanni XXII: in realtà, come quest'ultimo agirà per motivi politici e assai poco «spirituali»).
Il romanzo ha inizio con la citazione dell'esordio del Vangelo giovanneo: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio». Per Eco, il Verbo significa non già la Parola di potenza mediante la quale l'Assoluto Principio si «estranea» a sé e si fa «carne», prima di tutto «creando il mondo», e poi permettendo l'«incarnazione del Figlio» (lo stesso Verbo) per «riscattare il peccato del mondo»; ma piuttosto, alla maniera dello strutturalismo (intellettualisticamente e senza nessun riferimento teologico), la coincidenza del nome e della cosa che sarebbe propria, secondo Lévy-Strauss, alla coscienza del «primitivo». Per cui l'«incarnazione del Verbo» coinciderebbe con lo sviluppo della civiltà, col progressivo allontanamento del «significato» dal «significante», dell'«essere» dal «segno» che lo rappresenta o «nome». Il romanzo, così, non può non chiudersi con la seguente citazione dal "De Contemptu Mundi" di Bernardo di Morlay: «Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus» (la rosa primigenia consiste nel nome, non possediamo altro che nudi nomi). La citazione viene interpretata nel senso del più dogmatico nominalismo di Ockam dal suo «alter ego» e protagonista del romanzo: Guglielmo di Baskerville, il cui cognome è un'inquietante allusione al mastino del celebre racconto di Conan Doyle. E anche qui il significato della «rosa» del di Morlay, come già nel caso del «Verbo» giovanneo, volutamente esclude sia pure la possibilità dell'altra interpretazione: quella tradizionale riconducibile al simbolo ghibellino (antimoderno e altro rispetto al «ghibellinismo» di un Marsilio da Padova) della «Rosa di Soria» della Scuola poetica siciliana.
Per dimostrare che i «nomi» delle cose (per estensione anche le leggi che governano il cosmo e la stessa società) non corrispondono alla loro «sostanza» (a un essere immutabile perché in qualche modo determinato e garantito dalla divinità nell'atto di una «creazione» che deve ritenersi perpetua), Guglielmo cita il luogo del Genesi in cui è detto che Dio concesse ad Abramo di attribuire il «nome» a tutte le cose del Creato. Poiché «nomos» sta ad indicare la legge della natura come anche le leggi che governano la società degli uomini, essi sono liberi, se possono, di convenire di mutarle. «Il modo in cui il popolo avrebbe potuto esprimere la sua volontà» consiste per Guglielmo in «un'assemblea generale elettiva».
Si può obiettare che il luogo biblico in cui viene attribuito ad Adamo il potere di conferire il «nome» alla «Rosa» precede quelli che si riferiscono al «peccato» e alle sue conseguenze; che esso non può essere estrapolato da un contesto in cui si fa preciso riferimento all'albero della Scienza del Bene e del Male e all'Albero della Vita. Si può sostenere che una assoluta libertà non è concessa all'uomo neanche nell'Eden; sebbene qui, e solo qui, sia possibile attribuire il «nome» alla «Rosa», epperò in quanto la si conosce, in quanto l'Uomo è presso Dio e dialoga a tu per tu con lui.
Alla luce di questa puntualizzazione, e altresì tenendo conto dell'episodio della Torre di Babele, non si capisce -ovvero lo si capisce benissimo...- come faccia Guglielmo a sostenere che «uguali per tutti sono i concetti, segni delle cose», mentre «diversi sono i nomi che gli uomini impongono per designare i concetti». Infatti, i «concetti» sono i «nomi» e non possono essere «uguali per tutti». Se l'universalità del concetto viene intesa secondo le leggi della logica, si può comunque sostenere che la logica di un filosofo non è proprio quella di un matematico, né quella di un matematico è la stessa logica di cui si serve il ragioniere. Il delinquente non ragiona come il galantuomo, e questi sa bene quanto la sua logica sia distante da quella di Dio, che non si accontenta del galantuomo ma vuole il santo.
Per mascherare la sua contraddizione di fondo, il suo utilitarismo umanistico che ripugna a un sano umanesimo cristiano, Guglielmo ricorre a una presunta universalità dei «concetti», i quali sono tanto poco «universali» in quanto appunto «concepiti» dagli uomini, da individui per Guglielmo caratterizzantisi per avere temperamenti e volontà diversi. Dietro la ieratica prosopopea di Guglielmo occhieggia il diavolo, che etimologicamente è «colui che divide» e si compiace delle divisioni. Quando si accende una disputa tra Jorge e Guglielmo sul secondo libro della "Poetica" aristotelica che tratta della categoria del comico, Jorge afferma, non senza qualche ragione, che «questo libro potrebbe insegnare che liberarsi della paura del diavolo è sapienza (...) e da questo libro potrebbe partire la scintilla luciferina che appiccherebbe al mondo intero un nuovo incendio». Guglielmo ribatte: «il diavolo non è il principe della materia (essa pure «divisa» e «divisibile» e «sterco del demonio» - N.d.R.), il diavolo è l'arroganza dello spirito». Se per «arroganza dello spirito» s'intende l'arroganza del Superuomo, si può anche concordare con Guglielmo. Ma non si può che condannarlo, se per caso egli intenda, come pare intendere, l'«arroganza» della verità. Dice infatti Guglielmo che il diavolo è «la fede senza sorriso, la verità che non viene mai presa dal dubbio». Se egli può parlare in questi termini da nominalista radicale, ciò significa, molto semplicemente, che non crede a nessuna verità che non sia quella convenuta e concordata dagli individui in vista del loro immediato utile. E tutto ciò, per lui e per quelli che verranno dopo di lui, ha un nome: «umanesimo». È questo, in realtà, il «nome della rosa».
