da "AURORA" n° 30 (Novembre - Dicembre 1995)

EDITORIALE

Unità nazionale: il nemico non è solo Bossi

Luigi Costa

Il governo tecnocratico, voluto da Oscar Luigi Scalfaro e tenuto in vita dalle incongruenze e dai giri di valzer dei suoi avversari, nonché dalla vischiosità gesuitica del Presidente del Consiglio, pare destinato a produrre danni ancora per lungo tempo.

Dini, infatti, ha sfoderato un'abilità tutta dorotea nel destreggiarsi tra ricatti incrociati, ultimatum ed interessi partitici contrapposti, mantenendosi al centro della scacchiera e relegando gli agglomerati partitici, in crisi di idee e di identità, in una marginalità rissosa e logorante. Di questa abilità il paradigma è stato il decreto sull'immigrazione, imposto da un aut aut della Lega Nord ed emanato, dopo un vergognoso tira e molla fra le diverse componenti del centrosinistra. «Decreto» che già appalesa, non diversamente dalla Legge Martelli di infausta memoria, tutta le sua inadeguatezza rispetto alla complessità di un contesto, alla pari di altri, sempre più intricato e incontrollabile.

Il Capo del Governo ha saputo sfruttare con rimarchevole abilità le chiacchiere, gli avvisi di garanzia, le scomuniche reciproche e le preoccupazioni dei due compositi e confusi schieramenti, a loro dire deideologizzati e pragmatici, saliti in sella in virtù della sedicente «rivoluzione» innescata dalle inchieste di Tangentopoli e da sempre impegnati a conquistare posizioni di vantaggio sul contendente, in vista del redde rationem elettorale.

«Elezioni si, elezioni no» questo il tormentato assillo, l'unico amletico dilemma del "nuovo", nel momento in cui i nodi aggrovigliatisi in decenni di malgoverno e malcostume sono tali da mettere in dubbio non solo il benessere conquistato al nostro popolo dal lavoro di intere generazioni ma l'unità stessa della Nazione.

Uno scenario umiliante, quello nel quale ci dibattiamo. Reso ancora più plumbeo dalla cervellotica approssimazione del governo Dini rispetto alle scelte economiche e politiche; la legge finanziaria, ad esempio, né giusta né rigorosa nei tagli e nel rastrellamento di risorse, approvata tra veti incrociati, minacce e pressioni di industriali, partiti e sindacati si è rivelata del tutto inadeguata -tanto da rendere necessaria, nei primi mesi del '96 una manovra «di aggiustamento»- in quando basata su cifre in entrata, quali quelle del concordato fiscale, assolutamente irreali, e su risparmi, i tagli di spesa sui costi della pubblica amministrazione, difficilmente attuabili. Questo si verifica nel momento in cui l'inflazione, grazie soprattutto agli aumenti nel settore trasporti, prende il largo superando di slancio quota 6%, riducendo ulteriormente il potere d'acquisto di salari e pensioni già abbondantemente decurtati dal deprezzamento della nostra moneta nei mercati valutari. Nel mentre la produzione industriale, dopo mesi di relativa espansione, favorita dalla svalutazione della lira, rallenta e la «ripresina» economica, che si era fatta sentire soprattutto nelle regioni del Nord-Est si affievolisce; la disoccupazione si dilata e la divaricazione tra Nord produttivo e Sud assistito diviene più marcata, infondendo ulteriore vigore al delirio indipendentista di vasti settori della Lega Nord. Ben più consistenti di quanto lo stesso Bossi voglia far credere.

Il Paese, dopo averli firmati, non è nelle condizioni di rispettare i criteri monetari ed economici stabiliti col trattato di Maastricht. Il che non sarebbe male, vista la nostra posizione di debolezza all'interno dell'Unione Europea e la vergognosa sudditanza agli altrui interessi, ma sarebbe micidiale per la nostra economia una ulteriore marginalizzazione dell'Italia dal contesto europeo, determinata dall'incapacità di tener fede ad impegni solennemente assunti, anche in considerazione dell'inconsistenza di spazi alternativi a quelli geo-economici propri al mercato globale in cui l'Europa è inserita.

