da "AURORA" n° 30 (Novembre - Dicembre 1995)

COMBATTENTI

 

Federazione Nazionale Combattenti Repubblica Sociale Italiana

Foglio di orientamento n° 2/1995

 

Fascismo e antifascismo

Fra le innumerevoli definizioni del fascismo formulate dagli antifascisti la più singolare e forse la meno lontana dalla verità è quella di «controrivoluzione imperfetta». Il 28 ottobre '22, infatti, ebbe luogo una rivoluzione possibile; l'intrinseca debolezza del movimento fascista non permise di più e di meglio al rivoluzionario Mussolini. Non vi erano che due alternative: prendere o lasciare.

Soverchiamente composito, il fascismo andava al potere -quasi caso unico nella storia- a distanza di soli tre anni dalla sua costituzione in movimento, senza aver avuto il tempo necessario per formare una propria classe dirigente. Questo fatto peserà negativamente sulla sua esaltante seppur travagliata esistenza. Ad esso fu affidato il governo mediante atti costituzionalmente ineccepibili e, per circa tre anni, dal 28 ottobre '22 al 31 gennaio '25, governò con una coalizione democratica nella quale erano presenti popolari e liberali.

A taluni non sembrò una rivoluzione, ma nonostante le rinuncie al programma originario, non mancò al fascismo una notevole efficacia rivoluzionaria nel far saltare le precedenti strutture ed il vecchio notabilato e, soprattutto, nel perseguire il fine dell'evoluzione delle coscienze nella direzione di una concezione dell'uomo, del mondo e della storia non immiserita nelle stantie polemiche post-risorgimentali.

Non solo rovesciamento di regime dunque, bensì scontro decisivo tra due antitetici sistemi di valori, l'esito positivo del quale permise il primo ingresso del popolo nello Stato dopo il Risorgimento; del popolo migliore, quello delle trincee, delle officine, delle campagne e delle professioni. Successivamente, l'inadeguatezza e l'eterogeneità delle strutture umane nel cui ambito per altro s'insinuò il deleterio dualismo «partito-movimento», produssero le distorsioni che portarono alla crisi (per noi salutare) del 25 luglio '43. Solo nella RSI, il fascismo «movimento» (relegato di fatto, per un ventennio, in un angolo) potè dare prova di prodigioso vigore e di profondo amor patrio. Ma, dove sono ora quegli uomini, quella lucidità di pensiero e di azione, quella legionaria vocazione alla solidarietà sociale, quella ricchezza di fermenti rivoluzionari?

I migliori sono caduti. La maggioranza degli scampati ha scelto, più o meno consapevolmente, la strada della subordinazione al nemico di sempre attraverso mezzo secolo di politica missina. Tuttavia, non sarebbe corretto sostenere che anche in quell'ambiente non abbiano operato, in posizione subalterna, uomini in buona fede, convinti di lottare per la causa; ma v'è stata anche un'organizzazione di ex-combattenti della RSI funzionale alla politica di destra che continuò a svolgere una funzione di supporto elettoralistico persino quando quel partito venne retto dalla co-presidenza dei due monarchici Lauro e Covelli. Ancora oggi, il presidente di questa associazione, siede tra i partigiani dell'ONMIG col pretesto di una anacronistica riconciliazione non richiesta e non gradita. Per noi, che non veniamo da «cinquant'anni di nostalgia» o di «greppia», né siamo legati «ad un passato che non passa», vano sarebbe ripercorrere le tappe della degenerazione missista. Altro che nostalgia: noi veniamo da mezzo secolo di denigrazioni, di persecuzioni e di soprusi.

Il passato non è mai passato del tutto e il presente mostra un quadro politico generale quanto mai inquietante, all'interno del quale le note riguardanti i raggruppamenti di ispirazione fascista non potrebbero essere più fosche. Ma questo non ci farà deflettere dalla determinazione di portare il fascismo, con la sua purezza originaria, nel Terzo Millennio. A fronte di ciò non importa se pochi siano ancora quelli che pur rigettando ed avversando il Sistema senza tuttavia poter non viverci dentro, da esso non si fanno integrare ed oppongono un radicale rifiuto all'interiorizzazione dei pseudo-valori che esso impone.