Ancora una volta, riguardo all'interpretazione della categoria del comico aristotelica, ci troviamo di fronte al procedimento tipico della «metodologia scientifica» degli strutturalisti alla Lévi-Strauss, che consiste, prevalentemente, nel privilegiare una delle interpretazioni possibili del testo a scapito delle altre; che esclude, più o meno surrettiziamente, il procedimento della «problematizzazione esaustiva» -quella seriamente scientifica- che troviamo in Kant e nel maggiore dei suoi eredi nella cultura italiana del Novecento, Antonio Banfi. Anzi, nel caso dell'essenza e della funzione del comico, Eco ci offre un esempio di vera e propria falsificazione. Perché non è vero che in Aristotele il comico, come il tragico, determini una «liberazione purificatrice» o «catarsi». Il comico è definito nella "Poetica" (5, 1449a 32 sgg.) come «qualcosa di sbagliato e di brutto che non provoca né dolore né danno», che emerge in una situazione in modo imprevisto perché irragionevole. Al contrario della tragedia, la commedia è «imitazione di uomini ignobili» (5, 1448, 32). Il comico è univocamente ricondotto all'assurdo da Hobbes ("De Homine", 12, 7) da Kant ("Crit. del Giudizio", 54), da Bergson ("Il Riso", 1900). per non citare poi gli «addetti ai lavori», commediografi come Pirandello e Ionesco. L'origine della falsificazione di Eco è ben precisa e non casuale: risale all'illuminismo sentimentalista inglese, a Shaftesbury, per il quale il riso sarebbe il principale correttivo del «fanatismo» ("Lettera sull'entusiasmo", II).
Il riferimento all'universo dei «sentimenti», tutti roussonianamente «buoni» tranne il «fanatismo», ci consente di vedere nella sua giusta luce l'episodio del romanzo relativo al processo contro Remigio di Varagine, un seguace di quel frate Dolcino che, anticipando nel medioevo la «teologia della liberazione», si fece promotore di una sollevazione contadina particolarmente cruenta, in cui rivivono le imprese dei donatisti Circoncellioni dell'epoca di Sant'Agostino e che ricorda per analogia quelle delle Brigate Rosse: Eco si fa un obbligo di dichiarare all'inizio del romanzo, che egli si trovava a Praga nel 1958, quando gli venne l'ispirazione di scriverlo, «in attesa di una persona amica. Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città», e aveva inizio -è da aggiungere- quella catena di drammatici eventi che condurranno all'assassinio di Aldo Moro.
«Si, è vero -confessa Remigio al cospetto dell'Inquisitore-, sono stato con Dolcino e ne ho condiviso i delitti, le licenze, forse ero pazzo, confondevo l'amore del signor nostro Gesù Cristo con il bisogno di libertà (...), si pecca anche per eccesso di amor di Dio, per sovrabbondanza di perfezione».
Abbiamo così una condanna abbastanza esplicita del «fanatismo progressista», la denuncia delle sue matrici «sentimentalistiche», naturalistiche e pertanto almeno tendenzialmente nevrotiche. Eco coglie, piuttosto felicemente e peraltro in linea con una certa psicoanalisi rivoluzionaria (si veda W. Reich, "La lotta sessuale dei giovani", Samonà e Savelli, 1972), il nesso comunque innegabile fra Eros e politica, specie quando essa si esprime nell'atto distruttivo rivoluzionario, come Thanatos allo stato puro.
Tuttavia, quando Adso, il pupillo del protagonista, violando l'obbligo della castità ha un rapporto sessuale con una fanciulla innominata che gli fa conoscere un «altro» aspetto dell'amore francescano come l'intende Eco -cioè come «segno di Dio»- Guglielmo, pur stigmatizzando il «peccato», conclude: «Io non riesco a convincermi che Dio abbia voluto introdurre nella creazione un essere così immondo (la «donna» come «segno» delle funzioni naturali e quindi anche storiche, la «donna» come simbolo della distruzione rivoluzionaria - N.d.R.) senza dotarlo di qualche virtù». (cor. mio)
Ciò è un modo molto sottile per vanificare quella che ci era parsa in un primo momento una condanna senz'appello del «fanatismo», anche di quello «progressivo». Apprendiamo, così, che vi è un fanatismo «meno colpevole», e che quindi deve esservene uno «più colpevole», quello che nel romanzo è rappresentato dal bibliotecario Malachia che giunge all'assassinio per impedire la lettura del secondo libro della "Poetica" aristotelica, e dall'Inquisitore Bernardo Gui che ci rende edotti delle motivazioni del bibliotecario assassino. La conclusione, ovviamente suggerita e non detta esplicitamente, è questa: non è dato all'uomo sfuggire al «fanatismo»; quello «più conveniente», il «meno colpevole», è il fanatismo permissivo. Che in teoria non dovrebbe spargere sangue. E se poi così non è, pazienza; perché la perfezione non può essere di questo mondo, della Rosa non conosciamo più che il «nome».
Una considerazione viene spontanea: tale è il modo di ragionare proprio agli Inquisitori di tutte le epoche, di coloro che hanno in mano il potere, e per giustificarne il possesso si nascondono dietro la cortina fumogena dell'«umanesimo».
Se si accetta questa interpretazione -ed Eco la deve accettare per la sua poetica del «romanzo» come opera aperta (si veda il suo "Problema della ricezione" in "La critica tra Marx e Freud" ed. Guaraldi, 1973)-, bisogna riconoscergli il merito di aver saputo, più di ogni altro strutturalista e può darsi anche dello stesso Lévy-Strauss, concepire l'autonomia dell'opera d'arte rispetto alle presunte meccaniche motivazioni nevrotiche della stessa investigate dalla psicoanalisi a partire da Freud. Sennonché, per la via intrapresa da Eco, si finisce col ridurre l'opera d'arte a una sorta di raffinata alchimia, finalizzata al mero scopo della «comunicazione» e della «costruzione del consenso», con una netta regressione rispetto a Freud, per il quale l'arte almeno valeva ancora come «sublimazione» delle pulsioni nevrotiche, cioè ancora, in un certo senso, come «catarsi». Dunque l'arte al servizio del potere come tutta la scienza moderna e contemporanea. Anzi, l'arte come scienza della persuasione occulta, come novella «retorica», come semiotica. Non è necessario essere crociani per rimanere sbalorditi!
