da "AURORA" n° 30 (Novembre - Dicembre 1995)

GEOPOLITICA

La nemesi balcanica

Giovanni Mariani - Luigi Costa

L'Editoriale pubblicato nel n° 27 di "Aurora" («Normalizzazione e subalternità: una politica per i nani») è risultato quanto mai interessante per quanti hanno sempre associato la «Politica» ad ambiti più vasti ed ariosi delle ricorrenti scaramucce che caratterizzano la vita della cosiddetta Seconda Repubblica. L'articolo in questione richiama, infatti, tutta la drammaticità di uno scenario europeo nel quale l'azione dell'Italia risulta del tutto inadeguata tanto da far rimpiangere le timide iniziative del duo Craxi-Andreotti. Né si possono rintuzzare quei rilievi, argomentando che mai l'Italia potrà partorire una chiara e lineare politica estera finché rimarrà legata mani e piedi agli Stati Uniti: ciò è in parte vero, ma solo in ragione dell'incapacità dei Governi tecnocratici succedutisi nell'ultimo lustro (compresa la breve parentesi «Berlusconi-Fini») di recuperare, dopo lo sconquasso dell'Ottantanove, la stessa libertà d'azione se non della «potente» Germania, almeno della «piccola» Austria o dell'Ungheria post-comunista.

Riprova di ciò è il comportamento della Farnesina nella crisi seguita alla dissoluzione della Federazione jugoslava, ove l'inadeguatezza della nostra diplomazia è stata del tutto evidente, quasi a sottolineare la povertà intellettuale di una classe politica raccogliticcia, incapace di leggere la storia e quindi di influenzare gli avvenimenti in uno scacchiere vitale per la nostra sicurezza e per la nostra economia. E se la questione balcanica lascia indifferenti i «cervelli» politici della Seconda repubblica, paghi delle risse da suburbio in cui sono quotidianamente impegnati, non esime chi, e noi siamo fra questi, ritiene vitale «guardare oltre» il cortile di casa nel tentativo di chiarire ai lettori, ed a noi stessi, quali siano le radici, le conseguenze e gli sviluppi ulteriori delle vicende ex-jugoslave e, più in generale, di tutto l'Est europeo.

La storia di questo secolo è stata, in gran misura, influenzata dalle vicende balcaniche e le tensioni sviluppatesi in tale area hanno proiettato i loro effetti in ambiti geopolitici più vasti: prima con le Guerre balcaniche che furono all'origine del Primo conflitto mondiale, poi con la Rivoluzione russa e la Seconda guerra mondiale, innescata dalle rivendicazioni tedesche sui territori dell'Est ceduti in seguito al Trattato di Versailles. Ma anche il crollo del «socialismo reale» e, volendo essere pedanti, persino avvenimenti del tutto marginali, come la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi, preceduta da quella del suo più modesto collega ungherese Janos Palatos, padre-padrone della TV privata magiara.

Questo detto, è importante capire fino a che punto il contenzioso bosniaco e tutto il caos seguito allo smembramento della Jugoslavia sia da considerarsi un episodio isolato, quindi circoscrivibile e non il prodromo di altre e ben più luttuose tragedie. Per capirlo, occorre guardare alla storia di questa parte del nostro Continente, analizzando quanto i «tuttologhi» in servizio permanente effettivo, hanno tralasciato di indagare nelle loro noiose, melense e prolisse allocuzioni.

Nell'area balcanica hanno sempre avuto grande rilevanza le mire delle Grandi Potenze europee. In particolare la Russia e l'Impero austro-ungarico hanno svolto, fin dall'alba del XX secolo, un ruolo preponderante con il tentativo di sostituirsi al declinante Impero ottomano che da secoli dominava nei Balcani. Il "Congresso di Berlino" offrì a Bismark l'opportunità di inserire la Germania nel complesso gioco, mediando nel ginepraio degli antagonismi e permise, di fatto, al declinante Impero della «Sublime Porta» di sopravvivere per un altro quarantennio.

Ma, anche questa volta, i conti balcanici furono fatti, come si suol dire, «senza l'oste», rappresentato in questo caso dal montante irredentismo che a seguito della progressiva frantumazione dell'equilibrio «turco» dilagava, virulento ed incontrollabile, nei Balcani, cogliendo impreparati Russi e Austro-ungarici, convinti fino a quel momento di potersi sostituire senza intoppi gli Ottomani, controllando le spinte nazionaliste dei panslavisti.

Il turbolento calderone delle nazionalità, tenuto a bada per secoli dalla «ferula» turca, una volta scoperchiato debordava, favorito dai deleteri dissidi fra Austro-Russi, dalle rivalità economiche anglo-tedesche e dal revanscismo imperialista dei Francesi che miravano a creare Stati cuscinetto in grado di frenare l'espansione economica e l'influenza geopolitica verso sud della Germania e degli Imperi Centrali. L'ingerenza francese si richiamava a precedenti illustri e segnatamente alla politica di Napoleone Terzo che per frenare l'avanzata russa verso l'Adriatico aveva fatto ricorso, in piena Guerra di Crimea, ai buoni uffizi del Conte di Cavour onde favorire la nascita di uno Stato indipendente rumeno, legato alla Sorella latina d'occidente.

La replica russa, in quell'occasione, si concretizzò con l'appoggio dato agli Slavi di Bulgaria nel conflitto contro la Turchia (1877-'78) che si concluse con la Pace di Santo Stefano (marzo 1878) che sanciva la nascita del Principato Autonomo di Bulgaria.

