da "AURORA" n° 30 (Novembre - Dicembre 1995)

APPROFONDIMENTO

 

Tigre italica

Francesco Moricca

 


 

«S'è poi tanto ingegnato,
ch'al corpo sano ha procurato scabbia.
Or dentro ad una gabbia
fiere selvagge e mansuete gregge
s'annidan sì che sempre il miglior geme:
et è questo del seme
per più dolor, del popol senza legge (...)»

 

Petrarca, "Canzone all'Italia"

 


 

L'Italia «paese a rischio». L'Italia minacciata di «retrocessione in serie B», con una espressione da gergo calcistico introdotta in politica da un Cavalier Berlusconi che fa scuola persino tra gli avversari più ostinati d'Oltralpe. L'Italia, secondo alcuni già di fatto in «serie B» e con la parte meridionale addirittura in «serie C», è oggetto di troppo interesse perché si possa ragionevolmente ritenere che tale interesse sia dettato da motivi di mera cronaca (ammesso sia poi vero che all'estero esista sul serio una stampa «libera», impegnata a fornire una «seria ed imparziale informazione»).

A prescindere dall'importanza geopolitica della Penisola confermata nel corso della ultima guerra balcanica, chi se la sente di escludere con assoluta certezza che questo interesse potrebbe avere altre e meno visibili ragioni? Per quanto male dell'Italia si dica e si sia sempre detto da parte degli stranieri e spesso non per semplice partito preso, non si disconosce fra di loro che gli italiani «contano» sulla scena internazionale per almeno due motivi; e che continueranno a «contare» nella misura in cui la loro tradizione storica non subirà soluzioni di continuità sia per cause interne, dipendenti dalle scelte in ultima analisi politiche degli Italiani stessi, sia per cause esterne dipendenti dall'influenza che fattori esogeni avranno su queste scelte.

Il primo motivo, direi quasi radicato nell'inconscio della cultura occidentale, è che agli Italiani si attribuisce, esagerandola anche non poco, la fama di «geniali ed astuti inventori». Il secondo, connesso al primo, epperò su un piano ormai consapevole (scaltramente consapevole), è che in Italia v'è da secoli la sede del Papato, d'uno Stato sui generis la cui potenza non si misura «in termini di Divisioni militari" ma non per questo è meno notevole di quella di uno Stato in possesso dei più sofisticati armamenti (e sarebbe da osservare che il cattolicesimo fu «invenzione italica» valida fino ad oggi nonostante i colpi infertigli dalla Riforma e dalla rivoluzione umanistico-rinascimentale, essa stessa «invenzione italica» e persino cattolica; inoltre che, non a caso, un Francesco De Sanctis chiamò «Risorgimento» ciò che sarà poi designato come «Rinascimento», intendendo per «Risorgimento» il periodo che va dall'anno Mille alla proclamazione del Regno d'Italia nel 1861: e ciò secondo una tradizione del «primato» degli Italiani che si trovava nel Vico, nel Cuoco, nel Gioberti e nello stesso Mazzini).

Anche il fascismo è «invenzione italica», e le tesi di Bobbio e Umberto Eco sul «fascismo perenne», suffragate dall'impietosa analisi di Giorgio Bocca sul carattere degli Italiani, ne sono di certo una paradossale conferma.

Ciò premesso, è possibile notare che la storia dell'umanità conosce solo tre popoli che rivendicano una speciale «elezione» e «missione»: in ordine di tempo, gli Ebrei, gli Italiani e i Tedeschi. Già nel secolo scorso presso il «proto-fascismo» italo/germanico si distinguevano nettamente le posizioni «cattoliche» di un Gioberti e di un Mazzini da quelle «protestanti» di un Fichte e di un Hegel. Il razzismo a sfondo biologico del nazionalsocialismo ha in Fichte la sua radice ottocentesca, e tramite Fichte, sorprendentemente, nell'«Aufklarüng» e in Kant, come si sostiene nel saggio sul "Mito ariano" dell'ebreo Léon Poliakov. (1)