Si capisce ora il significato simbolico della «biblioteca» nel romanzo, della biblioteca in cui, come nella storia, si consumano delitti per la difesa ma anche per la conquista del potere, del potere dei «segni» e della comunicazione (delitti che per essere incruenti, non sono tuttavia meno gravi dei cruenti, come abbiamo visto). La «biblioteca» è appunto la quintessenza della «cultura libresca», della cultura moderna che fa la storia senza correre rischi e senza sporcarsi le mani, lasciando ad altri l'ingrato compito: altri che, a seconda dei casi, possono essere i «fascisti» neri o rossi, da demonizzare indifferentemente in funzione degli eventi storici, dei risultati delle «operazioni» della nuova alchimia mediale.
Questo il nuovo umanesimo.
A riprova, leggiamo il seguente brano del citato "Problema della ricezione".
«Qual 'è la nozione tradizionale di lettura, quella che è ormai entrata nel dizionario delle idee comuni ed è professata ad un certo livello dai Bouvard e Pécuchet del paleo-umanesimo?
«Essa può così riassumersi: la Pagina (il Libro) è la comunicazione di un Assoluto (e perciò di un non-modificabile) che ha luogo tra due Universali: un Uomo da una parte e un Uomo dall'altra. Leggere significa penetrare in quell'universo intangibile e unico che l'Uomo, che sta dall'altra parte, ha trasfuso in Forma. La Forma è ciò che è: dal momento che è nata essa non si adatta al mondo, alla storia, alla società, allo spazio e al tempo, ma sono il mondo, la società, la storia, lo spazio e il tempo ad adattarsi ad essa e a trasformarsi a sua immagine. Leggere significa compiere questo atto di identificazione e di unità, penetrare in quel mondo dell'eternità in cui tutto ha una sola definizione, in cui ogni cambiamento è licenza e ogni possibilità si risolve nell'obbedienza alle superiori leggi della Forma! Tuttavia questo tipo di lettura non è più possibile, perché nella moderna società democratica ed egualitaria non esiste né culto della forma né omogeneità culturale. Qui il contenuto dell'opera viene recepito in maniera del tutto soggettiva e arbitraria, si ha il fenomeno della «decodificazione aberrante». Epperò non è il caso di allarmarsi. «Come ci hanno insegnato i formalisti russi (che anticiparono di trent'anni le scoperte della teoria della comunicazione), l'elemento per il quale l'opera d'arte ci impone un processo attivo di interpretazione è il senso di ostrannenie, di straniamento con il quale certi segni ci si impongono, trascinandoci a quella sfida che si chiama lettura appassionata, onesta, fedele. E rispetto a una società di lettori tradizionali (tanto abituati alle opere che leggono (...) da non sentirle più come qualcosa di nuovo e di provocatorio, ma come elementi di uno stanco rituale), il nuovo lettore non potrebbe per caso essere proprio il ricettore ideale di un messaggio per lui nuovo e che apre nuove vie alla sua immaginazione e alla sua intelligenza?».
Nel brano riportato si distingue per correttezza complessiva l'analisi del modo di lettura tradizionale. È da rilevarsi comunque che si adoperi «Universale» come sinonimo di «Uomo». Il che conferma che per Eco ogni uomo è un soggetto assoluto; che non esiste un ideale assoluto dell'uomo cui tutti debbano rapportarsi e che costituisce il fondamento metafisico di ogni etica e di ogni concezione politica da essa derivata. Persino quando ragiona dell'uomo «del passato» -dei «filistei» Bouvard e Pécuchet inventati dal «filisteo» Gustave Flaubert- e a maggior ragione quando si riferisse al «primitivo», Eco non è capace di astrarre dalla sua visione moderna: dal suo assoluto individualismo, dal suo solipsismo metafisico la cui matrice «diabolica» (stando alla mera etimologia che non si può negare come parte complementare se non essenziale della semiotica) scopertissima e inconfutabile. Questa la «scientificità» della sua metodologia, la cui inconsistenza teorica e strumentalità pratica è poi sottolineata dall'ottimismo che emerge in un secondo momento, quando Eco si mostra fiducioso nella possibilità che il lettore contemporaneo, formatosi alla scuola dell'incultura catto-comunista post-sessantottesca, riesca davvero ad esser lettore «appassionato, onesto, fedele» delle opere della cosiddetta classicità. E ciò perché, sulla scorta dei formalisti russi (leggere «strutturalisti»), i «segni» avrebbero in sé la «potenza magica» di farsi comprendere per effetto d'un presunto «straniamento», senza l'intervento di alcuna mediazione. Smaccata falsificazione! Perché i ministeri della «cultura popolare» dei regimi di fascismo e comunismo «realizzati» facevano una ben ponderata scelta delle opere «classiche» da presentare al pubblico mentre per le contemporanee obbligavano più o meno gli autori ad attenersi scrupolosamente a certi contenuti e ad esprimerli secondo le «forme» previste dalla «teoria della comunicazione» stabilita dal partito. Ove tuttavia si credesse in questa magica potenza del «segno» (e io personalmente vi credo), cosa ci garantisce -domando ad Eco- che essa sia una potenza buona e non malvagia? Non sembra ad Eco che il suo ottimismo sia troppo poco come argomento «scientifico»? Va detto che nei regimi totalitari di destra e di sinistra l'interesse per la magia è esistito ed è documentato. Sono propenso a credere che questo interesse fosse orientato più nel senso di quella che si suole definire magia «nera» che non nel senso di quella «bianca» o «rossa». Inoltre, può essere solo un caso che il centro italiano di certa cultura «progressiva» ad orientamento più o meno decisamente marxista cui appartengono i Bobbio, i Ferrarotti e gli Eco, sia proprio Torino, la città che detiene il non invidiabile primato nel campo dell'esoterismo nero e dei culti satanici?

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Da quanto si è argomentato fin qui emerge incontrovertibilmente, a prescindere dal fatto che il Lettore sia o non sia d'accordo con le analisi proposte e in sintonia con lo spirito che le ha dettate, che è possibile confutare la scientificità della categoria di «Ur Fascismo». Non solo, che è possibile ritorcere contro i presunti «antifascisti» l'accusa di «fascismo», e proprio con tutte quelle connotazioni negative -demonizzanti- con cui si suole intendere il termine di «fascismo», magari contestando la distinzione fra fascismo «regime» e fascismo «movimento» (e mi auguro che il nostro Pallavidini voglia riflettere con serenità su certe sue incaute affermazioni).