Per circa un ventennio, le Grandi Potenze, soffiarono sul fuoco delle contrapposte rivendicazioni tra i Popoli balcanici, finché la situazione non precipitò allorché gli Austro-ungarici decisero di annettersi la Bosnia Erzegovina (1908), provocando il risentimento (mai più sopito) di Serbia e Montenegro, sostenuti dalla Russia che mal sopportava l'intromissione degli Asburgo tra gli Slavi del Sud (le similitudini con l'attualità sono sconcertanti). Nel mentre l'Impero ottomano, nonostante il tentativo rivoluzionario dei "Giovani Turchi", non riusciva più a mantenere il controllo sui propri possedimenti europei, privando così di qualunque freno gli irredentismi contrapposti di Bulgari, Greci, Serbi, Albanesi e Montenegrini, che puntavano ad estendere i propri spazi nazionali, gli uni a danno degli altri. Si arrivò così alla Prima guerra balcanica (1912) nella quale la Turchia fu sconfitta dalla coalizione che comprendeva Bulgaria, Serbia, Montenegro e Grecia.

La vittoria dei Popoli balcanici sui Turchi, invece di riportare la pace, innescò tra gli stessi Alleati una feroce contesa per la spartizione dei territori conquistati e gli ex-cobelligeranti finirono per combattersi tra loro (Seconda guerra balcanica, 1913). La Serbia, che già nutriva l'ambizione di elevarsi a «Piemonte dei Balcani», pretendeva di estendere i propri territori a sud, fino ad incorporare parte della Macedonia bulgara. Le sue mire erano contrastate dalla stessa Bulgaria che, a sua volta, ambiva al controllo della Macedonia serba e greca e pretendeva di espandersi ben oltre la Dobrugia rumena mirando ad incorporare la stessa Valacchia, giustificando le sue pretese con il richiamo alle frontiere della Grande Bulgaria di Simeone. La Bulgaria si ritrovò isolata nel conflitto che ne seguì e a causa dell'inferiorità numerica della sua popolazione fu sconfitta e costretta a cedere a Serbia, Grecia e Romania parte rilevante del suo territorio nazionale. La Prima guerra mondiale era alle porte e il panslavismo, così ben alimentato dall'insipienza delle Grandi Potenze, produceva i suoi frutti avvelenati dalla Boemia alla Serbia.

È palese che sussistano correlazioni strette tra quanto accadde nei primi anni di questo secolo e la situazione attuale. Oggi, come allora, l'esclusivismo etnico-religioso si è ingigantito a dismisura in concomitanza con il venir meno di un equilibrio geopolitico stabile da decenni; il crollo del comunismo ha lasciato un «vuoto» almeno pari a quello causato dalla disgregazione dell'Impero ottomano. Un «vuoto» reso ancor più pericoloso da una crisi economica disastrosa, colmato al momento solo dal più irrazionale dei nazionalismi. La «pax democratica», prima vagheggiata, poi disegnata, infine imposta dalle Logge e dai Circoli occidentali non potrà mai reggere l'impatto di una cultura, qual'è quella balcanica, ineluttabilmente collegata a concezioni autoritarie ed a visioni rurali ed arcaiche della vita comunitaria, nella quale gli spazi per suggestioni tardo-democratiche, partorite dalla «civiltà» del «terziario avanzato», sono piuttosto ristretti.

Tornado al primo interrogativo che ci siamo posti: è possibile che lo scontro in atto, al momento limitato entro i confini della ex-Jugoslavia, possa estendersi a tutta l'area, coinvolgendo l'Europa occidentale?

Un'analisi storiografica non è, di per sé, sufficiente per trarre conclusioni definitive! È quindi necessario, per capirne di più, soppesare le forze economiche e le entità politiche che interagiscono nell'area, onde individuare i possibili detonatori di futuri conflitti. La crisi della Jugoslavia «titina» è stata, in prima istanza, prodotta, con buona pace di Marx e del «materialismo storico», da fattori economici, gli stessi che hanno provocato il repentino crollo del Socialismo reale. Non a caso, infatti, Slovenia e Croazia, che erano il cuore finanziario e industriale della Federazione degli Slavi del Sud, decisero la secessione per mere valutazioni di ordine economico. Il «vespaio» jugoslavo si scatenò allorché a Zagabria e Ljubljana germogliò, nel contesto di ragioni storiche e geografiche legate allo sviluppo di queste Nazioni ereditato dall'Impero Asburgico, l'idea di farla finita con i trasferimenti di risorse verso le Repubbliche più povere. Gli Sloveni ed i Croati, legati storicamente alla Mitteleuropa, mal sopportavano l'egemonia politico-militare serba. «Egemonia» del resto prodottasi sia nella Jugoslavia monarchica che in quella comunista.

Il domino dell'etnia serba sulle altre, è sempre stato soffocante: l'80% delle forze di polizia, il 90% degli ufficiali superiori della Armata erano Serbi. «Noi lavoriamo e tutti i soldi finiscono a Belgrado, li gestiscono loro», era il ritornello di Croati e Sloveni (l'essere musulmani, cattolici o ortodossi, pareva, allora, non contare molto); ciò ci rimanda -ci permettiamo una piccola disgressione- allo slogan «Roma ladrona, la Lega non perdona» di marca bossiana. Le motivazioni etnico-religiose vennero in evidenza in un secondo momento, allorquando l'agognato «federalismo fiscale», predicato a Ljubljana e Zagabria, non era bastevole a giustificare una guerra vera e propria allorché la chiamata alle armi, specie in Croazia, assunse proporzioni colossali con il richiamo dei riservisti in età fra i 18 e i 60 anni. Le similitudini tra rivendicazioni leghiste e quelle sloveno-croate del triennio '90/'92, sono ancora più marcate nel caso si vogliano prendere in esame le ragioni dell'indipendentismo dei Boemi-Moravi del '92/'93 che portarono alla dissoluzione della Cecoslovacchia ed alla nascita di due diverse entità statuali. Il copione fu il medesimo: le regioni più ricche (storicamente legate al mondo germanico) ove esisteva già un terziario avanzato e una discreta tecnologia industriale, hanno giocato la carta dell'indipendenza nei confronti delle zone meno ricche e sviluppate, ancorate ad un'economia agricola di sussistenza, supportata da un'industria pesante obsoleta legata a produzioni militari e caratterizzato da impianti fatiscenti e difficilmente convertibili. Così, come nel caso italiano e fatte le dovute differenze, nel ricco Nord si agitano fantasmi secessionisti nei confronti di un Sud (finora sfruttato come riserva di manodopera e mercato monopolistico interno) marginalizzato economicamente, rispetto alla centralità finanziaria e produttiva del Nord Europa.