Il Fascismo italiano non solo precede cronologicamente il germanico e tutti gli altri, ma non è fino alle soglie della guerra né genericamente razzista né antisemita. Benché faccia riferimento alla «tradizione italiana» e quasi «se la inventi», il suo riferimento principale è la tradizione universalistica dell'Impero Romano; è aperto al confronto con la modernità anche in misura «eccessiva» con le sue radici futuriste, mentre il nazionalsocialismo arcaizza il concetto di «tradizione» ed è sostanzialmente e pregiudizialmente anti-modernista. Julius Evola, è definito da Himmler «in fondo un cristiano» a dispetto di tutte le sue argomentate dichiarazioni contro il cristianesimo e a favore del «neo-paganesimo»; e l'errore del capo delle SS derivava dal fatto che egli identificasse nell'inconscio, da buon protestante, cristianesimo e cattolicesimo. Che poi Evola si dicesse con formula sibillina «né fascista né antifascista» non significa altro che questo: che per lui il vero fascismo (o «Super fascismo» come equivalente non mistificatorio del «fascismo perenne» e dell'«Ur fascismo») è sostanzialmente contrario a ogni dogmatismo e autoritarismo: è contro la sclerosi del fascismo in «regime», e dell'antifascismo, parimenti, in «regime». Si tratta di una posizione che, fatte le debite proporzioni fra i personaggi, tende ad incontrarsi con quella «eretica» di Berto Ricci e di altri.

Volendo invece proporre una definizione metastorica e in tal senso «impolitica» del nazionalsocialismo, lo si potrebbe qualificare come un sionismo rovesciato di guisa che le sue connotazioni darwinistiche ma sostanzialmente anti-moderniste vengano del tutto spogliate della strumentale rilevanza loro attribuita da avversari e critici, e valgano quindi, tali pretese connotazioni, quanto in realtà valgono presso gli imperialisti delle «democrazie occidentali» di ieri e di oggi: non speciosamente ma effettivamente, non «misticamente» ma «scientificamente».

In ragione di quello che così si rivela essere il limite insuperabile del nazionalsocialismo, secondo logica e non secondo interessate falsificazioni che tendono a demonizzarlo, attribuendo ad esso e al popolo germanico tutti i difetti e i mali della «Zivilisation», quando invece bisognerebbe forse accusarli di «ingenuità», di una luciferina ingenuità. Il nazionalsocialismo sembra oggi aver esaurito, con buona pace di quanti continuano ad agitarne lo spauracchio, ogni potenzialità, persino per gli interessi dei «poteri forti», i quali non sanno proprio che farsene del culto dell'Eroe secondo la mitologia arcaizzante del nazionalsocialismo.

In molti convengono invece sulla possibilità di una «resurrezione» del fascismo italiano; donde il problema Italia come possibilità che attorno al post-fascismo possano ricoagularsi le forze antagoniste esistenti nel Pianeta, disperse dopo il crollo tragicomico del comunismo.

Per cercare di chiarire quali potrebbero essere i termini di questo problema che è vissuto come una psicosi non solo per scopi propagandistici e non solo presso gli imbonitori della carta stampata, potrebbero essere utili le seguenti osservazioni.

Anzitutto, il Fascismo ebbe ben chiaro il reale peso economico e politico della Italia, in ragione ma anche indipendentemente dalla molto favorevole posizione geopolitica della madrepatria e dell'impero coloniale. Comprese benissimo la forza che le proveniva dalla tradizione romana e cattolico-romana, forza che tendeva a controbilanciare lo svantaggio italiano rispetto alle grandi potenze. Se avesse vinto la guerra, il fascismo, sotto un certo punto di vista, avrebbe anche potuto diventare qualcosa di simile al nazionalsocialismo (nella peggiore delle ipotesi e comunque sempre in contraddizione con esso, se non altro per ragioni di realismo politico). Ma non la vinse, e ciò nei tempi lunghi ha trasformato la sconfitta in una potenziale vittoria. Le promesse che il comunismo ha così miseramente deluso, che lo stesso cristianesimo (sempre più «cristiano» e sempre meno «cattolico», nello spirito del Vaticano Secondo, di recente richiamato dal Pontefice) non riesce più a soddisfare se non sul piano dell'etica individuale e di una generica «filosofia consolatoria» di ascendenza senecana e perciò curiosamente «neo-pagana», potrebbero essere mantenute dal fascismo che, come tutte le «religioni politiche» del XX secolo, ha la capacità di far presa sull'irrazionale che domina la vita dei singoli come delle «masse», e di servirsene per il conseguimento di determinati fini che qui non interessa appurare se siano «buoni» o «cattivi».

