da "AURORA" n° 29 (Ottobre 1995)

EDITORIALE

Nazione, razzismo, economia

Luigi Costa


«Molti degli Ebrei che erano proprietari di case ed appartamenti nei quartieri neri, noi li consideravamo delle sanguisughe perché essi presero dalla nostra comunità per costruire il benessere della loro. E quando gli Ebrei se ne andarono arrivarono gli Arabi, i Coreani, i Vietnamiti ed altri gruppi razziali. E noi li chiamiamo sanguisughe»

Louis Farrakhan
leader afro-americano


Stupri, rapine, spaccio di sostanze stupefacenti, prostituzione, sanguinosi regolamenti di conti, microcriminalità diffusa. Intere città, da Genova a Torino, da La Spezia a Roma, da Firenze a Milano, sono teatro di una serie infinita di violenze, tali da rendere invivibili interi quartieri e determinando una pericolosa spirale di scontri e ritorsioni nelle degradate periferie urbane. Una situazione esplosiva; incancrenita, dopo mesi di inutili chiacchiere, prodotta dalla incapacità dello Stato di controllare il territorio, razionalizzare i flussi migratori, procedere alla espulsione degli extra-comunitari più violenti, anche quando colti in flagranza di reato o condannati dai tribunali della Repubblica, ma anche frutto dell'inadeguatezza delle strutture in grado di evitare, o almeno lenire, le sofferenze di migliaia di essere umani, costretti a condizioni di vita sub-umane.

I numeri del problema

In territorio italiano sono presenti, secondo stime ufficiose, 200 comunità di immigrati extra-comunitari, in massima parte provenienti dal continente africano e, in minor misura, dai paesi balcanici e dell'Est europeo, con significative presenze di asiatici e sud-americani, per un totale di 838 mila immigrati regolari a cui va sommato un pari numero di clandestini. 
Degli immigrati regolari solo 250 mila sarebbero regolarmente occupati o iscritti nelle liste di collocamento. La maggioranza vive di piccoli commerci (vendita ambulante) o di espedienti al limite della legalità (lavavetri, accattonaggio, etc.), mentre una parte consistente è andata ad ingrossare le fila della già agguerrita malavita nazionale: spaccio di stupefacenti, sfruttamento della prostituzione (con migliaia di donne ridotte in stato di vera e propria schiavitù) e microcriminalità i reati più frequentemente commessi.
Una quota rilevante dei clandestini, anche se minoritaria, è assorbita dai settori sommersi dell'economia (lavoro nero); senza alcun diritto o garanzia sociale, angariata e sfruttata da individui senza troppi scrupoli. La maggioranza vive nella marginalità e nella disperazione oppure è costretta a riversarsi nel circuito della criminalità.
Non esistono né stanno per essere varati nel breve periodo, piani organici di pronta accoglienza e di addestramento per l'avvio al lavoro; ad intervenire sono stati delegati gli Enti locali che, nonostante i lodevoli sforzi, non sono in grado di sopperire, mancando di risorse sufficienti, alle necessità quotidiane di un fenomeno di questa portata. Né l'impegno del Volontariato, cattolico e laico, basta ad evitare il degenerare delle condizioni di vita di migliaia di persone.
Le istituzioni governative sono quasi assenti e le Forze di polizia ben poco possono fare nel perseguire i violenti, non essendo la loro azione supportata da leggi chiare ed adeguate. La "Legge Martelli" si è rivelata, nella concreta applicazione una sorta di boomerang, allargando a dismisura le possibilità che i clandestini avevano di evitare l'espulsione, con una serie infinita di scappatoie legali.
Da canto loro i partiti politici, incapaci di iniziative legislative serie ed efficaci, intervengono unicamente per sfruttare il malessere che questa situazione ha finito col produrre.
La destra: tendenzialmente xenofoba, nonostante il «cerone» di Fiuggi, propende per una politica di chiusura totale: militarizzazione delle frontiere ed espulsione in massa dei non regolari. Tutto naturalmente, senza presentare proposte di una qualche validità e col solo intento di monetizzare, in termini di consenso elettorale, l'allarme sociale e la montante protesta di quanti, loro malgrado, sono costretti a cambiare le loro abitudini, con pesanti limitazioni della libertà personale (specie nelle ore notturne) o debbono rinunciare all'esercizio delle attività produttive in quelle porzioni di territorio ove la criminalità e il malessere sono più marcati.
La sinistra, viceversa, blatera di solidarietà, diritti umani, dovere dell'accoglienza, società multirazziale, rifiutando di fare i conti con una realtà oggettiva nella quale gli spazi per la demagogia spicciola si sono drammaticamente ristretti, visto che il rischio di uno scontro generalizzato tra immigrati o cittadini italiani, in molte città, è diventato concreto. Anzi, la sinistra, nelle sue frange più estreme (Rifondazione, Centri Sociali, etc.) continua a vagheggiare una sorta di razzismo alla rovescia (sanatoria generale per i clandestini, diritti politici, corsie preferenziali nell'assegnazione degli alloggi popolari, obbligo per le imprese di assumere quote fisse e predeterminate di immigrati) che ha la valenza di radicalizzare le posizioni di quei cittadini italiani, mediamente meno abbienti, che già pagano un pesante tributo personale per questa situazione.

