da "AURORA" n° 30 (Novembre - Dicembre 1995)

TRA STORIA E CRONACA

 

Giro d'orizzonte

Babeuf

 

Bottai, Gentile, la Guerre d'Etiopia. Ecco gli argomenti scottanti che sembrano impegnare in questi mesi certa sinistra conformista. Pare quasi che tali tematiche siano più importanti di tanti problemi sociali irrisolti.

Punto di riferimento di questo inquisitoriale allarmismo è, manco a dirlo, "il Manifesto" (più ancora de "l'Unità" e/o "Liberazione"), quotidiano, intendiamoci, non sempre negativo, soprattutto nell'ambito della politica internazionale, a volte persino antimondialista. Tanto è vero che, nel corso della Guerra del Golfo, fu definito, dall'alfiere dell'occidentalismo di sinistra e galoppino di Agnelli-De Benedetti, dottor Giorgio Bocca, con l'appellativo di «giornale repubblichino». Non trascurabili erano poi gli inserti domenicali de "il Cerchio quadrato", ove intellettuali come Revelli, Gentiloni, Ida Dominianni ecc., trattavano tematiche come il solidarismo e il comunitarismo e dove, il primo, arrivò a parlare di «anima mercantile della sinistra».

Naturalmente, da molti mesi l'inserto è stato soppresso, per dar spazio alla pubblicità del «144» e alle peggiori sottopellicole hollywoodiane (esaltate dal Silvestri), alla venerazione della cantante Madonna e ai «telefoni» gay. Verrebbe da pensare che qualche potente lobby si sia progressivamente impadronita del Quotidiano di via Tommacelli, per trasformarlo a proprio uso e consumo; restringendolo nelle pastoie di un antifascismo conformista e di bassa lega e piegandolo all'esaltazione del modello di sviluppo liberaldemocratico occidentale ed individualista.

Ma veniamo agli argomenti «scottanti».

Giuseppe Bottai, nella sue veste di fascista «eretico» e «critico», fu già rispolverato agli inizi degli Anni Ottanta, proprio dalla sedicente «sinistra» liberaldemocratica. Sul quotidiano di Eugenio Scalfari, ad esempio, si poneva in evidenza la sua liberalità nel campo dell'arte e della cultura diversamente dalla maggioranza dei gerarchi. Erano gli anni in cui a Milano si teneva la riuscitissima "Mostra degli Anni '30".

Anche "Rinascita", riconosceva al Bottai il merito di aver contribuito, con la sua «anomalia», al formarsi della «fronda» interna al fascismo (soprattutto nei GUF) per cui tanti giovani, ancora prima del 25 luglio '43, pur rimanendo all'interno delle organizzazioni fasciste, sottoscrivevano (compresi persino ufficiali della Milizia) offerte per la clandestina "l'Unità", che nella rubrica "Segnalibro", tra i testi consigliati ai militanti del PCI, indicava alcuni libri di Bottai (consiglio ai novelli Torquemada di via Tommacelli di verificare la cosa personalmente richiedendo alla TETI, editrice de "Il Calendario del Popolo", il reprint anastatico de "l'Unità" clandestina, stampato alcuni anni or sono). Se ciò non bastasse li invito alla lettura del libro di Nando Briamonte "La vita e il pensiero di Eugenio Curiel" (Feltrinelli, '79) in cui si parla di un incontro semi-clandestino dello stesso Bottai con un gruppo di antifascisti di sinistra, tra i quali il pensatore e rivoluzionario triestino che, fino al '38, militò attivamente nei gruppi Universitari Fascisti.

Anche la sinistra cattolica ha un'origine bottaiana. Tra i cosiddetti «fascisti critici» di quest'area v'era Giovanni Papini con il suo cenacolo che intravedeva nell'interpretazione bottaiana del corporativismo (più che in quella di altri) riferimenti alla «dottrina sociale» della Chiesa. È vero che il gerarca in un primo tempo si era schierato per la proprietà privata, capitalisticamente intesa, ma poi aveva rivisto le proprie posizioni ed aveva instaurato stretti contatti con l'ala socialista-nazionale ed anticapitalista del fascismo (ad es. Ugo Spirito). Tra gli intellettuali cattolici formati dal Papini spiccano: Giorgio La Pira, Aldo Moro, Amintore Fanfani e, in parte, Dossetti e Rodano. Nel dopoguerra gli eredi spirituali di Papini (oltre ai già citati) Lorenzo Milani, Ernesto Balducci, don Borghi e don Ernesto Mazzi, ispiratore dell'«Isolotto» di Firenze, si separeranno.

La «destra» papiniana formerà intellettuali come Attilio Mordini, Primo Siena e, più recentemente, Franco Cardini che, dalle pagine del "Sabato", in occasione della morte del «progressista» Balducci, riconobbe la comune origine culturale di questo gruppo, suscitando le ire dei cattolici più bigotti.