Tutto questo finisce col determinare malessere nella grande industria del Nord che teme di essere schiacciata dalla concorrenza, specie francese e tedesca, sostenuta da economie nazionali più forti e meglio spalleggiate da governi dotatisi, da tempo, di strutture di programmazione in grado di ridurre i costi della ricerca scientifica, ottimizzare le risorse umane e tecnologiche e predisporre strategie di lungo periodo atte ad individuare e penetrare le nuove nicchie di mercato. Quest'apprensione ben la si coglie nelle pubblicazioni della «Fondazione Agnelli» che ha, da tempo, accentuato il suo impegno sulla questione federalista, sviluppando teorie del tutto inedite sulle cosiddette macro-regioni che si saldano, sia pure da una angolazione strettamente produttivistico-mercantile con le prospettive para-indipendentiste dei settori più oltranzisti della Lega Nord.

Non siamo ancora alla sindrome bosniaca, ma non si possono non rilevare similitudini con la crisi della Federazione Jugoslava degli anni '90 e '91, anche se la nostra, si fa per dire, classe politica non pare essersene resa conto.

È bene chiarire per evitare fraintendimenti dando la sensazione errata di spalleggiare quanti, da Fini a Bertinotti, addossano a Bossi responsabilità non sue, che la Lega Nord sta solo raccogliendo quanto seminato, in mezzo secolo, dalla politica criminale dei governi di centro e centrosinistra (con la complicità di MSI e di PCI) che hanno imposto alla Nazione un modello di sviluppo in cui il Meridione veniva relegato nel ruolo, economicamente e socialmente subordinato, di serbatoio di manodopera dell'industria lombardo-piemontese (lo stesso ruolo oggi riservato all'immigrazione extra-comunitaria) e di riserva elettorale esclusiva del notabilato democristiano e socialista. Epperò, pur tenendo conto di tante attenuanti, non si possono tacere le responsabilità degli Italiani del Sud; in prima istanza la propensione, largamente diffusa, a considerare un diritto acquisito e inalienabile il trasferimento, in forme clientelari ed assistenziali, di risorse dal Nord sul quale è prosperata una classe dirigente politico-mafiosa responsabile non solo dell'arretratezza economica e civile del Mezzogiorno ma più largamente, in virtù del consistente peso all'interno del governi succedutisi negli ultimi decenni, di grande parte dei mali nazionali.

Possiamo tranquillamente affermare che se è vero che il Nord si è riservata la gestione del controllo del potere economico, calamitando, negli anni del cosiddetto «miracolo italiano», gran parte delle risorse disponibili (che erano, in sostanza, rappresentate dalle rimesse in valuta pregiata degli immigrati italiani, in maggioranza meridionali), il Sud si è consegnato mani e piedi ad un consumismo artatamente prodotto da un trasferimento di ricchezze altrove prodotte, gestito dalle borghesie mafiose che, ad eccezione della parentesi fascista, sono state, dall'unità nazionale ad oggi, strette e indispensabili alleate del potere «romano».

Tale aspetto della «questione meridionale» viene spesso sottovalutato o eluso al pari degli strascichi economici e morali dell'8 Settembre '43 che, determinarono non solo il «ritorno al potere» della mafia siciliana -circostanza questa storicamente accertata-, ma anche una profonda spaccatura tra due Italie: totale acquiescenza all'invasore nel Regno del Sud nel momento in cui nella Repubblica del Nord oltre un milione di uomini continuavano a battersi in armi e lo stesso antifascismo affrontava i disagi e i pericoli di un'aspra e sanguinosa guerriglia.

 

Tralasciando un discorso storico che ci porterebbe lontano, va rilevato che i continui appelli alla solidarietà, tra regioni ricche e regioni povere, sono demagogia spicciola, insensata e pericolosa qualora abbiano la pretesa di perpetuare sine die l'attuale imponente trasferimento di risorse, frutto del lavoro degli Italiani del Nord, allo scopo precipuo di alimentare un assistenzialismo ed un clientelismo senza soluzione di continuità, quindi privo di qualsivoglia valenza produttiva. Non può sfuggire a nessuno che un simile proposito, previsto nei programmi elettorali dell'«Ulivo» e del Polo di destra, non lascerebbe al Nord altra scelta che quella della secessione. L'opzione indipendentista non può essere esorcizzata né dagli appelli all'«unità nazionale» della Chiesa cattolica e del «Madonnaro» del Quirinale, né da «mezzucci», quale sarebbe un ricorso alle urne volto a ridimensionare, cosa alquanto improbabile, la Lega di Bossi, come «sognano» Fini e Mastella, ma solo dall'affrancamento del Meridione dai perversi meccanismi clientelari e dalla criminalità organizzata che li gestisce.

È il Meridione, più che il Nord ad avere oggi nelle mani il suo destino e quello della Nazione. Noi vogliamo credere che di questo ne abbia coscienza.

 

Luigi Costa

 

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