Quand'anche le mie tesi dovessero suonare capziose e sofistiche, resta comunque che lo sono almeno quanto quelle di Eco. E se lo fossero «di più», ciò non muterebbe la situazione a vantaggio di Eco nemmeno di uno iota.
Ma, al di là di questa considerazione che andava in ogni caso fatta, teorizzare un «fascismo eterno» è come sprofondare in una «notte in cui tutte le vacche son nere»: tanto è vero che Eco, per storicizzare la sua definizione, ha bisogno dell'espediente artificioso di «togliere o aggiungere» qualcosa (l'imperialismo e l'anticapitalismo) per distinguere il fascismo di Franco da quello di Ezra Pound. A questo punto, non solo Hegel ma anche Marx arriccerebbe il naso.
Ove poi si intenda il «fascismo eterno» come generica predisposizione della «natura umana» alla prevaricazione dei supposti «deboli» a cominciare dalle donne, alla imposizione di una «fallocrazia» che ovviamente deve presupporre un «complesso di castrazione» da piccolo borghesi, ad un antimodernismo pregiudiziale dettato da patologica incapacità di adattamento e dalla preoccupazione di conservare, per chi li abbia conquistati, posizioni di forza e «privilegi»; allora, o tutti sono fascisti, o tutti sono destinati a diventarlo. Fascista è il «potente»; ma più ancora lo è il «debole» (anche il «proletario») che lo invidia, vuole sostituirsi a lui e comunque ragiona e ragionerà sempre come lui.
Il che è qualcosa di più che non il mero ritorcere l'accusa di fascismo contro gli antifascisti. Gli antifascisti intelligenti e onesti non possono non convenirne. Eco non può cavarsela, contro un simile argomento, con un sorrisetto di sufficienza in pubblico, o facendo spallucce nel chiuso della sua coscienza. Che significa «sono uomo e niente di ciò che è umano ritengo estraneo a me stesso»? Forse che il terenziano «punitore di sé stesso» è semplicemente un nevrotico o un imbecille? Forse, secondo una lettura strutturalista, la massima vorrebbe essere una «classica» legittimazione del limite (ma anche del male) che è in noi, in ognuno di noi? Vero è che, chi è «permissivo" con sé stesso deve esserlo anche con gli altri. Ma che Eco non sia Tartufo, non lo assolve affatto. «Sub specie aeternitatis», lo rende assai più colpevole.
Siamo giunti così a toccare la radice ultima non solo del problema metafisico dello strutturalismo di Eco, ma di tutta quanta la filosofia «progressiva» del Novecento che a partire dal Sessantotto ha cercato di mettere d'accordo Marx e Freud. Sull'argomento si è già citato il libro di Reich e la raccolta di saggi, fra cui quello di Eco che si è discusso nelle conclusioni riportandone un brano piuttosto lungo. Come documento di un'epoca e di un certo tipo di ricerche, è da ricordare adesso il volume "Psicologia e Marxismo", curato da J. Piaget e R. Zazzo, pubblicato dagli Editori Riuniti nell'aprile del '73. Fra gli interventi quello di L. Brunelle sulle contraddizioni del concetto di «debolezza mentale» e quello di M. Caveing su marxismo e teoria della personalità sono emblematici delle aporie di fondo dell'ideologia che è venuta sviluppandosi a partire dal Sessantotto, tanto del progressismo laico quanto del modernismo radicale cattolico.
Tralascio di entrare nel merito delle tesi qui esposte. Poiché è piuttosto necessario approfondire l'analisi della metafisica «progressista» (che è «metafisica» -ben inteso- nel senso in cui gli scetticismi alla Hume e alla Feuerbach, che ne sono l'origine, lo sono in quanto negatori a priori della metafisica propriamente detta), esaminerò i rapporti genetici della semiotica con la psicoanalisi che furono individuati dai logici polacchi, i fondatori, appunto, della semiotica contemporanea. A. Korzybski, nel suo "Science and Sanity", distingue la semiotica dalla logica e la definisce come una teoria del linguaggio in cui il significato delle «parole», e più in generale di qualsiasi «segno», è dato, al di là della sua valenza logico-formale, da elementi extra-logici di natura psichica («sottile», per dirla alla maniera dell'Alchimia) che è possibile «isolare» studiando le turbe linguistiche delle personalità neuroasteniche, sulla scorta delle osservazioni freudiane relative alla «battuta di spirito» e ai «lapsus». Il lato curioso di questa teoria, che sembra andare ben oltre Freud costituendone una sintomatica estremizzazione, è dato dal fatto che quanto meno essa presuppone relazioni inquietanti fra il linguaggio (quindi le «strutture» del pensiero umano normale) e un substrato «inconscio» considerato in sé «anormale» ovvero «patologico». Come dire, in buona sostanza, che non esisterebbe alcuna vera differenza fra normalità psichica e anormalità. Secondo Korzybski la cosiddetta normalità del pensiero si ricaverebbe non già da un dato permanente oggettivo (che è in vero tutto ciò che è compendiato nel termine di «tradizione»), ma invece da un processo intellettualistico a posteriori, realizzato dallo studioso e mirante a individuare, come già si era fatto a partire da Aristotele, le «strutture» («categorie») e i «meccanismi» («sillogismi») del pensiero «puro». Ma mentre la logica, da Aristotele a Russell, si era fermata qui giustamente, e su questa base era in grado di distinguere fra una «proposizione» corretta e una che non lo era (compresi i casi rilevabili presso soggetti neuroastenici), Korzybski va oltre, supponendo -il che in un certo senso e anche vero- che qualsiasi logica contenga al suo interno sempre il suo esatto contrario e come in potenza il germe della sua dissoluzione. Questo non vuol dire che ogni sistema logico abbia al suo interno la possibilità di fondarne un altro come il primo in sé coerente e non autocontraddittorio. Significa, invece, che persino la logica apparentemente più solida poggia sul nulla.