In buona sostanza, pressoché tutti abbiamo militato per qualche tempo nel MSI, ma coloro che, per cinquant'anni si sono sentiti appagati di essere missisti, quale che sia il loro passato, non hanno più titoli per chiamarsi fascisti oggi. Perché hanno smarrito il modo specifico del vivere «more legionario», vale a dire che in loro si è sfaldato quell'atteggiamento che consiste in un permanente sistema di valutazioni, di emozioni, di sentimenti e di tendenze, tale da produrre il modo di essere e di sentire sostanzialmente fascista e null'altro.

Il nostro «non essere reduci» consiste appunto nel fatto che fummo ieri combattenti della RSI, essendo ancor oggi assertori coerenti delle nostre idee.

Coloro i quali persistono nell'errore altro non fanno che aggiungere male al male, in quanto il destino del fascismo è fuori dal parlamento, in mezzo al popolo onesto che lavora e che mal sopporta un regime di corrotti e corruttori.

 

La RSI e la Socializzazione

Recentemente un anziano e saggio camerata ha posto un interrogativo stimolante e fondamentale: «l'antifascismo del dopoguerra è detestabile, ma chi rinuncerebbe alla libertà di espressione?»; un altro, che non conosciamo ma riteniamo essere più giovane e forse più esacerbato, ha sostenuto che «il popolo italiota è per formazione antropologica e culturale di origine badogliana».

Questi giudizi ci riguardano come uomini liberi e come combattenti. Necessitano però di qualche puntualizzazione, prima fra tutte quella concernente la nozione «italiota» la quale, non potendosi ricavare dalla denominazione che fu data alle popolazioni greche stabilitesi nel nostro Meridione intorno al V secolo a.C., non può che assumere il significato attuale di «persona priva di senso morale, disposta a qualsiasi slealtà e doppiezza», qualità queste sciaguratamente presenti in ogni parte del mondo.

Precisiamo altresì:

a) Che la RSI tentò di realizzare e in parte realizzò uno Stato di Popolo nel quale l'attribuzione di superiori finalità allo Stato e alla Nazione non inficiava, ma esultava l'autonoma espressione del pensiero dei suoi cittadini. La libertà va vissuta romanamente, come facoltà di coloro i quali sanno conquistarla, vale a dire che essa consiste, innanzitutto, nella vittoria dell'uomo su se stesso. E poiché l'uomo è veramente libero solo se conosce il fine per cui agisce, un fascista sarà sempre, prima di ogni altra cosa, un uomo libero, disposto a promuovere e ad amare la libertà degli altri. Donde la «libertà dall'antifascismo» può assurgere a principio universale di affrancamento dell'uomo da tutto ciò che è negativo. Oggi, invece, la libertà e l'uguaglianza dei cittadini è degradata a mera finzione e i lavoratori, frastornati da sindacati pavidi, queruli e funzionali al Sistema, sono trattati alla stregua di merce di scambio venduta al capitalismo un tanto all'ora, al giorno o al mese, nel cosiddetto «mercato del lavoro». Da tempo, la riflessione sul rapporto tra rivoluzione e conservazione e sulla tensione tra libertà e autorità ha dimostrato che ogni progetto personale è indissociabile da quello storico della comunità e che l'accettazione di uno solo degli aspetti -anche marginale- della situazione circostante è sufficiente a compromettere la attuazione di reali cambiamenti.

