da "AURORA" n° 29 (Ottobre 1995)

GIUSTIZIA E DINTORNI

Un'idea di giustizia

Amedeo Canale

In Italia si è soliti prestare attenzione ai problemi gravi ed annosi allorché qualcuno, il più delle volte per fini personali, ne strumentalizza l'esistenza accrescendone in maniera sproporzionata la portata. È il caso di quanto, a mio avviso sbagliando, viene definito «problema giustizia». Nell'ultimo anno, con l'ascesa al potere di una classe politica, absit inuira verbis, che, a detta di molti, più di una volta ebbe connivenze con gli «antichi» padroni della Penisola, i ragionamenti sulla giustizia si sono moltiplicati, gratuiti o saccenti, e sono stati la causa dell'inasprirsi dello scontro che mai, nemmeno con i personaggi più arroganti e palesemente avvezzi a comportamenti definibili tranquillamente delinquenziali, aveva raggiunto un grado tanto basso di squallore morale. Così si sono presentati sul proscenio diversi ed improvvisati tribuni che, tra persecuzioni divine e fantomatici complotti, sviliscono e volgarizzano un problema e le situazioni che gli gravano attorno e dalle quali dipendono centinaia di vite umane.
Non credo che quanto dirò possa essere oggetto di interpretazioni errate, tuttavia mi corre l'obbligo di fare una premessa, dalla quale è impossibile prescindere affinché quanto da me esposto non si perda, mischiandosi nel mare dei malintesi di chi, come molti sapranno, spara a zero su coloro che, quotidianamente, potrebbero colpirli scoprendo azioni «non lecite» a loro attribuibili. Quanto andrò esponendo è dettato solamente da un profondo e incondizionato rispetto che nutro per la vita di ogni essere umano e soprattutto per il rispetto dei diritti elementari che ogni individuo ha e che la comunità deve tutelare.
Io vivo a Reggio Calabria, città tristemente famosa per fatti che, generalmente, vengono definiti «di mafia». Le cronache dei giornali sono costellate da notizie che riportano quotidiani rastrellamenti, perquisizioni ed arresti in grande stile. Ogni cittadino onesto non può che essere soddisfatto nel vedere alla sbarra quanti, col proprio comportamento, calpestano la legge e la dignità delle persone. Ogni cittadino, infatti, lo è. Tuttavia nessun cittadino (o perlomeno pochissimi) si chiede cosa accade a partire dal momento dell'arresto a quanti sono finiti in bella mostra sulle colonne dei giornali e sugli schermi televisivi. Tantomeno si domanda in che condizioni vengano a trovarsi le famiglie di costoro, a volte conniventi a volte ignare, che debbono subire un'onta non per colpa loro. Chi viceversa è a contatto, per ragioni di lavoro, con ambienti giuridici e giudiziari o chi si appresta, come nel mio caso, ad entrarci, valuta tutto ciò con sentire diverso percependo il disagio che tali situazioni comportano. Situazioni di questo tipo, oggettivamente verificabili, comportano una analisi del problema composita ed impostata sull'accurata valutazione di tre aspetti principali.
Il primo aspetto è quello inerente colui che è stato arrestato o che comunque è stato oggetto di un mandato di cattura. Egli non può essere e non deve essere trattenuto in carcere oltre i tempi previsti dalla Legge e la custodia cautelare non può comunque trasformarsi, come giustamente recita la Legge, in carcerazione sine die. Nessun individuo che non sia stato riconosciuto colpevole per i reati ascrittigli può essere trattenuto in carcere, soprattutto se i suoi reati non ricadono in regimi particolari come quello previsto dall'art. 41 bis. Comunque va sottolineato che qualunque sia il reato, ogni cittadino ha diritto ad un rapido processo; la rapidità di giudizio implica notevoli differenze sia sotto il profilo fisico che sotto quello psicologico. Sin qui, si dirà, siamo nella normalità, ma spesso queste norme vengono disattese, provocando insanabili ingiustizie, sia su quanti risultino innocenti, sia su quanti risultino colpevoli che comunque hanno dei diritti garantiti dalle leggi, primo dei quali il rispetto della dignità. In questo senso è inaccettabile che migliaia di persone restino in carcere in attesa di interminabili processi, in regime di isolamento, con una custodia cautelare protratta all'infinito e scontando periodi di detenzione che, attenzione, forse dovranno scontare ma solo in seguito ad una condanna definitiva una volta provata, nei tre gradi di giudizio, la propria colpevolezza.