In quest'ottica è lecito altresì sostenere che la «nevrosi» abbia un'origine metafisica: che abbia principio da una qualche forma di terrifica percezione di questo nulla, invece che da episodi traumatici fisiologici, che sono per Freud l'unica origine del «complesso», e che al contrario, potrebbero esserne soltanto la somatizzazione. Detto in altra forma, ciò significa che tutti saremmo pazzi perché suscettibili di diventarlo all'occasione, perché la pazzia sarebbe il dato ultimo costitutivo del pensiero e anzi dell'Essere.
Da questa aporia, di cui Korzybski sembra non essersi reso ben conto, cercarono di uscire Ch. W. Morris e R. Carnap (in "Foundations of the theorie of signs", 1938, cap. IV: e in "Foundations of logic and mathematics", 1939, I, 2). Essi distinsero nell'ambito di una semiotica generale una pragmatica e una sintattica. Quest'ultima sarebbe la «logica formale» di cui verrebbe in tal modo garantito il valore universale o «normale». La pragmatica sarebbe invece la semiotica di Korzybski considerata come una branca della psicologia e della sociologia. Nota l'Abbagnano nel suo "Dizionario di filosofia" che questa distinzione è «molto sottile e problematica». Né più soddisfacente risulta essere la soluzione proposta da Quine, per il quale bisognerebbe distinguere fra il «significare» (che sarebbe operazione «scientifica» demandata alla sintattica) dal «nominare» polisenso o metaforico del linguaggio comune e anche artistico: il Lettore ricorderà infatti le osservazioni critiche fatte più sopra circa l'affermazione che Eco mette in bocca a Guglielmo di Baskerville -che riproduce esattamente la tesi di Quine- e secondo la quale «uguali per tutti sono i concetti, segni delle cose; diversi i nomi che gli uomini impongono per designare i concetti».
In definitiva, i semiologi strutturalisti non riescono a superare l'aporia di Korzybski perché essa è effettivamente insuperabile a causa della peculiarità della loro «ontologia»; ontologia che è quella radicalmente scettica di uno Hume e di un Feuerbach. Il loro problema, per niente nuovo nemmeno nelle soluzioni più o meno aberranti, era conosciuto dai Greci fin dal tempo di Parmenide (cfr. Fr. 19, Diels). Era stato approfondito dai Sofisti (cfr. Gorgia, Fr. 3, 153, Diels) e definito con insuperato rigore da Platone nel "Cratilo". È il problema dell'origine del linguaggio: se essa sia naturale ovvero divina, oppure meramente umana, convenzionale; il che, se non significa divina certamente, non significa nemmeno naturale, proveniente per così dire dall'istinto. Platone, in linea con tutto il pensiero tradizionale, crede nell'origine «divina» del linguaggio nel senso che di essa non può dirsi alcunché di veramente certo in termini puramente razionalistici. Dice nel "Cratilo": «A me piace che per quanto è possibile, i nomi siano somiglianti alle cose; ma io temo che (...) questa attrazione della somiglianza ci porti su di un terreno sdrucciolevole e che perciò sia necessario servirci di un mezzo più grossolano cioè della convenzione, per renderci conto della giustezza dei nomi». Infatti il nome dei numeri, non essendo i numeri «cose», non può essere garantito dalla somiglianza con le cose. Sennonché, per Platone il criterio della convenzionalità non implica l'idea che questa convenzionalità, come penseranno prima i nominalisti medioevali e poi gli strutturalisti contemporanei, sia qualcosa di sostanzialmente arbitrario. La convenzionalità del linguaggio e certificata dall'uso e da una remota pratica: «Se l'uso non è una convenzione, sarebbe meglio dire che non la somiglianza (del nome con la cosa) è il modo in cui le parole significano, ma piuttosto l'uso» (Crat. 435, a, b, c).
La questione posta dai nominalisti medioevali e dagli strutturalisti contemporanei va dunque pensata spostando la prospettiva, dalla storia in atto al principio della storia, dalla dimensione del tempo a una dimensione senza tempo, dall'uomo contingente all'uomo eterno (l'Adamo biblico), e da questi, infine, a un assoluto in funzione del quale è possibile parlare di un uomo «eterno» o «idea dell'uomo». Questo assoluto può anche chiamarsi «Dio".
E allora l'arbitrarietà della convenzione linguistica e la certezza del pensiero-essere non appartengono all'uomo ma a "Dio".
A questo punto vi è una duplice possibilità di interpretare le conclusioni a cui perviene Platone. Si può concepire questa arbitrarietà nel senso d'una perfetta trascendenza, come ha fatto San Tommaso d'Aquino. La tarda Scolastica definì poi il rapporto «sussistente» fra arbitrarietà e trascendenza (che in realtà è «ineffabile» e può esser colto solo nelle sue manifestazioni «di potenza») in termini di «aseità», per cui Dio è definibile come un essere che ha in sé stesso la sua causa e il suo principio. La qualità contraria all'aseità è l'«abalietà» che appartiene in generale a tutto ciò che «deriva» da Dio ovvero che è «creato». In Cristo (come «figlio di Dio», «Verbo», o «Logos», seconda persona della «Trinità» ma anche «secondo Adamo») aseità e abalietà coincidono. I semiologi direbbero che in lui coincidono «significato» e «significante». Korzybski, in particolare, in questo «mistero» verrebbe una conferma della sua aporia, nonché una prova del suo metodo psico-semiologico consistente nel dare rilevanza epistemologica al linguaggio dei soggetti neuro-astenici. Ma ora dovrebbe essere chiaro che ciò è possibile nell'ambito di una visione radicalmente distorta e aberrante: perché ripugna al sano ragionamento mettere in discussione le categorie del pensiero, addirittura quando esse siano state già circoscritte nei limiti stabiliti dalla kantiana critica della «ragion pura-pratica». Ancora più aberrante è l'ignorare, come fa Korzybski, che le problematiche semiologiche sottendono e implicano problematiche etico-politiche che è assai pericoloso ridurre nei termini della psicoanalisi, della sociologia e al limite della neuropatologia. Dice molto opportunamente Leibniz: «I significati delle parole sono arbitrari (ex instituto) ed è vero che non sono determinati da una necessità naturale, ma lo sono tuttavia per opera di ragioni naturali, in cui il caso ha la sua parte, e talvolta morali, in cui entra una scelta» ("Nouv. Ess.", III, 2, 1). Come si attui questa scelta, e su di un piano che non è esclusivamente etico e non può di conseguenza essere ricondotto alla degenerazione dell'etica che è il «fanatismo», ce lo spiega Humboldt: «Non possiamo concepire il linguaggio come avente inizio dalla designazione degli oggetti mediante le parole e come procedente in un secondo tempo alla organizzazione delle parole stesse. In realtà, il discorso non è composto da parole che lo precedono, ma al contrario le parole prendono origine dall'intero discorso» ("Werke", VII, 1, p. 72 e segg.).