Il risentimento economico, favorito dallo smarrimento prodottosi nella politica dallo sconvolgimento di assetti geopolitici cinquantennali (che avevano senza alcun dubbio influito beneficamente sulla situazione economica nazionale, grazie all'invidiabile posizione strategica dell'Italia), sembra destinato a far pagare, alle regioni povere dell'Europa centro-orientale e meridionale le ansie consumiste delle regioni ricche. L'intromissione della Germania nella «querelle» è destinata a pesare: gli Stati sorti dalla dissoluzione di Jugoslavia e Cecoslovacchia, gravitano già nell'orbita del Colosso tedesco (l'Austria è solo una «marca» orientale del nascente impero) e non solo dal punto di vista geografico, ma anche da quello etnico-linguistico, grazie alla massiccia presenza di minoranze germaniche e alla funzione, mai del tutto venuta meno, del Tedesco quale lingua commerciale -fin dal XV secolo- nelle città polacche, in quelle croato-slovene e in quelle boemo-morave.

Ma è sotto l'aspetto economico che l'influenza tedesca si è dilatata enormemente!

Interi segmenti economici nell'ex-Jugoslavia, nell'ex-Cecoslovacchia (per non parlare di Polonia, Ungheria, Romania e Russia) sono stati fagocitati dal capace «ventre» della BundesBank. Esempio di ciò, il colosso cecoslovacco Skoda che è oggi controllato dalla Volskwagen, come la grande maggioranza della produzione automobilistica dell'Est.

È giusto ricordare che la penetrazione del capitale tedesco nel Centro-Est europeo era iniziata fin dai primi Anni Ottanta, ben prima del crollo del Muro di Berlino, quando ancora le «stelle rosse» illuminavano i palazzi di Praga, Varsavia e Budapest. La moneta di riferimento era già allora «sua maestà» il Marco. Tutto ciò si è in seguito accentuato, diventando più evidente, persino sfacciato se si considera che in qualsiasi albergo, ristorante, bar o negozio i prezzi vengono indicati in Marchi piuttosto che in Fiorini, Talleri, Corone, Zloty o Lei.

Per quanto riguarda il «Belpaese», l'influenza economica tedesca è ben evidente, anche se c'è da dire che essa si appalesa in altri, meno evidenti, modi come dimostrano le conclusioni del recente «Vertice» sul Lago Maggiore tra Khol e Dini e le dichiarazioni, pagate pesantemente dalla Lira, del Ministro delle Finanze Waigel al parlamento di Bonn. In questo scenario la politica «urlata» della Lega Nord, con le sue continue minacce di secessione, sono, consapevolmente o meno, funzionali al malessere ed all'instabilità politica e finiscono col favorire la satellizzazione dell'Italia alla finanza tedesca. Non vogliamo, anche se la logica lo consente, dare credito alle «voci», anche di personaggi autorevoli, che vogliono il «carroccio» finanziato dalla Democrazia Cristiana bavarese: noi siamo garantisti e simili accuse vanno dimostrate, oltre ogni dubbio, prima di essere lanciate.

Ma non si può certo negare che fin dai suoi esordi il leghismo si nutrì di umori filo-tedeschi. Basti ricordare il prof. Gianfranco Miglio che, a suo tempo, conferiva rilevanza etnico-politica al fatto che sua nonna «contava le galline in tedesco». Il che ha un significato preciso (anche senza ricordare i «camion di armi croato-slovene pronti a passare il confine per armare la gente del Nord», come sostenuto in un'occasione dal sen. Bossi) nel momento in cui la Germania si ripropone come «centro» geopolitico (in tutta legittimità e con tutti i titoli per farlo, va riconosciuto!) ed utilizza l'«arma» finanziaria per fiaccare le altrui resistenze. Vogliamo dire che non saranno le colonne di «panzer con la croce nera» a sfilare sotto l'Arco della Pace di Milano, ma il silenzioso lavorio dei signori del Marco che assoggetteranno la nostra economia. La sostanza ci pare non cambi molto.