Il secondo aspetto, è quello dell'attività per così dire «discutibile» che i Pubblici Ministeri svolgono rispetto ai diversi generi di procedimento giudiziario. È inaccettabile che le indagini siano condotte a suon di minacce e intimidazioni nei confronti di quanti, seppur palesemente colpevoli, hanno diritto ad un processo penale che impone prima di tutto il rispetto per la dignità di ciascun componente della comunità, financo il più indegno. Ciò non è altresì pensabile senza prevedere insanabili guasti futuri verso il riconoscimento e la legittimazione popolare, complice le martellanti campagne di stampa, di una «casta» di intoccabili composta da coloro che dovrebbero essere paghi del loro ruolo di umili ed integerrimi servitori dello Stato. Il Pubblico Ministero, per sua peculiarità e competenza, non ha alcun diritto di intimidire chicchessia, né tantomeno di rafforzare la sua immagine con azioni eclatanti di vasta eco giornalistica. In Calabria, l'operazione «Olimpia», che ha portato qualche mese fa all'arresto di 500 persone tra cui alcuni nomi illustri, ne è una eloquente testimonianza. Il caso Di Pietro è solo uno degli esempi di magistrato inquirente che ha amplificato il prestigio del proprio incarico, e solo di riflesso quello della sua persona, dimenticando la sua stessa condizione di uomo (e per questo esposto come gli altri uomini all'errore), traendo da tutto ciò vantaggi indiscutibili anche sul piano personale; vantaggi oltremodo sfruttati. Rispetto a tutto questo non è il caso di sottovalutare la necessità, anche attraverso adeguate norme di Legge, di ripristinare comportamenti deontologici che obblighino ciascuno, specie coloro che svolgono ruoli particolari, al rispetto di un'adeguata discrezione.
Terzo ed ultimo aspetto da analizzare è quello che si riferisce alla figura del collaboratore di giustizia: il «pentito». A tutt'oggi, l'Italia non ha una legislazione adeguata che tuteli e, allo stesso tempo, regolamenti l'attività delatrice dei collaboratori di giustizia. Non intendo entrare nel terreno delle valutazioni di carattere morale e umano del fenomeno; intendo, viceversa, lanciare l'ennesimo disinteressato appello affinché costoro, elementi essenziali per combattere con successo ogni tipo di criminalità, non dirottino nelle carceri e nei banchi di tribunale metodi da guerre criminali che, soprattutto al Sud, tante vittime hanno mietuto e mietono. Intendo dire che se non si produrrà una legge capace di esercitare una forte pressione psicologica su chi collabora affinché quanto da lui detto possa essere facilmente verificato e, di conseguenza difficilmente smentito, la magistratura -sia inquirente che giudicante- non potrà oggettivamente compiere un lavoro che possa essere definito «il più vicino» alla realtà dei fatti. Non bisogna quindi dimenticare che nonostante i collaboratori di giustizia abbiano diritto (per la logica dello scambio, solamente!) alla protezione e ad una serie di altri diritti, essi restano comunque dei criminali e che, come tali, non possono e non devono assolutamente permettersi di giocare con lo Stato nemmeno quando, a detta di qualcuno non necessariamente delinquente, è lo stesso Stato a chiederlo. Come calabrese e soprattutto come studente di giurisprudenza, affermo che tutti i mezzi sono buoni, purché leciti, moralmente accettabili e contemplati dall'attuale legislazione, per sconfiggere la Mafia. Su tutti i fronti che essa ha aperto e su tutti i livelli nei quali si snoda e prospera.
Tuttavia, mi sembra importante ricordare che la Legge e chi la amministra si rivolge ad uomini che, in ogni caso, debbono essere trattati da tali; anche se ciò è apparentemente incomprensibile ai più. In democrazia non esistono tribunali speciali, né magistrati speciali, ma esclusivamente uomini che hanno trasformato dei principî innati e fortissimi in attività concrete grazie agli strumenti che altri uomini, componenti lo Stato nella sua più alta eccezione, hanno loro fornito. Non esistono quindi «unti» dalla divina provvidenza privilegiati nell'uso di mezzi coercitivi e non debbono perciò verificarsi episodi che sviliscono la dignità e l'integrità fisica di altri uomini, seppure malavitosi. Ogni cittadino, insomma deve capire che nessuno ha il diritto di uccidere, nemmeno con mezzi che si presentano come legali. E deve far proprio il concetto che l'essere magistrato, avvocato o poliziotto significa aver fatto una scelta che, se motivata fortemente, per i più è definita ed implica un rigore morale al di fuori del comune, un rigore che impedisce di trarre profitti personali, soprattutto in termini d'immagine, da attività che sempre e comunque sono normalissime!
Che sia dunque messo da parte il berciare di certi personaggi, deputati, magistrati o avvocati che mirano alla salvaguardia degli «amici» e di loro stessi quando coinvolti in affari «poco chiari». Ci si rammenti sempre che la Legge deve educare e, solamente in parte, punire. Che sino alla morte tutti si è uomini e che nessuno ha il diritto di strumentalizzare la sofferenza altrui. Soprattutto se vittima della leggerezza, quando non dell'arroganza, di coloro che ben altri ideali, quelli del rispetto della giustizia in questo caso, dovrebbero servire.

Amedeo Canale

 

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