Nazione e società multirazziale

La «cultura» occidentale si è, nell'ultimo mezzo secolo, impegnata a fondo al fine di avvalorare e propagandare la tesi che il «razzismo», inteso come «esaltazione delle qualità superiori di una razza sull'altra», altro non è che la pulsione irrazionale di culture perdenti e residue, marginalizzate dalla «modernità progressiva». Fulcro di queste «culture perdenti» sarebbero i valori che sono alla base del concetto di «Nazione».
Queste asserzioni sono manifestamente false. Sono, infatti, facilmente dimostrabili e verificabili le origini del tutto illuministiche del concetto di «razza», modernamente concepito. Non solo perché il razzismo è un prodotto delle culture razionali di fine Settecento inizio Ottocento, ma in quanto esso è intimamente connesso a concetti evoluzionistici e fisici che hanno avuto in Lombroso e Darwin i massimi esponenti. Basta rileggersi tutte le teorie giustificazioniste del colonialismo ottocentesco (ma anche quelle dell'attuale neo-colonialismo) per ascrivere, senza margini di dubbio il «razzismo» alle categorie materialistiche e progressive del «razionale», in quanto ideologia incardinata su istanze economico-biologiche che non sono certo comprese nei valori fondanti del popolo-nazione (: a proposito è opportuno osservare che i fenomeni più radicali di razzismo si sono prodotti in paesi di lingua anglosassone; il Sudafrica e la Rhodesia ed avevano chiarissime connotazioni economiche).
Lo scopo ultimo delle agguerrite campagne «antirazziste» è quello di criminalizzare la Nazione e i suoi valori ed è condotta in modo da uniformare, sovrapponendole ed accomunandole, pulsioni tra loro contrapposte ed irriducibili: quella razzista e quella della «lotta per il riconoscimento» che tutta la tradizione culturale europea pone alle origini della nostra Civiltà.
Per Hegel, ad esempio, l'Uomo non è condizionato unicamente dalla ricerca di beni materiali godibili, ma anche dal desiderio di essere «riconosciuto dagli altri uomini», avendo coscienza che il proprio valore è legato al «valore che gli altri gli riconoscono». Affinché questo valore gli venga riconosciuto, egli è disposto a rischiare la vita (ethos del guerriero). Prima di Hegel, Platone, aveva parlato di «thimòs» e aveva diviso l'anima umana in tre parti: la prima parte materiale, concupiscibile, sede dell'istinto di sopravvivenza e dei desideri primordiali come la fame e la sete. La seconda parte razionale, ossia, quella che induce l'uomo, in determinate circostanze, ad agire contro il proprio istinto (ad esempio: non bere in caso di acqua inquinata e non mangiare nel caso di cibo avariato). La terza parte, che appunto definisce «thimòs» o «animo», nel senso di coraggio, è sede della «coscienza del proprio valore», del senso innato di onore, giustizia e dignità ed è fonte della personalità umana e dei sentimenti primari: orgoglio, rabbia, vergogna.