Tornando allo scenario balcanico e per meglio esprimere il nostro pensiero è opportuno stabilire alcuni punti:

a) A seguito del crollo della «Cortina di Ferro», la Germania riunificata ha rispolverato le sue antiche ambizioni che si sostanziano nella conquista (non più territoriale, ma economico-politica) del Sud e dell'Est europeo. Questa nuova e incruenta riedizione del «lebensraum» non può al momento essere efficacemente ostacolata; insignificante il peso reale di Francia ed Inghilterra (alle prese con situazioni economiche e sociali interne tutt'altro che facilmente risolvibili) e con l'«Orso Russo» (l'unico in grado di coagulare, in funzione anti-tedesca, il sempre latente panslavismo dei Popoli Est europei) fuori gioco, la Germania ha campo libero, favorita dal diffuso sentimento anti-russo di molte popolazioni slave (Ucraina, Polonia, Paesi Baltici e Repubblica Ceca).

b) Sono molte le Nazioni che intendono «lucrare» vantaggi dalla caduta dei precedenti equilibri, specie nell'area balcanica, anche a costo di scatenare conflitti armati.

c) La guerra nella ex-Jugoslavia è maturata su ragioni economiche, ma si è nutrita, strada facendo, di fantasmi etnico-religiosi, al punto che sono questi, oggi, ad apparire come causa prima del conflitto.

d) L'ipotesi d'allargamento dei contenziosi, anche con mezzi militari, non è così remota. La polveriera balcanica può esplodere in qualsiasi istante. La situazione economica della maggioranza di questi Paesi è disastrosa e un (anche minimo) peggioramento delle condizioni di vita può innescare spirali incontrollabili.

e) I presupposti per un conflitto generalizzato ci sono tutti: sperequazioni sociali incredibili, recessione economica spaventosa (basti pensare che nella Rep. Moldava lo stipendio medio è inferiore a $ 30), contenziosi etnico-territoriali di difficile soluzione, intolleranze religiose secolari, odi tribali che affondano le radici nella tormentata storia di queste terre.

 

 

L'aspetto economico

Economicamente i Paesi ex-comunisti si dividono in due gruppi: da una parte quelli che, pur tra indubbie difficoltà, sono in grado di mantenere una produzione decente e costante e di crescere, pur lentamente, sul piano tecnologico (ne è un esempio l'Ungheria con "Videoton"). Tra questi figurano: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Croazia e Paesi Baltici che, grosso modo, gravitano attorno alla Germania. Vi sono poi i Paesi più arretrati: Albania, Romania, Bulgaria, Macedonia, Confederazione Jugoslava e Rep. Moldava. Nazioni come la Romania, la Bulgaria e l'Albania, che pure hanno discrete risorse minerarie -basti pensare ai giacimenti petroliferi, sul versante meridionale dei Carpazi, di Ploiesti e Pitesti, a quelli di metano in Transilvania, di ferro e manganese nel bacino di Tolbuhin (in Bulgaria) e di cromo in Albania (terzo produttore mondiale)- sono però prive di un decente apparato industriale, sia sul piano qualitativo che su quello quantitativo. I pochi impianti industriali sono in condizioni disastrose: logori, tecnologicamente obsoleti ed in via di cedimento strutturale.

Non è un azzardo affermare che in tutta l'area balcanico-carpatico-danubiana si possono salvare unicamente una parte degli impianti petrolchimici rumeni. E stiamo parlando di Paesi in cui non esistono automobili, come l'Albania e la Macedonia e dove, in agricoltura, predomina il traino animale e la «carta igienica» è ancora considerata un lusso.

Un raffronto con l'economia occidentale non è possibile; parte consistente del mondo balcanico è ferma agli inizi del XX secolo. Ciò non toglie che città come Budapest, Praga, Ljubljana, Zagabria, Riga e Danzica appaiano come il «regno di Bengodi» se paragonate alla miseria di Skopje, Sofia, Tirana, Bucarest e Belgrado; basti la considerazione che ancor oggi migliaia di giovani moldavi emigrano in Siberia per lavorare nei boschi e nelle miniere, guadagnando meno di 40 dollari mensili. Veramente pochi, secondo gli standards occidentali, ma un ricco stipendio se rapportato a quello percepito in Patria dai loro coetanei impiegati nelle industrie degli armamenti e che lavorano in condizioni ambientali spaventose.

 

Le questioni etnico geografiche

Non meno esplosivo è il mosaico etnico-territoriale; i contenziosi geografici hanno sempre fatto da sfondo a guerre «senza prigionieri» che la storiografia occidentale si è ben guardata, anche in occasione del conflitto bosniaco, di indagare a fondo. Le «pulizie etniche» dei nostri giorni non sono «un oscuro retaggio tardo-medioevale» -come qualche «anima bella» va cianciando-, ma una prassi militare, sempre e comunque applicata da tutti i contendenti, nessuno escluso. E a nulla serve indignarsi: storicamente le guerre, da quelle parti, si sono combattute con enorme spargimento di sangue e la popolazione civile è sempre stata sottoposta ad inenarrabili angherie ed atrocità.

La storia, d'altro canto, ha condannato queste popolazioni ad una instabilità territoriale endemica; i confini sono «irreali», tracciati in modo iniquo dai vincitori, che a turno prevalgono nelle innumerevoli contese armate e non tengono in alcun conto le consistenti minoranze che «saltellano» da uno Stato nazionale all'altro. Al riguardo è nota l'ingordigia di Stalin che a Yalta -complici Churchill e Roosevelt- si appropriò di una larga fetta della Polonia orientale, con la conseguenza che oggi una consistente minoranza polacca è presente in Lituania e Bielorussia. E non è un mistero che il governo lituano non sia particolarmente sensibile ai diritti della minoranza polacca (ai russi sono negati persino i diritti politici, in quanto considerati «stranieri»), dimenticando, grazie alle pressioni della sempre più influente destra xenofoba, gli ottimi rapporti (e l'antica amicizia) intercorsi tra il Regno di Polonia e il Granducato di Lituania che portò all'unificazione dei due popoli nel 1569. In Lettonia, poi, la minoranza russa, pari al 34% della popolazione (circa 700.000 persone), è stata privata del diritto di voto, dando vita ad una tensione acuitasi in seguito alla vittoria elettorale del "Movimento del Popolo della Lettonia", ferocemente anti-comunista e anti-russo, accusato di operare una «pulizia etnica» strisciante dai pan-russi del Gen. Lebed e dalla destra slavofila di Zhirinovsky, entrambi decisi a difendere, anche con le armi, i diritti dei «fratelli russi». Ma lo scenario risulta persino più inquietante qualora si tenga conto delle allarmanti ipotesi avanzate dalla stampa moscovita (non smentita dal Ministero degli Esteri russo) nella evenienza di una adesione dei Paesi baltici alla NATO (e la destra lettone si muove in tale direzione). In quel caso le truppe di Mosca sarebbero pronte ad invadere, come nel '40, Estonia, Lettonia e Lituania; questa ipotesi è stata confermata da diversi esponenti della "Scuola Geopolitica" russa, particolarmente attendibili per la loro contiguità ad ambienti militari revanscisti che hanno un consistente peso politico visto il loro rapporto con i vertici dell'ex-Armata Rossa e col Ministro della Difesa Graciov.