Come espressione, poi, di una nazione che non figurava né figura tra le maggiori nonostante le sue potenzialità; come erede della tradizione imperiale romana (integratrice delle peculiarità «nazionali» e non «omologatrice», oppressiva «politicamente» nei limiti dello stretto necessario e inassimilabile a quella pangermanica nella versione del nazionalsocialismo, falsificata dai vincitori ma comunque sedimentatasi nell'inconscio collettivo); come «ideologia non ideologica» e «movimento» risorto inopinatamente dalle ceneri della storia non a detta dei pochi suoi «fanatici» sostenitori ma dei suoi più acerrimi nemici, il cui Capo carismatico ha subito un «martirio» suscettibile di evocare nell'inconscio collettivo un «altro» martirio e un «altro» personaggio anch'Egli di «umili origini» secondo la «carne» (col che la tradizione romana pare saldarsi con quella bimillenaria del Cattolicesimo, non solo agli occhi dello storico, dello psicologo o, al limite, dell'antropologo e dello psicanalista, ma anche agli occhi dell'«uomo comune» solo se lo si induce a riflettere sulle sue «radici», magari coi mezzi sofisticatissimi della moderna «comunicazione di massa»): per tutte queste ragioni, il fascismo italiano (ma si potrebbe dire latino con formula più estensiva e politicamente più pregnante) potrebbe proprio apparire fra le ideologie-religioni del XX secolo l'unica ad essersi mantenuta in piedi, nonostante la sconfitta catastrofica, anzi proprio in virtù di essa. Questo si pensa anche presso molti cattolici: non solo presso molti cattolici che fanno capo ad Alleanza Nazionale o ad altri partiti dello schieramento di destra, ma ben più in alto, ove si legga in una certa ottica, per esempio lo scambio di idee tra Salvatore Natoli e sua Eminenza il Cardinale Martini sulla questione del rapporto tra cristianesimo o «post-cristianesimo» e «neo-paganesimo». (2)

Se a questo punto si mette nel conto quel che per gli stranieri è il mito del «genio italico» e dell'«astuzia cattolica» (in funzione del prestigio che la Chiesa gode tra i popoli del Terzo e Quarto Mondo, nonché in funzione della sua capacità di dialogo coll'islamismo più che con lo stesso ebraismo con le sue più o meno manifeste collusioni col sionismo), allora si ha un quadro abbastanza preciso dei motivi profondi che potrebbero stare dietro l'attenzione che all'estero suscita il «problema Italia». Il quale potrebbe definirsi, senza troppo esagerare, come il problema cruciale di ciò che sopravvive della cultura occidentale dopo il crollo del comunismo: perché il fascismo, in tutte le sue componenti, sembra il solo in grado di fronteggiare l'offensiva neo-liberista e imperialista statunitense, in specie se le sue frange di sinistra riescono a legare in un unico fronte tutte le forze antagoniste esistenti nel PDS, Rifondazione Comunista e altrove.

Questo si paventa all'estero come la «minacciosa possibilità» che si annida nella storia di questa strana nazione che è l'Italia, in un futuro non necessariamente troppo lontano. Con ironia, anzi con autoironia, si potrebbe dire che dietro la malcelata sufficienza o l'ostentato disprezzo che si ha per l'Italia si nasconde la paura della tigre italica, la cui «ferocia» è direttamente proporzionale all'«astuzia».

Lo diciamo con convinzione, pari alla coscienza dell'azzardo. Non lo diciamo agli uomini politici e di governo, i quali in massima parte non lo sanno e comunque non sono in grado di capire. Non lo diciamo per quei pochi che sanno e capiscono, ma non vogliono (Susanna alias Giovanni Agnelli), ovvero a quanti da rodomonti si son fatti amleti (Francesco Cossiga), ovvero, infine, non possono perché totalmente discreditati, «scaricati» dai loro vecchi «alleati-padroni» (Giulio Andreotti e Bettino Craxi).

Lo diciamo al popolo italiano, perché si liberi da tutti i complessi storici e dalle terribili frustrazioni che lo attanagliano oggi, nel momento sicuramente più critico della sua vicenda di popolo unito o per meglio dire unificato. Lo diciamo perché alzi nuovamente la testa contro gli «inglesi di casa nostra», come -scherzosamente ma non tanto- diceva Berto Ricci, che cadde sul campo combattendo contro quelli «di fuori», che non erano soltanto gli inglesi d'Inghilterra.