Ne consegue che ogni civiltà, intesa come elevazione spirituale dell'uomo e fondata sulla solidarietà comunitaria tra uomini, non sarebbe stata possibile senza il prevalere della parte thimotica dell'anima sulle altre. Nessun desiderio istintivo, nessuna razionalità mossa da esigenze primordiali può spiegare l'arte e la bellezza, che non hanno nessuna utilità materiale. Né la solidarietà e la giustizia, il piacere della cultura, le forme alte del vivere civile, del rispetto degli uni verso gli altri, possono essere spiegati con l'istinto di conservazione. Né costruire una cattedrale, dipingere un quadro, comporre una lirica può soddisfare alcun bisogno materiale.
Quindi il thimòs, sede psicologica delle virtù nobili: idealismo, moralità, altruismo, abnegazione, coraggio, onore e senso della giustizia, non può in alcun modo e in nessuna misura essere associato a forme di egoismo sociale e all'istinto prevaricatore e predatore proprio dell'homo oeconomicus, ossia razionale, che sono il fulcro di qualsiasi forma di razzismo. Al contrario, ogni forma di ribellione alle violenze xenofobe, spesso attuate in modo vile e proditorio, è suscitata dalla parte thimotica dell'anima.
La commistione, artatamente indotta dai fautori del cosmopolitismo, tra pulsioni timotiche ed istinti razziali si basa essenzialmente sulla natura «auto-affermativa» della «lotta per il riconoscimento» e segnatamente dal momento in cui questa «lotta» perde il suo carattere individuale per divenire «istanza di riconoscimento collettiva di un gruppo», ossia di un popolo che, per dirla con Nietzsche «parla una lingua del bene e del male; che il vicino non intende. Ed ha inventato per sé un linguaggio nei costumi e nei diritti».
Un Popolo che vuole essere riconosciuto dagli altri Popoli si proclama Nazione, lotta affinché questa condizione gli venga riconosciuta e pretende che la sua nazione abbia gli stessi diritti e la stessa dignità delle altre nazioni. La lotta per la libertà, la dignità e i diritti del proprio popolo è parte della memoria storica della nazione e suscita nella coscienza di ogni singolo individuo la consapevolezza etnico-culturale dell'appartenenza.
Ed è, per l'appunto, questo sentimento dell'appartenenza che è, consapevolezza di condividere con altri «una lingua del bene e del male; che il vicino non intende», il maggiore ostacolo sulla strada della globalizzazione dell'economia, dei costumi e dei diritti che è l'obiettivo conclamato delle oligarchie tecnologico-finanziarie. Per le quali, viceversa, una società multirazziale, universalmente intesa, è una improcastinabile esigenza economica, (non certo ispirata a valori di giustizia e uguaglianza, come si lascia intendere) che risponde alle necessità mercantili della modernità e che all'uomo riconosce un valore solo in quanto esso è consumatore e produttore di beni.