Se la Repubblica Ceca è, al momento, immune da incubi bellici e «pulizie etniche», diversa è la situazione della Slovacchia, ove la minoranza ungherese pari al 4% della popolazione nella ex-Cecoslovacchia unita, è balzata ad un 11% dopo la secessione del '93. In città come Kôsice, gli Ungheresi, un tempo tenuti a bada dai gendarmi di Praga, stanno riorganizzandosi ed i rapporti con la Madrepatria si fanno ogni giorno più stretti. Non sono pochi coloro che sostengono che il Governo di Budapest abbia in tutti i modi favorito la divisione della Cecoslovacchia con lo scopo di mettere sotto tutela la piccola Slovacchia che, fino al '18, era parte integrante del Regno d'Ungheria.

Del resto, la stessa Ungheria è l'esempio paradigmatico di come una Nazione possa essere smembrata con compasso e righello senza tenere in considerazione le componenti culturali, linguistiche ed etniche degli abitanti. A Versailles si decisero le sorti dello Stato danubiano (giugno 1920), con il cosiddetto "Trattato del Trianon", nel quale l'Ungheria veniva pesantemente mutilata perdendo in un sol colpo: il Banato (spartito tra Jugoslavia e Romania), Vojvodjna e Slavonia (cedute alla Jugoslavia), Fiume (passata all'Italia), Transilvania (incorporata dalla Romania), Slovacchia e Rutenia sub-carpatica (prima annessa alla Cecoslovacchia, poi ceduta all'ucraina).

L'Ungheria fu ridotta di un terzo e parte consistente dei suoi abitanti si ritrovò fuori dei confini nazionali. La situazione attuale vede 600.000 Ungheresi in Slovacchia, 1.900.000 in Romania, 600.000 in Vojvodjna, qualche centinaia di migliaia in Ucraina. Le pressioni del Governo di Budapest affinché queste minoranze vengano riconosciute e garantite sono ampiamente note. È opinione diffusa tra gli addetti ai lavori, che la politica estera magiara abbia tanto a cuore la questione delle minoranze da soffiare sul fuoco della instabilità interna dei propri vicini, col fine ultimo di riannettersi i territori perduti. Questa tesi è avvalorata dal persistente stato di tensione fra Budapest e Bucarest, Belgrado e Bratislava. Nonostante l'apparente neutralità sulla questione bosniaca (che non ha impedito all'Ungheria di essere un vero e proprio arsenale per il riarmo dell'Esercito croato), l'Ungheria punta chiaramente ad allargare il conflitto con lo scopo di ridimensionare la Serbia e costringerla alla rinuncia della Vojvodjna o, almeno, obbligarla a concedere a tale regione una più ampia autonomia. Del resto, questa fu la politica ungherese verso la Romania di Ceausescu: nel dicembre 1989 fu la minoranza magiara di Transilvania a scatenare e guidare la rivolta che portò alla caduta del Dittatore. A proposito rivelazioni recenti, indicano in «agenti» ungheresi infiltrati tra i dimostranti i veri responsabili degli scontri a Bucarest e Timisoara. I governi di Budapest (quello comunista di Janos Kadar, quello liberal-democratico, quello socialista attuale) non hanno mai formalmente rinunciato alla prospettiva di riunire alla Madrepatria i quattro milioni di ungheresi che vivono fuori degli attuali confini politici. Non è senza significato che ancor oggi, nelle carte geografiche ufficiali, la serba Subotica sia indicata col nome storico di Szabadska e le rumene Timisoara, Arad, Cluj Napoca con gli antichi nomi di Tesmevar, Nagyvarad, Kolozsvar.

Si dirà che ciò non significa che l'Ungheria si lasci travolgere da suggestioni guerrafondaie, specie ora che gli viene ventilata la possibilità di entrare nella CEE, ma è anche vero che il risentimento per il "Trattato del Trianon" è ancora, a distanza di 75 anni, ben presente nella società ungherese.

Può essere che la «piccola» Ungheria, abituata ad attendere, si comporti come negli anni precedenti il II conflitto mondiale, allorché, grazie all'alleanza con l'Asse, recuperò gran parte dei suoi territori: la Slovacchia meridionale nel '38, la Rutenia subcarpatica nel '39, la Vojvodjna nella primavera del '41.