Delle manovre degli «inglesi non solo Inglesi» diedi, nell'estate dello scorso anno, una spiegazione che forse allora poteva apparire «fantasiosa» ma in ogni caso non complottista e schizofrenica come quella proposta da esponenti anche cattolici del governo Berlusconi allora in carica. (3)

Oggi la riprendo nella sostanza ampliandola con considerazioni extra-politiche, di natura anche «antropologica e psicoanalitica», per il diletto degli appassionati di queste discipline. Le mie ipotesi dell'anno scorso trovano oggi almeno una parziale ma non marginale conferma documentale nel libro di Giancarlo Galli: "Il padrone dei padroni", edito recentemente da Garzanti. Quanto riferisce l'Autore sui retroscena che condussero alla caduta del governo Berlusconi, su cui pesò non poco l'improntitudine e la precipitazione dilettantesca rivelatasi poi la costante dell'agire politico del cavaliere, potrebbe altresì costituire un valido supporto alle analisi che sto presentando. Il dato più interessante del libro di Galli è che vi si descrivono i maneggi intercorsi fra il Cavaliere, alla vigilia della sua discesa nell'agone politico, e i massimi referenti nostrani del «capitalismo ecumenico»: l'altezzoso Enrico Cuccia e l'assai più diplomatico Giovanni Agnelli. Il finale assenso concesso al Cavaliere dallo «gnomo» Cuccia venne dato da quest'ultimo nella convinzione che l'antifascista Bossi avrebbe poi, nella peggiore delle evenienze, «ridotto alla ragione» il «parvenu fascista peronista» Berlusconi. Il che puntualmente accadrà quando la peggiore delle evenienze (il «non placet» dei poteri «invisibili» che ebbe la sua prima ufficiale espressione nell'articolo ferragostano di "Le Monde") avrà luogo.

Se ancora esiste una logica dei fatti politici, bisogna dedurre che il «capitalismo ecumenico» e i suoi manutengoli «azionisti» corifei a parole dell'unità nazionale, se hanno concesso tanto credito ad un personaggio come Bossi non possono non avergli garantito ciò che a lui sta più a cuore: la secessione della cosiddetta «Repubblica del Nord»; tanto più che -a quanto riferisce Galli- lo «gnomo» sarebbe stato assai urtato dalla mancata riconferma di Giovanni Spadolini alla Presidenza del Senato.

Ce n'è abbastanza per trarre le debite conclusioni, sia per quanto riguarda il binomio Agnelli-Cuccia, sia per quanto riguarda il Cavalier Berlusconi; del quale tutto si può dire, ma non certo che non abbia, anche al di là delle sue intenzioni e addirittura «paradossalmente» difeso la nazione meglio della setta degli «azionisti piemontesi» e di quella «cultura» il cui campione fu senza dubbio il mazziniano monarchico, già fascista, Giovanni Spadolini.

È degno di note, infine, a ulteriore riprova di quanto vado qui sostenendo, che su "Famiglia Cristiana" del 4/10/'95 sia stato pubblicato un articolo in cui Giancarlo Galli spiega con grande libertà e franchezza il contenuto del suo ultimo libro. Dato l'orientamento «catto-comunista» del settimanale e dato il taglio filo-berlusconiano del libro di Galli, ci si potrebbe chiedere se per caso non si stia preparando una ricomposizione del vecchio centro, con un ritorno di Forza Italia alla matrice democristiana. Cosa avrebbe da dire su una simile ipotesi l'On. Veltroni? Si è chiesto quale sia stato il vero scopo del viaggio dell'On. Fini negli Stati uniti? E quale potrebbe essere il significato dell'incidente occorso ad Agnelli-Cuccia nell'affare Super Gemina? Se per avventura non debba toccare ora al PDS e a Rifondazione ciò che toccò al MSI durante la Prima Repubblica?

Queste domande mi pare se le sia poste il sen. Giovanni Agnelli; almeno dall'anno scorso, quando molto accortamente seppe mettere freno alla spocchia dello «gnomo» nei confronti della candidatura di Berlusconi a Capo del Governo. Sono note le ricerche e le proposte della Fondazione Agnelli (anche in materia, guarda caso, di federalismo). Vogliamo trattare dell'ultima di queste iniziative, perché in tal modo il quadro che si è delineato del «problema Italia» dovrebbe risultare completo e chiaro.

