da "AURORA" n° 30 (Novembre - Dicembre 1995)

OLTRECONFINE

In giro senza meta

Vito Errico

Partono. Sì, «piume al vento e fanfare in testa» li mandano nelle fornaci della Bosnia. Qui non ci sono madri che possano infastidire. È una Brigata di volontari, gente che ha firmato il biglietto d’ingaggio anche con la morte. Perché vanno? Non possono chiedere ragioni, non hanno alcun diritto di chiederlo. Hanno solo il dovere di andare.

S’è capito, questo è il destino d’un paio di migliaia di uomini che una ciurma di politicanti senza governo ha deciso di inviare nei boschi dell’Erzegovina ad «interporsi» alle bande slave, tutte dedite alla loro naturale occupazione, quella di scannare il vicino.

Triste destino, questo della Brigata Garibaldi. Quei soldati vanno lì nel disinteresse generale, mentre l’Italia è tutta presa a discutere sul «grande» problema elettorale, nel pieno esplicarsi della commedia delle parti, con le segreterie dei «poli» che vogliono tutto e il suo contrario e la cancelleria del Quirinale che a volte accelera e subito dopo frena.

Sono duemila figli nostri che partono vivi e non sappiamo come torneranno; eppure non c’è alcuno che sia lì a sollevare un’eccezione.

Tace il pacifismo di sinistra. Da quelle parti alligna ancora la pericolosa illusione d’un mondo irenico, frutto soltanto dell’immaginazione, come attesta a profusione la storia del genere umano.

Non si pronuncia il pacifismo cattolico. Non può, dopo che il Santo Padre ha invocato la «guerra giusta» nell’altrettanto pericolosa illusione che ogni uomo è fratello del suo simile.

È muta la destra. Forse da quelle parti si nutre ancora la folle idea del ritorno nell’«orlo della toga romana».

Tutto è silenzio mentre l’angoscia comincia ad avvolgere i cuori di quelle madri, alle quali bisognerà spiegare, se la cattiva ventura dovesse graffiarle, perché quel sangue è scorso. Avranno l’impudenza di dire che i loro figli sono morti per la Patria? Oppure per la pace? E chi restituirà la pace a quei cuori infranti? Flebili preoccupazioni, fantasticherie romantiche fuor di logica. Per la Ragion di Stato un morto, dieci morti, dieci milioni di morti hanno la stessa valenza. Pur se in questo caso si fatica a comprendere quale sia questa «ragione».

Gli Americani ne hanno una. Clinton finge di subire il suo Parlamento. Gli States in verità devono intervenire in Bosnia per soddisfare le richieste di Re Fahd dell’Arabia Saudita, che preme in difesa dei «fratelli» musulmani. Clinton non può negligere quelle richieste. Gli interessi politici e geo-economici che si sviluppano nello scacchiere medio-orientale sono vitali per gli USA, che nel contempo non possono abbandonare l’Europa, pena il declino della loro potenza.

Anche i Francesi hanno una ragione. Con l’intervento in Bosnia e dopo aver tacitamente avallato le pretese di Belgrado sulla costituzione della «Grande Serbia», essi tendono a bilanciare la critica situazione creatasi in Algeria, dove un golpe militare appoggiato da Parigi bloccò l’avanzata democratica dei fondamentalisti islamici. Cioè, con la corsa in favore di Sarajevo si fa «pari e patta» per l’incidente di Algeri.

I Tedeschi non sono da meno. Ormai la «germanizzazione» dell’Europa è un fatto che si acclara ogni giorno di più. Il ruolo egemone, che svolge la Germania in Europa, la porta a schierare le truppe in difesa degli interessi di Croazia e Slovenia, che costituiscono lo sportello privilegiato dei Teutoni nelle terre da conquistare al suono tintinnante del marco.

Quel che non si riesce proprio a comprendere è la «ragione» dell’Italia. Non sarà per caso il triste ripetersi del «pugno di morti», come il biglietto da pagare per assidersi nel «palco delle Autorità»? Insomma: che cosa andiamo a fare in Bosnia?

Cassiamo subito un pericoloso equivoco dialettico. Quando si approntano battaglioni e reggimenti, la pace non c’entra. I soldati servono per fare la guerra. Tutt’al più per prevenirla. Ma la prevenzione, in questo caso, è sempre un’operazione armata, che nulla ha da spartire con abbracci di fraternità. Il fucile è uno strumento di morte. La guerra, insegnava Clausewitz, è la continuazione della politica con altri mezzi.

Il grosso guaio dell’Italia è rappresentato dal fatto che non ha una politica. E se non l’ha per l’interno, figurarsi per l’estero, dato che è dalla fine dell’800 e con le guerre coloniali che la politica estera regola quella interna.

Fino all’89, in un mondo rigidamente diviso in due, abbiamo avuto un piede in più scarpe, filo-israeliani e filo-palestinesi, filo-occidentali con tendenze terzomondiste, abbiamo tirato a campare, chiusi com’eravamo nel ruolo di pedina del grande scacchiere disegnato a Yalta.

Dopo l’89 è stato come se la nostra schizofrenia fosse esplosa in tutta la sua virulenza. Abbiamo cominciato a mandare soldati dai deserti dell’Irak alle savane del Mozambico, dalle sabbie della Somalia alle pietraie del Kurdistan, dalle catene montuose dell’Albania alle foreste della Cambogia. Finora c’è andata fin troppo «bene»: qualche morto, di cui non c’è più memoria. S’è plaudito a questo correre senza meta. S’è detto che la storia si rimetteva in cammino ed era giusto che anche l’Italia ricominciasse ad avere un ruolo.

Però è passato troppo tempo e quel «ruolo» fatica ad affermarsi, oltre che comprendersi. Un po’ per motivazioni esterne, di più per cause interne. Il nostro livello infimo si tocca meditando sul dato che l’Operazione Bosnia abbisognerà d’un aggiunto fiscale, al quale dovremo piegarci. Questo costituisce prova provata dell’inesistenza d’un progetto di politica militare. Se siamo arrivati al punto che i Capi di Stato Maggiore, nella stragrande maggioranza dei casi frutti di una attenta e supina acquiescenza al potere, ormai gridano l’inefficienza delle Forze Armate, è segno che s’è toccato il fondo. Sembra cogliere in quella denuncia una presa di distanza da responsabilità terribili che attendono dietro l’angolo. È come se dicessero: noi dobbiamo ubbidire agli ordini del potere politico. Se però le cose si mettessero male, non chiamateci in causa perché noi ve l’avevamo detto che senza scarpe e a piedi si può stare tutt’al più in casa ma non si può uscire nelle bufera della storia. Qual’è il riscontro? Il sorriso melenso di Susanna Agnelli, passata dai vestiti alla marinara alle stanze della Farnesina.

A questo punto è d’uopo una presa di posizione. Va bene che all’estero si mandano i «volontari». È la scorciatoia inventata dalla politica mercantilistica che tratta la vita degli uomini come comune merce da bancarella di mercato. Io ti pago, tu vai dove ti ordino e, se del caso, muori perché ciò è previsto dall’ingaggio. Miseramente si annulla la considerazione fondamentale che in generale ogni soldato deve credere, come ogni uomo, in quel che fa per rendere appieno. Però anche quei volontari sono cittadini che hanno diritto ad una spiegazione. Il potere non la concederà. Farà credere loro d’essere legionari d’una civiltà immortale. Invece costituiscono soltanto l’avanguardia d’una congeria di genti che non sa ritrovare la dignità di dirsi popolo.

Vito Errico

 

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