b) Che l'armonica concordanza dei due momenti, personale e sociale, è essenziale al fine di non perdere le coordinate vitali della rivoluzione, la quale non può non inglobare un disegno universale di ordine, di libertà e di superiore dignità per tutti. Ciò rivela l'inconsistenza etica e l'incoerenza politica di quelli che proponevano la lotta al sistema e la simultanea difesa e valorizzazione delle FF. AA., della Magistratura e di altri supporti del Sistema medesimo. Gli ambienti di destra vanno ora proponendo una versione della socializzazione che, a somiglianza di una qualsiasi partecipazione azionaria, consentirebbe ampi spazi di investimento alle rendite parassitarie. Permeati di spirito borghese e mercantile e irretiti dal mito del profitto e del Mercato, costoro non sono in grado di concepire che la socializzazione ha le radici confisse in una Dottrina che afferma: «Il fascismo crede ancora e sempre nella santità e nell'eroismo, cioè in atti nei quali nessun motivo economico -lontano o vicino- agisce», e invano tentano di perpetuare l'ultimo inganno. La verità è che la socializzazione nacque dal popolo per il popolo, mentre il capitalismo era in montagna con i partigiani del nemico plutocratico e bolscevico. L'obiettivo della socializzazione non potrà mai essere il profitto senza lavoro, perché esso rappresenta l'esigenza incoercibile di libertà e dignità del lavoro e di ogni altra attività umana in un ambito sociale e politico in cui la libertà è sinonimo di responsabilità. La socializzazione va quindi difesa come fatto autenticamente fascista che, come tale, non postula utopistiche uguaglianze generalizzate, né assistenza, né beneficenza, né meri profitti di mercato, ma che virilmente esige Giustizia e Dignità, mediante le quali ciascuno, lecitamente operando per il bene comune, possa ricevere quanto avrà saputo meritare. La socializzazione, quindi non è estrapolabile dal trinomio in cui è organicamente e sinergicamente incardinata, poiché fuori da quel preciso contesto di Nazione e di Stato, essa fatalmente si degrada in qualunquistiche escogitazioni prive di qualsivoglia efficacia rivoluzionaria, le quali non vanno oltre la ripartizione degli utili d'impresa tanto cari all'«homunculus oeconomicus». In altri termini, la socializzazione è per organiche ed omogenee comunità produttive, ove per produzione si intendano tutti gli aspetti -creativi e non- dell'agire umano.

c) Che l'antifascismo, ancorchè consapevole che lo Stato pontificio, fosse il più corrotto e il più disorganizzato fra gli Stati pre-risorgimentali, fallì inesorabilmente nella strategia politica di modernizzazione della società, allorquando consegnò l'Italia in mano agli esponenti di un clericalismo bigotto e ipocrita.

d) Che la molteplicità delle questioni che caratterizza il nostro tempo esige in noi interrogativi dirompenti che mirino all'essenza reale dei fatti: in realtà, la classe politica antifascista ha governato (o si è fatta governare)? Quale decisione (ad eccezione della generosa iniziativa di Enrico Mattei), è stata da essa assunta negli ultimi cinquant'anni di contro alle direttive antinazionali provenienti dall'alleanza USA-URSS-Vaticano? L'Italia, per mezzo secolo non è esistita e la ragione ce la fornisce con qualche secolo di anticipo V. Cuoco: «Infelici coloro i quali sono costretti ad ubbidire a uomini che hanno l'animo di schiavi». Ma attenzione ai servi degli schiavi, perché non desistono dalla loro infame servitù. Qualche mese addietro un ex-Capo dello Stato, massone per convinzione e democristiano di professione, in un'intervista rilasciata ad una rivista di geopolitica ha sostenuto che in Italia, negli ultimi cinquant'anni: «c'erano quattro tipi di lealtà, due da una parte e due dall'altra della frontiera interna: noi democristiani eravamo fedeli all'Italia (sic!) e alla Alleanza atlantica, ma anche, in gran parte alla Chiesa; loro, i comunisti erano divisi fra fedeltà nazionale e il legame critico (sic!) con il capo sovietico». Ora, a prescindere dalla bestialità geopolitica di una Italia pensosa di questioni atlantiche mentre due potentissime flotte straniere spadroneggiavano nel Mediterraneo e di una Chiesa (che fu di Francesco, di Huss e di don Calcagno) immersa nel pantano di quanto mai balorde alleanze, l'«illustre» personaggio, manifestamente rintronato dalla squallida vicenda di "Gladio", non s'avvede neppure che le lealtà-fedeltà erano per lo meno cinque. Nel frattempo, però, a chi era fedele la cosiddetta Destra Nazionale, atteso che la Nazione non c'era più? Alla NATO, alla Chiesa, ai vari pseudo-governi badoglieschi o, più semplicemente, a certi Uffici Affari Riservati (ma non troppo!), oppure allo Stato Maggiore?