Essa riguarda le questioni messe in luce, con acutezza pari al pessimismo delle previsioni concernenti la reale possibilità di una loro risoluzione, da Sir. Ralph Dahrendorf, sociologo inglese di orientamento liberale, la cui personalità ricorda in qualche modo quella di Max Weber per l'impietosità notomistica delle analisi, nonché per il rigore con cui non vengono taciute e minimizzate le aporie del liberalismo, aporie riconducibili a quella che per me è la presunta contraddizione-«alterità» di «capitalismo ecumenico» e «anarco capitalismo». Per il Dahrendorf, la novità dell'epoca presente consiste nell'affermarsi, sempre più deciso, della «competizione globale», versione ultramoderna del primordiale «bellum omnium contra omnes» di hobesiana memoria. Il concetto di «competizione globale» non ha quindi una valenza meramente «sociologica» ed «economica», ma è piuttosto un paradigma economico-politico: alla «guerra imperialistica» fra Stati, caratteristica della «rivoluzione industriale», si sostituisce, con la «rivoluzione post-industriale» contemporanea, una «guerra economica» di tutti contro tutti, in cui gli Stati come tali sembrano destinati a perdere qualsiasi funzione superiore regolatrice, ovvero a diventare pure variabili dipendenti della «competizione globale». Dahrendorf osserva che questa «tendenza» ha avuto modo di svilupparsi nei Paesi dell'Estremo Oriente assai più facilmente che non in Occidente, dove il riconoscimento delle «libertà individuali» ha sempre funzionato, quando più, quando meno, da correttivo della pura legge dell'accumulazione capitalistica, e cioè, in ultima istanza, della cosiddetta «dittatura finanziaria». A prescindere dall'incidenza «economica» della «competizione globale», il problema che si pone per tutti i paesi dell'area europea (compresi gli Stati Uniti e la Russia) è di difendersi dall'offensiva di quelli dell'Estremo Oriente, non solo e non tanto, ormai, del Giappone, ma soprattutto di Formosa, della Corea del sud e in particolare della Cina. Questo è un problema che esula dal campo economico e diventa squisitamente politico: non solo e non tanto un problema di politica estera, quanto, essenzialmente, piuttosto di politica interna. Il costo della manodopera, nei paesi dell'area europea, deve scendere almeno allo stesso livello proprio ai Paesi estremo-orientali, se si vuole restare competitivi sui mercati mondiali. Occorre pertanto o ridimensionare alquanto o smantellare del tutto lo Stato sociale, e con esso la possibilità di quel relativo benessere generalizzato che è necessario per conservare la solidarietà e la «coesione sociale»; le quali, ove la «qualità della vita» discenda sotto certi limiti, si trasformano nel proprio opposto trasferendo nei rapporti umani le spietate leggi che governano l'economia. Col che si annulla la stessa possibilità di una «rivoluzione» tesa a ripristinare le «libertà naturali» conculcate, prima fra tutte la «libertà dal bisogno». Dahrendorf è sicuramente per la difesa dello Stato sociale, sebbene nell'ottica del liberalismo, di un «liberalismo» per così dire «temperato», all'inglese. Ma non si nasconde affatto, né ci nasconde, le ragioni che militano contro il «capitalismo ecumenico», a favore dell'anarco capitalismo. Non propone ricette risolutive, ma invece un'alternativa, l'unica vera, dal suo punto di vista e in un certo senso oggettivamente: sviluppo economico nella libertà politica, ma senza solidarietà e senza coesione sociale (secondo la prospettiva «anarco capitalista»); oppure sviluppo economico, solidarietà e «coesione sociale», ma senza libertà politica. Questa seconda possibilità sembra assumere per Dahrendorf i connotati di un «nuovo fascismo», un fascismo in cui il «capitalismo renano» verrebbe misticamente supportato da ciò che qui si è definito come «fascismo latino» e, con ironia, come «tigre italica»: alcunché di inammissibile per chi, sia pure con grande consapevolezza critica e per una scelta che non ho riluttanza a riconoscere perfino etica, si schiera apertamente col «capitalismo ecumenico», nonostante intraveda i rischi che esso comporta nel senso della «massificazione delle coscienze» (ha già dimostrato di comportare), per un'idea «alta» della libertà che è propria del migliore liberalesimo, ma non è affatto scontato che tale sia pure per i veri cattolici, per i veri comunisti, per coloro, infine, che la libertà concepiscono non come dato acquisito «per natura», come «diritto», ma invece come conquista, «anagogicamente»; e cioè nell'ottica «oltre-umana» del Super fascismo.