Ancora più ingarbugliata la situazione nella zona sud dei Balcani: il Kossovo -la «Palestina» della ex-Jugoslavia-, abitato per il 90% da Albanesi musulmani, è da anni teatro di violenti e sanguinosi disordini. Il Governo di Belgrado, non ha esitato, negli ultimi tempi, ad usare il «pugno di ferro»: «sequestri» dei capi della «maggioranza albanese», carri armati ad ogni angolo di strada, sospensione delle garanzie costituzionali, etc. La Serbia ha ridotto Pristina ad una via di mezzo tra una caserma militare e un commissariato di polizia, allo scopo di cancellare i «sogni» degli Albanesi: tanto degli «indipendentisti», fautori di una Repubblica Indipendente del Kossovo, quanto dei più pericolosi «irredentisti», decisi a riunire gli Albanesi del Kossovo e quelli della Macedonia ai Fratelli di Tirana, innalzando le insegne di Skanderberg nel nome del «Paese delle Aquile». Slobodan Milosevic ben conscio della minaccia, che si andava profilando, decise, fin dal '91 (quando il rappresentante del Kossovo alla Presidenza collettiva federale votò contro il diktat posto dal serbo Boris Jovic, rifiutandosi di avallare lo stato di guerra contro Sloveni e Croati) di togliere ai Kossoviani il diritto di voto, violando palesemente la Costituzione jugoslava che stabiliva che al massimo organo dello Stato Federale partecipassero, con uguali poteri, i rappresentanti delle sei Repubbliche più le due Regioni Autonome di Vojvodjna e Kossovo.

Non si può d'altronde sottovalutare l'importanza, anche psicologica, che il Kossovo rappresenta per una Serbia avviluppata nel più revanscista dei nazionalismi: il Kossovo è territorio «Sacro», sede dell'antico «Regno di Serbia», quindi sede storica della «nazione», dove si trovano i «campi» di Kossovo Polje, vero e proprio «Muro del Pianto» delle Genti serbe da quando l'esercito ottomano di Murad I vi massacrò quello del Principe Lazar.

L'Albania, invece, pare poco interessata alla sorte dei Kossoviani, per una serie di comprensibili ragioni: gli Albanesi d'Albania, dopo mezzo secolo di comunismo isolazionista si sono abituati a pensare in «piccolo» e sono troppo «poveri» per rischiare una guerra. Il «Regno delle Aquile» è povero di uomini, vista l'esigua popolazione e povero di alleati che lo possano sostenere in uno scontro con Serbi, Montenegrini, Macedoni e Greci, suoi nemici storici per «ragioni» risalenti all'epoca della dominazione turca.

Ancora più problematica è la situazione macedone, specie dopo l'attentato al Presidente Kiro Gligorov e alla scorta. La Macedonia, due milioni di abitanti, è soggetta alle fameliche attenzioni dei vicini. Ma anch'essa nutre mire espansionistiche e vagheggia la dilatazione dei confini che incorpori i territori che, dopo la Prima guerra mondiale, vennero spartiti tra Jugoslavia, Grecia e Bulgaria. In verità, queste aspirazioni non sono condivise da tutte le etnie del mosaico macedone. Infatti i Macedoni veri e propri rappresentano solo il 50% della popolazione a fronte di un 20% di Albanesi, concentrati nel Sangiaccato e con i quali i rapporti sono particolarmente tesi (illuminante in proposito il bellissimo film, premiato a Cannes nel '94, "Prima della pioggia") e di un restante 30% che appartiene ad altre etnie (Greci, Croati, Bulgari, Turchi, Serbi). Albanesi e Macedoni, per secoli si sono «tranquillamente» scannati ed in quelle valli, segnate dalle invasioni, il culto della «Grande Albania» ancora sopravvive accanto a quello speculare della «Grande Macedonia». In questa tragica escalation di odi tribali si inseriscono le pretese della Grecia, culminate, nel 1994, con la rottura delle relazioni diplomatiche, la chiusura delle frontiere tra i due Paesi e l'embargo commerciale.

Da non sottovalutare, nel contesto, il ruolo della Turchia. Da un lato la diplomazia di Ankara intrattiene rapporti privilegiati con la Macedonia, con lo scopo di allargare la propria influenza nei territori del fu Impero turco, dall'altro mantiene ottime relazioni con i «fratelli albanesi» e soffia sul fuoco degli irredentismi filo-turchi di Bulgaria e Grecia. In quest'ottica va vista la stretta «amicizia» che lega Atene, Belgrado e Sofia; amicizia che va trasformandosi in alleanza militare (in funzione anti-turca) a tutti gli effetti, nonostante che Grecia e Turchia siano formalmente alleate, vista l'appartenenza di entrambe alla NATO.

Per quanto riguarda la Romania, che non possiamo considerare (geograficamente) balcanica, i contenziosi etnico-territoriali non sono così accentuati. I Rumeni di Moldavia, circa 3 milioni, pur intrattenendo ottimi rapporti con il Governo di Bucarest, hanno scelto l'indipendenza. Uno status quo molto particolare quello della Repubblica del Dnestr, che funge da Stato cuscinetto, stretto com'è tra Ucraina e Romania. Il Governo di Kisinev sa bene quali vantaggi possono derivare da questa collocazione strategica. Del resto i Moldavi sanno che, qualora il Paese venisse inglobato dalla Moldavia rumena, loro non conterebbero più nulla e sarebbero anonimi cittadini di una delle tante «judete» (provincie) in cui è strutturato lo Stato rumeno; anzi, quasi sicuramente, sarebbero derisi ed emarginati a causa delle forti inflessioni dialettali tipiche dei Moldavi dell'Est. Comunque, si può ipotizzare, in tempi brevi, una rottura dell'attuale equilibrio qualora la Repubblica moldava non riesca a migliorare la sua disastrosa situazione economica.