 

La fine dell'antifascismo

È noto che tutti i regimi si avvalgono dell'opera di cooperatori più o meno occulti. Ciò non deve destare meraviglia: quel che importa è che la nostra cautela sia sempre più acuta ed energica. Del resto non fu tra noi (a tacer d'altri) per qualche tempo, un Principe con ¾ di sangue papalino il quale -inseguendo il sogno rinascimentale di grandezza- dopo aver ordito per conto del Sistema un ben riuscito «golpe» (alcune migliaia di camerati furono incarcerati o costretti all'esilio), con un folle viaggio aereo da Madrid a Santiago, andò a proporre una ultima fedeltà al pincopallino Pinochet?

e) Che l'8 settembre fu tradito soprattutto il popolo italiano il quale, nel suo complesso, aveva tenuto, malgrado l'indubbia inferiorità di mezzi, una condotta fiera e dignitosa fino a quella data. Ciò è documentato dal maggior numero di volontari rispetto alle altre guerre e dalla plebiscitaria adesione alla Repubblica Sociale Italiana, nonché dalla esemplare non cooperazione col nemico nei campi di prigionia. Il popolo italiano sentì intensamente e combattè con decisione e valore la «guerra del sangue contro l'oro», anche se non altrettanto determinata e felice ne fu la conduzione politico-militare. Gli Italiani, in sostanza, credettero fermamente in una verità sacrosanta: «La nostra è la guerra dei poveri, dei diseredati, dei proletari. Contro di noi si è schierato il fronte della conservazione, dell'egoismo, dell'ipocrisia».

È indubbia la tendenza «a badogliare» da parte di quella minoranza che ha rappresentato e rappresenta l'Italia ufficiale, la quale è palesemente estranea alla sostanza antropologica e spirituale della nostra Gente. Di ciò siamo certi. Certi che pochissimi altri popoli -eccetto i due migliori Popoli del mondo, coi quali eravamo alleati- a guerra perduta, col territorio nazionale in gran parte occupato dal nemico, nella fame e nei disagi e sotto gli spietati bombardamenti nemici, avrebbero saputo esprimere oltre un milione di effettivi in armi e darsi, contestualmente, legislazione ed ordinamenti ancor oggi all'avanguardia nel mondo. Il termine «badogliare» non compete solo alla cricca monarchico-massonica, ma coinvolge per intero i social-comunisti, poiché esistono le prove che Togliatti propose a Stalin di far occupare da Tito -al fine di farli incorporare nella Jugoslavia- non soltanto la Dalmazia, l'Istria e Trieste, ma anche gran parte del Friuli (fino a Cervignano, confine pre 24/5/1915), nonché a tutto l'ambiente liberal-cattolico del CLN, militarmente dipendente dal governo Badoglio nella persona del suo comandante Luigi Cadorna. I regimi politici, come le piante, si valutano dai frutti che producono e basta guardarsi attorno per apprezzare i frutti dell'antifascismo: nato dalla vergogna esso sta, finalmente, agonizzando nella turpitudine.

Ciò detto, la FNCRSI esorta aderenti e simpatizzanti alla prudenza e alla vigilanza, ad accordare simpatia ed assistenza unicamente a quanti -quale che sia la loro contingente denominazione e collocazione- dimostrino sincera e provata determinazione di voler proseguire nel solco tracciato dalla RSI: cioè secondo i princìpi fondamentali della «partecipazione» come proposta politica di una moderna ed effettiva «democrazia partecipativa» e della «socializzazione» come forma attuativa della partecipazione all'interno delle realtà produttive. Li invita, inoltre, a fornire ogni possibile forma di collaborazione e di sostegno.

 

Italia - Repubblica - Socializzazione

 

Il Comitato Direttivo

 

 

articolo precedente Indice n° 30 articolo successivo