L'ultima iniziativa della Fondazione Agnelli si prefigge di elaborare delle strategie risolutive partendo dalle analisi di Dahrendorf. Nasce così il programma di ricerca «prospettive geo-economiche» che impegnerà la fondazione negli anni venturi.

La prima considerazione da farsi concerne il termine «geo-economia», che, sulla scorta della dohrendorfiana teoria sulla «estinzione dello Stato», viene a sostituire il concetto di «geopolitica». Una indebita espropriazione, questa, che pone opportunamente in risalto la «sussunzione» della politica all'economia; ma anche l'aporia di uno Stato che, non essendoci come vera e propria organizzazione politica dotata di qualche residua forma di «personalità», donde derivi la propria autorità all'interno della nazione e fuori, dovrebbe tuttavia, a detta del Direttore della Fondazione Marcello Pacini: «governare questi nuovi processi, non subirli». Come fare? Ecco la ricetta federalista: «mediante opportune politiche geo-economiche che vedano la collaborazione fra governi statali (sic!), regionali e locali, e gli operatori economici». Si ha dunque una molto verosimile spiegazione dell'atteggiamento possibilista di Giovanni Agnelli nei confronti di Berlusconi in quanto «operatore economico» che potrebbe garantire l'effettiva «governabilità» da parte dello Stato con l'aiuto del «tele-fascismo» e del partito di Gianfranco Fini, governabilità che sarebbe invece assai problematica in un sistema di «capitalismo ecumenico» o di «anarco capitalismo» puri. La partecipazione ambigua della Lega al cartello di destra, e poi sempre meno ambigua al governo Berlusconi, troverebbe in questo contesto la sua logica spiegazione: in un piano politico in cui le due opposte posizioni di Agnelli e Cuccia avrebbero consentito di controllare la situazione qualunque fosse stato l'esito delle elezioni del '94 (il che vale anche adesso, nonostante l'«incidente» Super Gemina, nell'eventualità di probabili elezioni politiche nell'immediato futuro). Abbiamo modo così di osservare da un altro punto di vista quella che si è presentata come la feroce e astuta tigre italica.

La seconda considerazione da farsi su quanto, del lavoro intrapreso dalla Fondazione, è stato reso pubblico, concerne la funzione «geo-economica» del federalismo, che ridisegnerà radicalmente la carta politica dell'Europa, e non solo di essa) non tenendo più alcun conto delle nazioni. È proprio il caso di sottolinearlo: nemmeno della nazione Europea, secondo una visione che ora è quanto mai gradita agli Stati Uniti, ma potrebbe non esserlo domani, per quella strategia aperta che il binomio Agnelli-Cuccia sta già sperimentando sul fronte della politica interna. Pacini afferma infatti che «si ragionerà sempre più per regioni, intese come grandi aree costituite da aggregati di paesi»; e avverte quale potrebbe essere nel sociale la ripercussione della «psicologia dell'incertezza» dopo l'improrogabile, a suo dire, messa in liquidazione del «Welfare State» come di qualsiasi «rigido protezionismo»; l'accettazione rassegnata del progressivo venir meno dello «Stato di diritto» e della «democrazia». Dopo di che, il Direttore della Fondazione si dichiara comunque convinto che il «rapporto tra democrazia ed efficienza dell'economia è uno dei temi culturali e politici che i Paesi occidentali debbono assolutamente affrontare». Come antidoto agli effetti devastanti della «psicologia dell'incertezza», non sa però offrire che una banale quanto discutibilissima «morale economica» di sapore vagamente kantiano (ma che di Kant è piuttosto la parodia): un'«etica della responsabilità dei cittadini» i quali, consapevoli della «legge del profitto», della sua necessità epocale, non dovrebbero che accettarla a costo di qualsiasi sacrificio. Il che è vero, ma fino a quando la «psicologia dell'incertezza» non degeneri in «patologia», e fino a quando i sacrifici imposti dalla «legge del profitto» non divengano insopportabili. (4)