Uguaglianza ed economia

Il fine ultimo delle sopraddette oligarchie è costruire un immenso, unico, mercato universale, ove qualsiasi azione dell'uomo è determinata e misurata dal denaro, ed in cui gli istinti di sopravvivenza e di soddisfacimento dei bisogni materiali prevalgono su ogni altra considerazione e sentimento.
Il modello a cui questo progetto si ispira sono gli Stati Uniti d'America. L'immigrazione extra-comunitaria in Italia e in Europa è artificialmente prodotta proprio con lo scopo di uniformarle alla società multirazziale propria di questo «modello»: il cosiddetto melting pot, che poi altro non è che un crogiuolo di frustrazioni etniche, di odi compressi tra le diverse identità ed appartenenze sempre in violenta tensione tra di loro, che minaccia in continuazione di esplodere.
Nemmeno i più fieri ed acritici sostenitori della società multirazziale, possono negare il persistente malessere, dopo ben oltre un secolo di forzata convivenza, tra le variegate componenti etnico/culturali degli Stati Uniti. E se è vero che nel Paese guida e modello della democrazia liberista nessuno è formalmente discriminato per il colore della sua pelle, per la lingua che parla e la religione che pratica, la realtà è ben diversa. Le contrapposizioni razziali tra Afro-americani ed Ebrei, Ispanici ed Asiatici, Latini ed Anglosassoni sono senza soluzione di continuità e spesso degenerano in scontri sanguinosi. 
La questione razziale negli Stati Uniti, infatti, è essenzialmente economica, e le appartenenze etnico/culturali fungono unicamente da innesco alle ricorrenti esplosioni dei ghetti all'interno dei quali le condizioni di vita non sono dissimili da quelle delle periferie del Cairo o di Rio De Janeiro, quindi molto lontane dagli standards delle opulente città occidentali.
La sperequazione economica tra le diverse «razze» ha riflessi devastanti sul piano politico.
Essendo gli Stati Uniti un paese nel quale potere economico, culturale e politico sono strettamente connessi, ne consegue che i gruppi etnici più forti sul piano economico lo sono anche sul piano politico. Ciò, in concreto, significa che Mezzi di comunicazione di massa, Fondazioni, Centri Studi, Multinazionali, Università (in gran parte finanziate da privati), Istituzioni federali (esercito, polizia federale, servizi di sicurezza, burocrazia statale), Congresso, Governatori dei vari Stati e Casa Bianca formano un inestricabile reticolo di poteri in cui pubblico e privato si confondono e si integrano a vicenda. Seppure il cosiddetto «mondo occidentale» si vada sempre più uniformando, in nessun altro paese, come negli USA, i diritti e la dignità degli individui sono, nella sostanza, proporzionali alle loro disponibilità economiche.
Riprova di quanto si afferma, sono anche le seguenti considerazioni: nessun cittadino USA che non disponga di «risorse adeguate» governerà uno Stato, può sperare di essere eletto al Congresso o partecipare alla corsa per la Casa Bianca. Certo, formalmente, tutto questo gli è garantito, ma sostanzialmente le cose stanno in modo diverso, tantoché una parte considerevole di cittadini è esclusa dal voto in quanto non ha la possibilità economica di pagare le tasse necessarie per essere iscritta alle liste elettorali. Iscrizione che determina il godimento dei diritti politici, che è anche diritto all'uguaglianza, senza la quale tutte le enunciazioni di principio rimangono tristemente tali.
Siamo alla farsa, in quanto la logica della «democrazia», se per essa si intende «governo in cui la sovranità risiede nel popolo, che la esercita per mezzo delle persone e degli organi che elegge per rappresentarlo», non concede spazi per la discriminazione economica tra cittadini. E se questo avviene non possiamo in esso non individuare una forma feroce di esclusione di stampo razzista. «Razzismo», persino più odioso di quello ispirato da considerazioni fisiche e biologiche, in quanto impedisce ai discriminati non solo di esercitare un diritto formalmente garantito dalle leggi, ma anche di concorrere, con mezzi legali, a mutare la propria condizione di marginalità economica, eleggendo uomini politici più sensibili ai loro bisogni sociali.
La sperequazione elettorale, per quanto intollerabilmente odiosa, appare meno grave di altre, sul terreno dei diritti che sono alla base del vivere comunitario, com'è, per esempio, la giustizia che, negli Stati Uniti, è sempre più evidentemente condizionata da fattori economici e della quale la recente assoluzione di J. O. Simpson è un caso emblematico.