La seconda possibilità di interpretare le tesi di Platone sul linguaggio, che è contenuta «in nuce» in Leibniz e più ancora nell'idealismo humboldtiano, è quella di immaginare l'arbitrarietà della convenzione linguistica e del pensiero-essere dal punto di vista di una immanenza che aspira ad attingere la trascendenza e in un certo senso ad immanentizzarla. È la via del dionisismo alla Nietzsche (si pensi alle composizioni poetiche di Nietzsche e ai loro rapporti con i «biglietti della follia» del suo ultimo periodo, ma anche all'opera complessiva di Hölderlin). È, in secondo luogo e in maniera assai più convincente che non presso il «Dioniso crocifisso», la via indicata da Evola e definibile in forma sintetica come quella di un «dionisismo lucido». E lucido in quanto Evola non solo non rinuncia mai ad un uso illuministico e se si vuole «spregiudicato» e «voltairiano» della «raison», ma perché solidamente ancorato a quella «tradizione» platonica e persino «gnostica» che con buona pace di Eco, è per Evola almeno altrettanto importante di quella del druidismo. Ciò addirittura, a un livello preconscio, nel periodo «giovanile» in cui fu scritta un'opera ancora romantica quale la "Teoria dell'Individuo assoluto".
Qui Evola si propone di portare alle estreme conseguenze l'idealismo trascendentale kantiano; di realizzare, oltre Fichte, Schelling ed Hegel, quello che egli chiama «idealismo integrale».
All'inizio del libro si nega che tutti i sistemi filosofici moderni si siano sviluppati «quasi automaticamente secondo una necessità e una vis logica (loro) propria (...), un tale ideale di oggettività non potendosi realizzare nemmeno nell'ordine della logica pura e nella matematica pura. Già un Fichte aveva rilevato che, a seconda di quel che si è, ci si forma una certa filosofia e non un'altra. In genere, il razionale ha la sua ragione e il suo principium individuationis non in sé stesso ma in un impulso scaturente da uno strato più profondo dell'essere». A sostegno di questa affermazione, Evola cita un libro di Abbagnano pubblicato a Napoli nel '23: "Le sorgenti irrazionali del pensiero". Venendo poi a discutere, verso la conclusione della "Teoria", della «scientificità» della filosofia «realistica» contemporanea (ivi compreso il marxismo, ma il discorso vale «a fortiori» per la sintesi di marxismo e freudismo operata dagli strutturalisti), Evola scrive: «Il proprio (della filosofia realistica) il far del non-essere un essere. Chiamando reale ciò che, come correlativo simbolico di una privazione del potere centrale, di una negazione o passione del corpo immoltiplicabile dell'attività dell'Io, dovrebbesi invece, secondo giustizia, chiamare irreale, essa (filosofia realistica) conferma questa privazione stessa, e, per così dire, fugge, evade. All'atto che, dominandole, annulla le cose come tali e redime la privazione, il realista sostituisce l'atto che le riconosce e dà loro superstiziosamente un essere e una realtà autonoma: come per un collasso della tensione interna (tesa all'impossessamento e alla dominazione della cosa)».
Alla luce di questo brano evoliano, dovrebbe emergere in tutta evidenza che, rispetto al marxismo-leninismo, lo strutturalismo -in special modo quello di Eco- rappresenta una involuzione netta nel senso dell'idealismo deteriore hegeliano, quello che Marx avrebbe voluto correggere mediante il «capovolgimento della prassi»: anzi una involuzione netta rispetto all'idealismo «tout court». Infatti, all'inizio del nostro discorso, si è definito lo strutturalismo come un platonismo al rovescio. Ora possiamo dire meglio: che esso è un idealismo senza idea, nel senso della semiologia psicoanalitica di Korzybski e dell'aporia che ne scaturisce (anzi che la determina, secondo l'analisi evoliana).
Un modo di «rimettere le cose al loro posto» attraverso un argomento solo apparentemente paradossale, potrebbe essere il seguente ragionamento di Meister Eckhart: «Si prenda un carbone ardente e lo si ponga sulla mia mano. Se dicessi che il carbone brucia la mano, non direi giusto. Se dovessi davvero dire ciò che mi brucia: è il nulla. Poiché il carbone ha in sé qualcosa, che la mano non ha. Ecco, proprio questo nulla mi brucia. Ma se la mia mano avesse in sé tutto quello che il carbone è e può, essa avrebbe nel contempo la natura del fuoco. Chi allora prendesse tutto il fuoco che mai ha divampato e lo rovesciasse sulla mia mano, non potrebbe farmi alcun danno».
Idealismo senza idea, si diceva poco fa dello strutturalismo. Idealismo senza volontà, snervato, femmineo, si può ancora aggiungere dopo aver meditato il passo eckhartiano. Donde emerge altresì che uno dei modi di conoscere l'«idea» consiste in uno sforzo della volontà tesa a riempire il «nulla»; a riempirlo secondo una forma ordinata, alla luce di una immaginazione (come si può ricavare dalle citazioni del giovane Evola) in cui l'«esprit de géométrie» abbia decisamente il sopravvento sull'«esprit de finesse». Ove accada il contrario -è il caso dello strutturalismo, specie quando si esprime in opere d'arte come in Umberto Eco- è il nulla e non l'uomo (il «Soggetto universale») ad avere il sopravvento, acquistando tutti i caratteri d'una presunta «realtà, scientifica», una realtà superstiziosamente venerata e assetata del sangue di bimbi come il Moloch fenicio, ma anche compiacentesi delle sfrenatezze sessuali, come l'Adon parimenti fenicio per i cui sacerdoti era addirittura prescritta l'autoevirazione.