A ben guardare, questa mia osservazione ha un sapore tutt'altro che consolante. Invito a riflettere su essa quanti convengono nel ritenere che la «missione storica» della sinistra (specie di quella «rivoluzionaria» che dovrebbe «alleviare le doglie del parto» di un mondo migliore, fosse esso anche diverso in parte o in tutto da quello preconizzato dal marxismo-leninismo ma, comunque più giusto non solo nel senso della giustizia distributiva) deve ormai consistere, quanto meno, nel tentativo di non affidare meccanicisticamente il futuro alla presunta «razionalità della storia», perché ciò significherebbe, per quel che appena si è detto, lasciare che la «psicologia dell'incertezza» si trasformi in patologia, in una patologia che non sconvolgerà solo la «mente» dell'umanità ma la totalità dell'esistente. Significherebbe anzi augurarsi che ciò accada, nella fideistica convinzione che accadrà in ogni caso «per il meglio», riducendosi la «missione della sinistra» ad un puro e semplice esercizio di tatticismo mirante a conservare le posizioni di potere acquisite. Il che è incontrovertibilmente peggiore di quel che a suo tempo «Qualcuno» stigmatizzò come «socialismo della domenica»: perché non di «socialismo» potrebbe adesso parlarsi ma di un ambiguo e laido sinistrismo liberal-radicale solo a parole preoccupato dei ceti meno abbienti e in fase di accelerata, sottoproletarizzazione; mentre potrebbe parlarsi di fenomeno «domenicale» nel senso che è ormai «domenica» tutti i giorni della settimana, per i disoccupati e per coloro che della disoccupazione profittano e ne hanno fatto il cavallo di battaglia nella gestione economica e politica del mondo.

La sinistra che conta, quella che non ha rinnegato le proprie radici se non obtorto collo, dovrebbe a questo punto rimeditare l'insegnamento di Lenin, non respingerlo cedendo alle lacrimevoli geremiadi del «pensiero debole» (lacrimevoli anche nel senso in cui possono esserlo le «lacrime del coccodrillo»), ma riprenderlo ed aggiornarlo secondo lo spirito di Lenin. La qual cosa non significa recuperare ciò che è morto, incorrendo nell'«estremismo, malattia infantile del comunismo», e nemmeno arrischiarsi sulla via di un pericoloso e alla fine inconcludente «avventurismo». Significa invece saper conferire ai necessari tatticismi della politica, quando l'«azione rivoluzionaria» è improponibile, una potenzialità di «sviluppo rivoluzionario», sfruttando i mezzi stessi del «parlamentarismo», della «legalità borghese» e persino di ciò che Lenin, sprezzantemente, chiama «economismo». Come ha cercato di fare in più occasioni Rifondazione Comunista, e come sembrava intenzionato a fare associandosi alla destra nel voto di sfiducia al governo Dini (e va qui ricordato che una volta Cossutta ebbe a definire il Presidente del Governo «tecnico», e molto acutamente, «potenziale Salazar»). Purtroppo, in Rifondazione hanno alla fine prevalso altre considerazioni, ed io voglio credere soprattutto motivi di coscienza che però poco hanno a che fare con la politica. Non con la politica intesa alla maniera di Machiavelli, e nemmeno con la «politica impolitica» non solo da me sostenuta sulle pagine di "Aurora", organo politico di quella Sinistra Nazionale che, non a caso, si rifiuta di presentare propri candidati alle elezioni, fino a quando non avrà elaborato una strategia ben definita da perseguire senza cedimenti e «tatticismi» di nessuna specie. Per noi questo modo di concepire la politica è una necessità epocale. E quando qui si parla di «necessità epocale», s'intende alcunché di posto non da una realtà esterna all'uomo (la «storia» e «altro»), ma dall'interiorità dell'uomo, dalla volontà che è suprema legislatrice in sede di eticità, e dovrebbe esserlo in sede di scelte politiche. Se Rifondazione avesse, contraddicendosi in extremis, deciso di votare a favore del governo Dini, io credo che solo apparentemente avrebbe commesso un «errore politico». In verità avrebbe testimoniato un senso di appartenenza ed una fedeltà alle «radici» magari mal riposti, ma comunque di apprezzabile significato morale e quindi politico, proprio nel senso di una rifondazione dalla politica non solo comunista. La scelta finale di non partecipare alla votazione, al contrario, ricorda il gesto di colui che «si lava le mani» e agì non agendo, epperò rovesciando e mutando il significato della concezione dell'azione senza azione. Non pretendo certo che gli amici di Rifondazione facciano proprio il nostro modo di vedere. Ma non possono non convenire che la loro infausta decisione ha un valore assai poco «rivoluzionario». Chi crede nel popolo non può prestare aiuto a coloro che vogliono rinviare le elezioni sine die, per timore che il popolo possa delegittimarli. Questa disistima per il popolo non è ammissibile in chi si presenta come l'erede del «vero» comunismo. E non vorremmo che fosse proprio, questa la prova ennesima a favore di quanti, come Berlusconi e Fini, presentano il comunismo come il «peggio del peggio». Non lo vorremmo, perché noi della Sinistra Nazionale abbiamo dimostrato coi fatti di non essere anticomunisti viscerali.