In questo caso, infatti, la solidarietà razziale, la notorietà e la disponibilità economica (oltre 11 miliardi il costo del collegio difensivo), hanno avuto un ruolo determinante sullo svolgimento e sull'esito finale del processo. Prescindendo da qualsiasi giudizio di merito, che non siamo in grado di dare, è evidente che l'assoluzione di Simpson è stata determinata non dalla serena valutazione delle prove, di innocenza o colpevolezza, prese in esame, ma da considerazioni ed esigenze del tutto estranee alle circostanze che il tribunale era chiamato a giudicare. La disponibilità economica, l'esigenza di evitare incidenti «razziali», la notorietà dell'imputato -un vero e proprio «mito» della comunità nera- e la composizione della giuria sono stati tutti elementi determinanti di un proscioglimento che non ha sciolto ma moltiplicato i dubbi. Ciò non sarebbe accaduto se alla sbarra vi fosse stato un nero del Bronx, un latino-americano o un bianco di provincia. Lo testimoniano le decine di processi indiziari conclusi con la condanna a morte degli imputati. E almeno in due casi, nell'ultimo anno, le eclatanti condanne a morte di persone poi risultate innocenti e per salvare le quali sarebbe bastato riaprire il processo. Queste storture, se ancora indignano la stampa o l'opinione pubblica europea, lasciano del tutto indifferente la maggioranza degli statunitensi. Quanti di loro non sono ricchi e famosi sono ridotti al rango di non persone, la cui sorte lascia del tutto indifferenti.
Questa forma di razzismo «economico», la più devastante (e che è anche la causa delle migrazioni di massa), è anche applicata nei rapporti internazionali. Essa si sostanzia soprattutto nello sfruttamento dei paesi del Terzo Mondo, utilizzando organizzazioni tipo il FMI (Fondo Monetario Internazionale), che permette alle nazioni occidentali di esercitare il pieno dominio su gran parte delle risorse di queste nazioni garantendosi il controllo dei prezzi delle materie prime necessarie alla propria produzione industriale. La politica dei prestiti, gravati da alti interessi, è quanto di più perverso la razionalità umana abbia potuto finora escogitare: i prestiti, infatti, non sono mai direttamente gestiti dai governi che contraggono il debito, ma dai pool di banche finanziatrici che, attraverso i loro «Centri Studi» concorrono ad individuare i settori e la qualità degli interventi, ovviamente riservandosi la progettazione e la ricerca di mercato per assegnare l'esecuzione di lavori. Inutile aggiungere che la realizzazione delle opere, in gran parte non vitali per l'economia e la qualità della vita dei paesi interessati, sono affidate, sempre, ad aziende controllate dalle stesse multinazionali proprietarie degli Istituti di Credito che erogano i prestiti. I costi di queste opere sono particolarmente onerosi e sopravanzano per lo meno del 100% gli standards occidentali per lavori dello stesso tipo, che però sono per qualità nettamente superiori (John Kleeves, "Vecchi trucchi", Il Cerchio, Rimini 1991). Per tutelare i propri investimenti il FMI costringe i paesi «beneficiati» a sottostare ad una serie di obblighi, quali, ad esempio, controllo della produzione agricola e mineraria, dell'import-esport, del bilancio statale e della programmazione economica, con quali risultati lo si può facilmente constatare.
I prestiti del FMI sono il mezzo attraverso il quale l'Occidente controlla e assoggetta alle sue esigenze le economie dei paesi poveri (ma spesso potenzialmente ricchissimi per disponibilità di materie prime o fertilità del territorio) determinando, attraverso anche la diffusa corruzione di classi dirigenti inadeguate ed asservite (sono leggendari i conti svizzeri di molti uomini politici africani), quella penuria di risorse che provoca gli attuali esodi di massa.
I popoli che rifiutano questa logica ed osano ribellarsi vengono diffamati e criminalizzati, accusati di tutte le nefandezze immaginabili, sottoposti a sanzioni con l'obiettivo di strozzarne le economie. Il neo-colonialismo è per molti versi più feroce e spietato del colonialismo tout court; quest'ultimo infatti era costretto ad utilizzare le cannoniere, ad imporre con la forza della propria superiorità militare il suo dominio, rendendo evidente lo stato di sudditanza dei popoli assoggettati. Il neo-colonialismo utilizza metodi più sofisticati, anche se non meno dolorosi per le popolazioni: impone la propria volontà attraverso lo sradicamento delle culture e dei costumi, minando il sentimento di appartenenza etnica. Le sue cannoniere sono le banche, i suoi mercenari sono i finanzieri che controllano i mercati, sottostimano il prezzo delle materie prime prodotte dai paesi debitori e sopravvalutano i prodotti industriali e tecnologici che questi importano.