 

La componente religiosa

La questione religiosa è, per molti versi, la componente più pericolosa delle dispute balcaniche. Nell'Europa centro-orientale, infatti, il fanatismo religioso ha sempre avuto un carattere guerriero. A salvare Vienna dai Turchi fu il fanatismo cattolico polacco e Luigi II d'Ungheria (che cadde alla testa dei suoi guerrieri-contadini) fece pagare un salato prezzo all'esercito Ottomano che avanzava nelle pianure magiare: fu la famosa notte del «niente prigionieri» nella battaglia di Moahcs del 1526. L'esercito ungherese si fece massacrare fino all'ultimo uomo per differire di qualche mese l'avanzata di Solimano II nel cuore della Cristianità. Intere città ungheresi furono espugnate e distrutte senza che un solo prigioniero cadesse vivo nelle mani dei Turchi. Ad Eger, nel 1552, si svolse la vicenda più sintomatica per la forza della Fede cattolica ungherese: 150mila Turchi assediarono la piccola fortezza ove si era asserragliato, con soli 2mila uomini ed il prezioso aiuto delle donne, il principe Istvan Dobo che resistette per oltre un mese, fintanto che i Turchi, esausti, non decisero di levare l'assedio.

Non inferiore è il fanatismo ortodosso dei serbi che nella battaglia di Kossovo Polje si fecero massacrare fino all'ultimo uomo, pur di contrastare il passo all'invasore musulmano. Una battaglia in cui l'eroismo serbo ricorda da vicino quello degli Spartani di Leonida alle Termopili. Il senso religioso di queste popolazioni ha attraversato, rafforzandosi, i secoli; esse sono sempre pronte a battersi nel nome di ciò che considerano al di sopra di tutto: la Cristianità.

In Romania il fervore religioso-militare è molto simile. Un esempio ne sono i Monasteri della Bucovina. In questo territorio, per secoli esposto alle incursioni ottomane, si sono, anche dal punto di vista architettonico, costruiti i luoghi di meditazione e culto come vere e proprie fortezze, con tanto di torri e mura merlate. L'idea di questa duplice funzione, religiosa e militare, risale al «difensor fidei» per eccellenza: il Principe di Valacchia e Moldavia, Stefano il Grande (1457/1504), acerrimo avversario della «Sublime Porta». Se si ha la ventura di visitare i Monasteri della Bucovina e quelli della Bulgaria, si comprende appieno il silente e vigoroso fanatismo ortodosso di queste genti. Ancora oggi, all'alba del Terzo Millennio, in quelle verdi vallate, migliaia di «credenti», vestiti in abiti tradizionali, si recano nei monasteri richiamati dal «magico suono» del Dangatt («suono del pianto») che ricorda alla memoria collettiva Dio e la Patria. D'altronde tutti gli eroi rumeni incarnano la sintesi Patria-religione: da Stefano il Grande ad Alessandro il Buono, da Michele il Bravo a quel Vlad Tempes detto l'«Impalatore», meglio conosciuto col nome di Dracula, nemico giurato dei Turchi e, ancor oggi, venerato eroe nazionale.

La forma mentis balcanico-carpatico-danubiana è che la Fede e la Patria vadano difese con le armi, senza pietà alcuna; la crudeltà contro il nemico è recepita come un dovere a cui il «fedele-patriota» non può sottrarsi. Come si può pretendere allora, con i nostri schemi mentali e culturali, di capire, assolvere o condannare un mondo così diverso, così profondamente e intimamente plasmato dalla propria storia?

Come possono pensare gli Occidentali di spezzare queste energie, che traggono linfa dal soprannaturale, con bizantinismi diplomatici e richiami edonistici?

La vicenda storica di questi popoli insegna che, alla lunga, qualsiasi intrusione esterna ottiene effetti contrari a quelli che l'hanno provocata. I disastri dell'«occidentalismo» hanno già partorito l'integralismo musulmano; allo stesso modo, l'insipienza arrogante e materialista delle Potenze occidentali, può condurre i Paesi di fede ortodossa a chiudersi a riccio attorno alle mai sopite suggestioni militariste ed autoritarie. Nel caso che l'Occidente capitalista assumesse, anche fittiziamente, una posizione filo-musulmana, si troverebbe, presto o tardi, a fare i conti con un'ortodossia sempre più radicale ed aggressiva, anche in ambito politico. L'Oriente ortodosso è per mentalità teocratico: agli Zar sono succeduti Stalin e Ceausescu, Dimitrov ed Hohxa che hanno guidato i loro Popoli utilizzando i metodi dei loro predecessori e, ironia della storia, in modo meno «laico» di Re ed Imperatori, considerato che il comunismo nell'Europa orientale, ha riproposto intatte le pratiche care alla cristianità più deteriore: la «confessione», il «processo» ideologico, «il culto dell'immagine», l'«osservanza del dogma», il tutto già ben conosciuto, in quelle contrade, ben prima dell'Ottobre del '17. In altre parole, perfino il comunismo «ateo» ha dovuto spogliarsi di qualsivoglia componente «libertaria», per essere accettato da Popoli che il potere lo concepiscono solo in termini di rigida gerarchia. La figura del «Padre-padrone» è per lo Slavo ortodosso la figura del «Padre Nostro»; così era ai tempi dello Zar («Piccolo Padre»), così è stato ai tempi di Stalin («Padre della Patria», «Padre del Comunismo»). Lungo tale linea «patriarcale» si giunge fino ad un presente che è, comunque, rispettoso del passato. Non capirlo significa ignorare la realtà.