Ritornando al Bottai, Giordano Bruno Guerri nella prefazione ai "Diari" del gerarca, ricorda che nel dopoguerra questi teorizzò un movimento politico che raggruppasse cattolici, fascisti e comunisti. Anche il voto di Bottai al Gran Consiglio del 25 luglio '43 si differenziò, come quello di Cianetti, da quello degli altri gerarchi, in maggioranza conservatori, monarchici, para-liberali e anglofili. La sua era una dissidenza «di sinistra».

Posso anche capire che molti dei lettori di "Aurora" ce l'abbiano con Bottai, non meno, anche se per motivi opposti, di quelli de "il Manifesto". Ma personalmente mi premeva analizzare obiettivamente e storicamente il personaggio, dopodiché ognuno tragga le conclusioni che crede.

E veniamo a Giovanni Gentile. Il Filosofo di Castelvetrano era di formazione hegeliana, esattamente come il liberale Benedetto Croce e come Karl Marx, tant'è vero che non pochi neo-fascisti odiano Gentile in quanto hegeliano -anche se non possono non ammirarne la coerenza e la fedeltà alle proprie idee fino al sacrificio supremo-, ne criticano aspramente le teorie filosofiche che, invece, trovano largo consenso in ambito liberale, democratico, socialista e persino comunista.

È Massimo Cacciari che rileva come e quanto Giovanni Gentile abbia influito sulla parte terminale della riflessione gramsciana, segnatamente sui "Quaderni dal carcere" del pensatore di Ales. E il «gentilismo» di sinistra permarrà anche durante il dopoguerra nel PCI di Togliatti. Anzi si può affermare che tutta l'esperienza di "Rinascita" sarà improntata di cultura gentiliana e la rivista si preoccuperà spesso di distinguere tra le teorie filosofiche del Gentile e le conseguenze delle sue scelte politiche. E saranno gli intellettuali «azionisti» a lamentarsi (anche quando fanno scelte apparentemente marxiste-leniniste, com'è nel caso di Ludovico Geymonat) che «la sinistra italiana è ancora troppo gentiliana».

La confusione è tale che, recentemente, in una lettera pubblicata dal settimanale "Avvenimenti", si sosteneva che Giovanni Gentile approvò, senza esitazioni le leggi razziali e fu un tenace antisemita. Dispiace contraddire questi giovani emotivi, che così poco conoscono la Storia, ma Gentile fu tra coloro che si opposero alla emanazione dei provvedimenti antisemiti e questo è sempre stato riconosciuto anche dagli storici antifascisti.

Ci sarebbe da aggiungere ancora, che se è vero che gli esecutori materiali del suo assassinio furono comunisti dei GAP, i mandanti erano altri: i banchieri della City di Londra (gli stessi che tanto piacciono oggi a Fini, Occhetto, D'Alema e Veltroni). Fu grazie a Gentile che in seno al fascismo si svilupparono gruppi di pensiero come la "Scuola di Pisa", il massimo esponente della quale Ugo Spirito aderì nel dopoguerra, anche se per un breve periodo, al Partito Comunista, ed intellettuali del livello di Stanis Ruinas, Giorgio Pini e tanti altri. Inoltre, "il Manifesto", dimentica che qualche anno addietro, quando fu pubblicata l'opera completa di Giovanni Gentile, ne ospitò la pubblicità in prima pagina.

E veniamo alla Guerra d'Abissinia. Il prof. Angelo Del Bocca è da sempre tra i tenaci accusatori, non solo del fascismo, ma dell'intero popolo italiano per quanto riguarda i mezzi bellici in tale guerra utilizzati. "Il Manifesto" non poteva non cogliere anche questa occasione per far salire il nostro popolo sul banco degli imputati. Personalmente non ho mai approvato il colonialismo. «Tutto» il colonialismo, di qualsiasi nazione.

Ora è necessario tenere a mente che il '25/'37 è il periodo nel quale il regime fascista è maggiormente legato alle logiche occidentaliste e quindi allo spirito imperialista del capitalismo. La «socialdemocrazia autoritaria», come direbbe Amedeo Bordiga, si era andata evolvendo in liberal-clerico-democrazia. In fondo l'Italia, persegue durante il fascismo la stessa politica coloniale propria allo Stato liberale crispino e giolittiano. Furono, infatti, i governi liberali a calpestare per primi, l'autodeterminazione dei popoli, pervasi dalla mania «tutta illuministica» di «rendere civili gli altri». Analizzando i fatti da un punto di vista «tradizionalista» (non è il mio caso), non dobbiamo dimenticare che in Etiopia era al potere una monarchia «di diritto divino» (con un sovrano che si voleva discendesse da Salomone e dalla Regina di Saba) sostenuto da una religione, quella copta, che tanti punti in comune ha con l'ortodossia bizantina e russa.

Per distruggere questo Impero, l'Italia usò mezzi e metodi del peggiore occidentalismo, illuminista e «democratico», già utilizzati da Francia e Gran Bretagna, Olanda e Belgio, nella loro espansione coloniale. Ma ad essere criminalizzato, stranamente, è unicamente il fascismo. Del quale non si intendono negare le responsabilità, che furono certo molto meno gravi di quelle delle nazioni democratiche e che vanno allargate anche a settori dello Stato italiano che fascisti non erano.