Difendere le identità nazionali

Da quanto abbiamo sopra esposto appare evidente la correlazioni tra neo-colonialismo economico e qualità della vita nel Secondo e Terzo Mondo. Con ciò speriamo di avere contribuito a chiarire le cause a monte della biblica migrazione in atto: essa altro non è se non il tentativo di grandi masse di esseri umani di sottrarsi ad un destino di umiliazione e miseria da loro non voluto e di cui altri (compresi noi italiani ed europei che contribuiamo alla devastazione dei loro paesi) sono responsabili.
Con questo non intendiamo sposare la tesi della ineluttabilità della società multirazziale e non riteniamo che non ci si debba impegnare per «bloccare il masso che rotola dalla montagna». Vogliamo solo evidenziare che la strada peggiore -oltreché quella umanamente più ingiusta- sia quella di assecondare il rifiuto del diverso che sta ormai degenerando in vera e propria xenofobia. Sappiamo bene quanto sia improbo il compito di far capire a molti dei nostri connazionali quali sono le cause a monte di quanto sta avvenendo, quali sono gli scopi palesi e reconditi di chi utilizza e muove queste masse di disperati: l'obiettivo ultimo è quello di scardinare dall'interno quanto ancora, ed è molto, in Italia e in Europa, sopravvive delle identità etnico-nazionali.
Ma se ci si vuole realmente opporre al tentativo di sopprimere le Nazioni ed i Valori ad esse connessi (cancellando «le lingue del bene e del male: nei costumi e nei diritti», sulle quali i popoli hanno costruito le loro peculiari identità, per giungere ad una babele universalistica, in cui la componente istintiva e razionale della anima umana prende il sopravvento su quella spirituale, rendendo ogni individuo un docile strumento nelle mani delle oligarchie economiche) è necessario individuare con precisione il nemico da combattere pena l'ineluttabile sconfitta.
Il peso maggiore del processo di globalizzazione, è bene ribadirlo, non grava sulle spalle di noi ricchi ed obesi italiani, ma su quelle del laureato nigeriano che lava i vetri della nostra auto ai semafori e del contadino del Sahel costretto a dormire su un giaciglio di cartoni e stracci, paghi di godere degli scarti della nostra opulenza. Vogliamo dire, e ne siamo convinti, che la «loro» lotta e anche la «nostra» lotta, che i «loro» problemi sono anche i «nostri» problemi; che nessuno di «loro» ha lasciato i propri affetti e rinunciato alla propria «lingua del bene e del male» per vivere una marginalità senza sbocchi, senza esservi stato costretto.
Per quanto urgenti e necessari, non saranno né i provvedimenti legislativi, né il maggior controllo alle frontiere, né le espulsioni ad evitare l'affermarsi della società multirazziale; ciò può essere evitato solo se si blocca un modello di sviluppo che è nemico «nostro» nella stessa misura che è «loro» nemico.
Quanti si dicono rivoluzionari, lo devono tenere a mente. Gli scontri tra le diverse etnie negli Stati Uniti si sono risolti in una estenuante e improduttiva disputa tra poveri che ha permesso al vero nemico di trionfare e dominare su tutto e tutti.

Luigi Costa

 

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