***

Siamo così giunti alle conclusioni. Ognuno può ormai giudicare da sé quanto poco veritiero sia il quadro che nella sua conferenza Eco traccia della «tradizione», soprattutto di quello che sarebbe l'«irrazionalismo» e «irrealismo» (il «fanatismo») propri ai pensatori «tradizionali», fra i quali Eco colloca, e su di uno stesso piano, De Maistre, Evola e persino Antonio Gramsci, ricorrendo per questo ultimo a un espediente noto agli «scienziati della comunicazione»: quello di porre i nomi in posizione contigua nel rigo di scrittura, e di attribuire agli avversari l'indebita appropriazione di Gramsci con lo specioso argomento del «sincretismo» che viene sostenuto nel contesto logico del discorso.
Questo argomento del sincretismo religioso e più in generale «culturale» che sarebbe proprio alla «tradizione», è utilizzato da Eco per dimostrare che, secondo gli «Ur Fascisti», «non ci può essere avanzamento del sapere», e dunque è necessario arroccarsi su posizioni «conservatrici» ovvero «oscurantiste».
Eco, tuttavia, aveva più sopra dato una corretta definizione del «sincretismo» come fenomeno verificatosi nel mondo romano alle soglie dell'Era volgare, e aveva specificato che «sincretismno non è solo, come indicano i dizionari, la combinazione di forme diverse di credenze o pratiche. Una simile combinazione deve tollerare le contraddizioni». E in effetti le «tollerò» come ancora il Pantheon a Roma sta a testimoniare. Ma -chiedo ad Eco- come si concilia questa «tolleranza» che egli riconosce nell'epoca in cui, secondo le sue approssimative conoscenze in materia di «pensiero tradizionale», avrebbe avuto origine l'«Ur Fascismo», con l'intolleranza fanatica eterna dello stesso?
Non si può in alcun modo conciliare, e questa è un'altra prova della «debolezza» della sua filosofia, anche nel suo modo di argomentare. D'altra parte «tollerare le contraddizioni» non significa soltanto qualcosa sul piano dell'etica, significa anche qualcosa sul piano della logica!
Quanto al «sincretismo», va detto tuttavia, secondo la verità storica nella sua interezza, che esso ebbe proprio quasi tutte le connotazioni negative che si suole attribuirgli, compreso un certo modo di intendere la «tolleranza». Epperò in quanto l'epoca in cui si sviluppò per molti versi somigliava alla nostra contemporanea: si era nel periodo della crisi del mondo antico, culturalmente caratterizzata da una sorta di proto-illuminismo sviluppatosi dal cosiddetto «illuminismo greco» dell'età di Pericle; dal cesarismo ellenistico-romano, da una grave instabilità esistenziale, e infine dal diffondersi di pratiche magiche e culti ctonii e para-satanici provenienti dall'Oriente. Il sincretismo fu in definitiva una mescolanza molto «moderna» di tutti questi elementi. Anzi, persino il cristianesimo potrebbe intendersi come una forma di sincretismo in quanto, almeno da un punto di vista «culturale», si configurò all'inizio come una mescolanza di elementi allotrii, quali erano appunto il platonismo e l'ebraismo.
Il sincretismo non solo ritorna oggi nel tentativo di operare una sintesi di marxismo e freudismo così come la abbiamo riscontrata presso la semiologia e ad un livello assai profano. Ritorna -il che è assai più grave e sintomatico- al livello di una molto dubbia sacralità, che pretende di «reagire» alla decadenza del sacro in Occidente attraverso il «dialogo fra le religioni»; il cui centro è stato prescelto -è una mera coincidenza?- proprio ad Assisi, la patria di San Francesco donde trasse primitivo impulso quell'Ordine francescano che tanto fascino esercita presso il modernismo e presso Umberto Eco.
È dubbio, dunque, che il sincretismo appartenga al «pensiero tradizionale» e sia uno degli aspetti caratteristici dell'«Ur Fascismo». È certo che esso è riscontrabile nel fascismo storicamente realizzato, come lo fu anticamente nel cesarismo ellenistico-romano e lo è oggi in clima di «trionfante modernità».
La vera posizione del «pensiero tradizionale» nei confronti del sincretismo religioso è invece così riassunta da 'Abdal Wähid Pallavicini: «Un ecumenismo di base, come già si dice, o a buon mercato, un sincretismo che baratta i valori dottrinali nella promiscuità dei riti, una fratellanza laicistica dimentica del nostro Padre comune al fine di costituire un paradiso in terra, prodromo e segno non già dell'attesa seconda venuta di Gesù (su di lui la Pace), il cui Regno non è di questo mondo, ma dell'altra venuta annunciata da tutti i testi sacri, quella di colui che secondo il Vangelo saprà ingannare perfino gli eletti, se ciò fosse possibile, il dajjál, diciamo noi musulmani credenti, e cioè l'Anticristo: tutto ciò neghiamo e respingiamo». ("Islam interiore", Mondadori, '91, p. 147)
L'ultima affermazione di Eco circa l'«Ur Fascismo», che va ora definitivamente contestata come strumentalmente riduttiva nonché storicamente falsa, concerne il preteso «irrazionalismo» ed «oscurantismo»: l'avversione preconcetta, in altri termini, riguardo a ciò che si suole definire «scienza» e «tecnica».
Quanto si è fin qui affermato in vari luoghi può essere integrato con ulteriori e credo esaustivi argomenti.