Domando agli amici di Rifondazione, provocatoriamente, in cosa consista il volontarismo che fu di Lenin quanto del nostro Gramsci, secondo loro. La mia risposta è questa (e mi esprimo non a caso in un linguaggio «medioevale»): il volontarismo non è altro che un'«ordalia», un «giudizio di Dio». Quell'ordalia che avrebbe impedito, determinando l'improrogabilità della consultazione elettorale dopo lo sfiducia al governo Dini, che la legge finanziaria passasse sulle spalle del popolo italiano, in supino ossequio al Trattato di Maastricht. Si rendono conto gli amici di Rifondazione cosa significhi che adesso, dopo la loro improvvida decisione a favore di «Salazar Dini», sarà la destra a battersi contro la finanziaria, o per meglio dire a dar a vedere di farlo?

Ma può anche darsi che altri siano stati i motivi che hanno indotto il Partito di Bertinotti ad assumere un atteggiamento così incoerente: per esempio motivi di politica estera che si possono facilmente individuare nel quadro dell'analisi qui proposta. Ma anche qui l'insegnamento di Lenin andrebbe ripreso in esame, riguardo al principio dell'«autodeterminazione dei popoli» ed al significato della «nazione», secondo una linea di continuità, piuttosto che di discontinuità, fra «leninismo» e «stalinismo» in ordine alla questione del «nazionalbolscevismo».

Rifondazione Comunista dovrebbe acquisire, in tal modo, maggiore coscienza dei termini in cui la collaborazione con la Sinistra Nazionale potrebbe risultare proficua, anche al fine della salvaguardia della sua identità e autonomia politica nei confronti di un PDS sempre più orientato verso la palude del centro e verso un internazionalismo sempre meno «proletario» e sempre più «mondialista».

 

Francesco Moricca

 

Note

(1) cfr. Ed. Rizzoli, Milano 1976, pp. 165-166 dedicate all'«Antropologia dei Lumi», in cui si esamina l'«antropologia pragmatica» di Kant.

(2) cfr. S. Natoli, "Neo-pagani, ovvero post-cristiani", "Avvenire" 21/9/'95, L'articolo trae spunto dalla pastorale "Ripartiamo da Dio" del cardinale Carlo Maria Martini.

(3) cfr. "Nell'occhio del ciclone", "Aurora", n° 19 - Agosto '94.

(4) La Fondazione ha recentemente pubblicato quattro studi sulla funzione «geo-economica» di Cina, Vietnam, Corea del sud e India ed ha annunziato che ne ha in preparazione altri tredici sui restanti quattro continenti, allo scopo di delineare la «futura collocazione dell'Italia e dell'Europa nei nuovi equilibri mondiali».

(5) La interpretazione volontaristica della filosofia leniniana (dal "Che fare" del 1901 in cui si discute dell'«economismo», alla relazione sulla "Nuova Politica economica" (NEP) approvata dal partito Comunista russo nel marzo del 1921) è supportata dal giudizio espresso da Ludovico Geymonat in "Storia del pensiero filosofico e scientifico", Vol. VI, Garzanti, p. 101. Mi rendo conto che l'argomento dell'attualità di Lenin si presta a ben altri sviluppi. Qualora gli amici di Rifondazione Comunista lo richiedessero, potrebbero essere in tal senso soddisfatti in uno dei prossimi numeri di "Aurora".

 

 

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