Esaminiamo le responsabilità degli «a-fascisti». Innanzi tutto quella dell'Esercito, diretto da uno Stato Maggiore (soprattutto Badoglio) di estrazione subalpina, degno erede di Bava Beccaris che, effettivamente lanciò i gas contro gli Etiopi, come il «Barotto» astigiano aveva lanciato granate contro chi chiedeva pane (anni fa, alcuni vecchi compagni del PCI affermarono, durante un dibattito, che i reparti del Regio Esercito si comportarono di gran lunga peggio delle Legioni di "camice nere", non solo in Africa, ma anche in Spagna, Grecia e Jugoslavia).

E il Vaticano? Non dobbiamo dimenticare che nella logica della Chiesa di Roma i Copti erano eretici di scuola monofisita e, siccome il cattolicesimo ufficiale ha sempre avuto la pretesa di avere la verità in tasca e di essere l'unica e perfetta forma di cristianesimo, non si doveva avere alcuna pietà per gli «eretici». Ricorda Giorgio Pini, in una sua prefazione ad un libro sulla Guerra d'Abissinia, riferendosi all'atteggiamento di un cappellano militare che incitava allo sterminio di massa urlando: «non dovete avere timore ad uccidere questi eretici»; «quelle non erano le parole di un sacerdote cristiano, ma di un fanatico inquisitore medioevale ...».

Questo significa che non tutti i fascisti (ma allora chi non lo era, almeno in linea teorica!) erano d'accordo con le stragi, in quanto sulla fede fascista di Giorgio Pini non è consentito a nessuno dubitare!

E veniamo alle Comunità israelitiche, non ancora colpite dalle Leggi razziali. Qual'era il compito del dottor Carlo Alberto Viterbo al seguito delle truppe italiane in Abissinia? Attenzione, questa non è fantastoria, in quanto la figura del Viterbo è stata celebrata da tutta la stampa «ebraica», da quella conservatrice a quella «illuminata», che ha dipinto il suo soggiorno, in Africa Orientale, come un fatto normalissimo.

Il Viterbo, legatissimo alla monarchia sabauda, si era recato in Africa con l'obiettivo di convincere le tribù Falasha (Ebrei neri, al tempo perfettamente e pacificamente integrati con le altre popolazioni etiopi. Si sa, un impero «organico» rispetta sempre le minoranze etniche e religiose. Il mongolo e pagano Gengis Khan aveva vassalli Musulmani, Cristiani, Ebrei e Zoroastriani) a convertirsi al sionismo ed a cooperare con gli Italiani, primo passo verso il ritorno alla «terra promessa». Ma il Viterbo, che aveva non pochi interessi nella guerra coloniale, ebbe scarso seguito. Quando, poi, Israele fosse «terra promessa» i Falasha lo constateranno in prima persona negli Anni Settanta, quando emigreranno (dopo la caduta del Negus) a Tel Aviv e a Gerusalemme e verranno trattati in modo affatto diverso dai «paria» Palestinesi.

Non prendiamo in considerazione, poi, gli interessi degli industriali, FIAT in testa, delle Banche e degli Istituti Immobiliari e Finanziari, lo spazio non lo consente.

Quando l'impresa etiopica si concluderà vittoriosamente, riscuoterà il consenso di tutte le forze politiche: da Benedetto Croce a Palmiro Togliatti, insomma di tutto l'occidentalismo italiano fuoriuscito e non. A questo punto vi sarebbe da chiedersi come mai la democraticissima e super-liberale Inghilterra chiese alla Società delle Nazioni di punire con le sanzioni commerciali l'Italia, che di altra colpa non si era macchiata se non di quella di avere fatto in ritardo quanto il Regno Unito aveva fatto iniziando tre secoli prima? Un'Italia che, in quel momento, era strettamente legata a Londra ed agli Stati Uniti, tantoché non pochi fascisti definivano la modernizzazione attuata dal Regime «il nostro americanismo»!

Quanto al comportamento delle truppe italiane è sbagliato generalizzare. Ciò che sostiene Montanelli sull'umanità (e civiltà) del soldato italiano (a differenza di quello inglese) è ormai riconosciuto un po' da tutti, compresi gli antifascisti. Il partigiano Isaac Nhaum, riferendosi ad un suo viaggio in Congo negli Anni Sessanta scrive: «(...) Le popolazioni africane non ci odiavano. Sapevano che noi italiani in Africa non c'eravamo comportati come Francesi ed Inglesi (...)» (da "Memorie di un comandante partigiano", Ed. La pietra, '80). Ed il Nhaum, pur essendo di origini ebree era visceralmente antisionista a causa del suo rigido ed intransigente marxismo-leninismo. Anche Vittorio Foa, sulle pagine de "l'Unità", alcuni anni or sono, si disse perfettamente d'accordo con le tesi del Montanelli.

Sarebbe bene, in un momento in cui i problemi sociali si dilatano a dismisura, occuparsi di cose più concrete e meno strumentali. Questo vale per i compagni de "Il Manifesto" come per l'ex-alpino della "Monterosa" e, poi, partigiano cattolico (ogni scelta è rispettabile) Angelo Del Boca.

 

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