 

Conclusioni

Il biennio '89/'91 ha visto la crisi non solo dell'Impero sovietico, ma di tutta l'Europa centro-orientale. I nodi da sciogliere oggi sono gli stessi dei primi decenni di questo secolo. La Russia si dibatte in una situazione assai simile a quella che precedette l'Ottobre del 1917, i Balcani quella del '12/'13; Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia rivivono i drammi seguiti al crollo dell'Impero asburgico. È tutta un'area, che va dal Baltico al Mar Nero, dalle Alpi Occidentali agli Urali, dal Mediterraneo al Mar Caspio, nella quale vivono popoli Slavi, Ugrofinnici, Latini, Germani, Turcomanni, in rivolgimento, ove le frontiere non hanno senso compiuto e in cui ogni popolo sembra ricercare nel proprio passato il senso del presente e del futuro, e quando lo trova, prende atto che la propria storia è fatta, contrariamente a ciò che il comunismo ha cercato di inculcare, di Sangue e di Fede, di nazionalismi esasperati e fanatismi religiosi.

Solo il brutale equilibrio imposto dalla Russia (zarista o sovietica, poco importa) è riuscito, per qualche tempo, a comprimere le tendenze innate di queste genti. Ma oggi la «Santa Russia» è essa stessa «ammalata» e non può aiutare i «suoi figli» che si apprestano nuovamente a «scannarsi» tra loro. È difficile pensare che un terremoto di questa portata si fermi e non produca ulteriori incendi dopo quello, momentaneamente domato, della ex Jugoslavia. L'Est ha urgenza di ritrovare i propri punti di riferimento, e questi non possono che parlare Russo o Tedesco. L'equilibrio fittizio garantito dagli Stati Uniti, tramite la NATO, non regge ed è foriero di ulteriori disastri. Innanzitutto si rischia di ricreare nel Continente europeo due fronti contrapposti, con una linea di demarcazione che divide il Nord-Ovest, cattolico-protestante e ricco, dal Sud-Est, ortodosso e povero.

Nessuna meraviglia, dunque, se la Germania riprende il tradizionale «Drang nach Osten», in quanto essa è, per interi popoli, l'unica speranza di salvezza. Né dobbiamo stupirci se Slovenia e Croazia si gettano nelle robuste braccia dei Tedeschi e neppure che Paesi di cultura e tradizione germanico-magiara come Ungheria, Lettonia, Estonia, Lituania e Repubblica ceca si aggrappino, con tutte le loro forze, al Colosso centroeuropeo. Non è un complotto tedesco! È un avvenimento naturale, tra interlocutori naturali. Così com'è naturale che l'Albania guardi all'Italia.

Rimane da chiedersi: fino a che punto sia stata la stessa Germania a favorire il «ritorno» del suo «impero»? Sicuramente i Tedeschi hanno colto al volo l'occasione! Ma vi è da dire che la Germania offre a queste Nazioni, immiserite da 50 anni di comunismo, molto più di quanto queste le possano dare: un'idea di ordine, di stabilità, di sicurezza e prosperità in misura superiore a quella che possono offrire gli Stati Uniti. Ma è, soprattutto, sotto l'aspetto culturale e storico (l'intellighentia austro/ungarica parlava e scriveva in Tedesco) che il «ritorno» della Germania va interpretato.

Il solo problema, che non solo noi ci poniamo, è ben diverso: saprà la Germania ristabilire un giusto equilibrio nell'Europa sud-orientale, favorendo la rinascita economica e civile di questi Stati, senza pretendere che essi diventino suoi vassalli? Rinuncerà al vecchio vizio pangermanista, con o senza l'ausilio dello «stivale» prussiano? A differenza di Vienna, Berlino non ha mai brillato per tolleranza e democrazia; in questo secolo l'ha dimostrato non poche volte! Solo una Germania affrancata da antichi vizi può essere l'agente regolatore ed unificatore di una Europa in cui i rischi di una nuova «cortina di ferro» sono sempre presenti.

In questa ottica va aiutata una Russia in gravi difficoltà, preservandone ad ogni costo l'integrità territoriale e favorendo il suo affrancamento dalle oligarchie finanziarie d'Oltreoceano che la stanno spolpando. Nel contempo, lasciarle giocare, anche per il prestigio di cui ancora gode tra quei popoli, le sue «carte» balcaniche, in modo che gli Stati Uniti vengano progressivamente estromessi da quell'area.

Concludendo, rimane da dire ciò che gran parte degli osservatori non hanno recepito: il pericolo non deriva unicamente dalla persistenza o dall'allargamento del conflitto in Bosnia Erzegovina, ma dall'insipienza statunitense, qualora questa arrivasse, con l'utilizzo della NATO, a minacciare la integrità territoriale russa, rivoltando, così, il coltello nella ferita (prodotta dalla sconfitta politico/militare serba) inferta all'orgoglio degli Slavi del Sud. Una tale prospettiva, che richiamerebbe alla guerra etnico-religiosa gli Slavi ortodossi, sarebbe ben peggiore di quelle del '13 e del '18. In tal senso il «concerto» politico tra Paesi euro-occidentali, Germania e Russia, emarginando al contempo gli Stati Uniti dal contenzioso economico, politico e militare del nostro continente, è l'unica via d'uscita possibile.

Può sembrare un ragionamento brutale, ma è evidente che un prolungamento della ingerenza americana porterebbe ad uno scontro con la Russia e i suoi potenziali alleati. Solo Russi e Tedeschi sono in grado di stabilizzare l'Europa sud-orientale. E solo la Germania può coinvolgere, se è diventata abbastanza «sapiente» per farlo, in questa prospettiva gli altri Paesi dell'Unione Europea, in primo luogo Francia e Italia.

Se si continuerà ad avallare le stupide scelte degli USA nel prossimo futuro, alla Russia, ove per la stella di Eltsin sembra giunta l'ora del tramonto, non resterà che dare fiato alle trombe panslaviste ed ortodosse.

Sarajevo, a quel punto, sarebbe qualcosa di più serio di una semplice coincidenza.

 

Giovanni Mariani - Luigi Costa

 

 

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