A prescindere dal fatto che la tesi di Eco è stata confutata da autori estranei all'area «tradizionale» con dati storici riguardanti la non, preclusione dei «fascismi realizzati» nei confronti di scienza e tecnica (specie presso il fascismo italiano che di esse, per via delle sue ascendenze futuriste, non ebbe una visione meramente strumentale), è da dire che un'ostilità pregiudiziale, filistea e ottusa, non esiste proprio in ciò che Eco definisce «Ur Fascismo», e che non è altro, in realtà, che il «pensiero tradizionale». Il caso del jüngeriano "Der Arbeiter" del '32 ne è una prova lampante. Non solo -dice Jünger- «la tecnica è il mezzo con cui la figura dell'operaio (non da intendersi in senso marxiano ma come artefice, homo faber - N.d.R.) mobilita il mondo», ma è «una nuova lingua (che) viene improvvisamente parlata». Allora «il rispondere dell'uomo, o il suo restar muto, decideranno di lui». Secondo la prospettiva tradizionale, della scienza e tecnica occorre saper «cogliere la legge segreta e servirsi di essa come di un'arma». Nella sua ultima opera, "Libro dell'orologio a polvere", l'ormai centenario Maestro profetizza il superamento della «civiltà» che è venuta costruendosi a partire dalla rivoluzione industriale ottocentesca e che oggi si suole definire «post-industriale»: «Secondo me il XXI secolo sarà quello dei titani della tecnica, il XXII quello degli dei nel senso di Hölderlin».
Conclusioni come queste erano state intraviste e anticipate da Evola in "Cavalcare la tigre", epperò in un quadro assai meno ottimistico. È rimarchevole comunque che lo studio e l'approfondimento critico delle tematiche sviluppate in "Der Arbeiter" abbia impegnato Evola dall'anteguerra fino al '60 e oltre, e non certo in maniera improvvisata e dilettantesca, visto che Evola aveva quasi ultimato gli studi di ingegneria giungendo alle soglie della laurea, non conseguita «in ispregio dei titoli accademici».
Per un altro verso, le speculazioni sulla scienza e tecnica moderne da parte dei «pensatori tradizionali» citati (ai quali bisogna associare lo stesso Heidegger e Karl Schmitt) non ne tralasciano i risvolti etico-politici, trattati con ben altra completezza e profondità che non presso gli accademici imbonitori contemporanei delle «magnifiche sorti e progressive», specie quando essi disquisiscono dei «guru reazionari e oscurantisti dell'Ur Fascismo».
Al riguardo occorre richiamare l'attenzione del Lettore su un libro di Jünger che tratta appunto della utilizzazione della scienza e tecnica da parte dei fascismi «realizzati», con particolare attenzione proprio al nazionalsocialismo e alla posizione nei riguardi di esso che deve assumere chiunque si richiami ai Valori Tradizionali (a ciò che Eco qualifica come «Ur Fascismo») epperò in chiave rivoluzionaria e non conservatrice.
Il libro è "Sulle scogliere di marmo", un libro «orwelliano» che fu commentato assai acutamente da Evola in una recensione del 1943 (la data è di per sé parecchio significativa). Ne stralciamo il brano seguente, che richiamiamo vivamente all'attenzione di Umberto Eco e di tutta quanta la cultura «progressiva», segnatamente di quella pontificante ai piedi delle Alpi, nella città di Torino.
«Nel mondo ideale proprio al nuovo libro simbolico dello Jünger si ha (...) quasi un ritorno a valori, che nel precedente ("Der Arbeiter" - N.d.R.), non stavano di certo in primo piano. Molti elementi fanno pensare, che si tratti, qui, di una specie di bilancio negativo proprio del mondo elementare epperò, in buona misura anche del mondo dell'operaio. Le forze scatenate che distruggono le città della Marina, dopo aver travolto sia la sopravvivenza generosa, ma pure stremata, della civiltà del Secondo Stato, sia gli artificiali, nihilistici rappresentanti della semplice volontà di potenza, e, infine, in Belovar, le poche energie ancora schiette e legate alla terra -queste forze del Forestaro (Hitler o anche Stalin - N.d.R.) danno ben l'impressione del mondo della mobilitazione totale, del mondo del Quarto Stato e del tellurismo rivoluzionario giunto al limite e rivelante alla fine la sua vera natura. Con l'avvento di tali forze (...) non è il mondo della borghesia, dell'individualismo o del Terzo Stato che crolla, ma un mondo della qualità, della personalità, dell'ascesi, della tradizione misterica e sacra, della cultura in senso superiore. È lo stesso Jünger, già assertore della guerra totale e quasi estrema istanza a sé stessa, che ora riconosce che il coraggio guerriero non è il valore supremo; che è inevitabile andare incontro al mondo della selva e del Forestaro quando, insieme alla forza, non si possegga un principio superiore, una legittimazione, per così dire, dall'alto, come quella simboleggiata dalla figura dell'asceta travolto lui stesso nel crollo del tempio in fiamme, dopo l'ultima benedizione. Tolti i suoi lati apocalittici, il libro dello Jünger ha dunque un contenuto profondo. Una chiaroveggenza lo pervade, superiore di certo a quella del periodo di "Der Arbeiter", adeguata alla serietà di questi tempi».
«Il fenomeno dell'irruzione dell'elementare è realtà: e reale è anche il processo di enucleazione di un nuovo tipo realistico, eroico, impersonale, capace di un controllo e di un'azione assoluta, proteso verso una assunzione totale della vita», verso un ordine più alto del primitivo attivismo guerresco dello Junger, ma «con riferimento a valori trascendenti, alle file segrete di qualcosa che non è di questa terra e che forse fino ad oggi è stato ancora custodito».
«Il volto dell'epoca che viene dipenderà certamente dalla misura in cui, malgrado tutto, questa possibilità si realizzerà». (cor. J. E.)
A tanto non v'è nulla da aggiungere.
Eco conclude la sua conferenza con questa citazione da un discorso pronunziato da Roosevelt il 4 novembre 1938:
«Oso dire che se la democrazia americana cessasse di progredire come una forza viva, cercando giorno e notte, con mezzi pacifici, di migliorare le condizioni dei nostri cittadini, la forza del Fascismo crescerà nel nostro Paese».
Parole certamente profetiche se trasposte alla attualità presente. Ma, con buona pace di Eco, il baluardo al nuovo fascismo non sarà certamente costituito dal cosiddetto polo «progressista», ma invece proprio da ciò che lui chiama spregiativamente «Ur Fascismo». Ammesso che chi ancora «custodisce» ciò che non è di questa terra riesca a farne valere le ragioni. Il nuovo Forestaro è comunque più forte e agguerrito del vecchio. Ed usa ben altro «manganello».
 

Francesco Moricca

 

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