da "AURORA" n° 31 (Gennaio 1996)

L'APPROFONDIMENTO

Il Meridione come entità politica

Francesco Moricca


«Il mafioso di un tempo era un fiore spuntato passando attraverso la merda.
Oggi la merda pesa troppo e il fiore non può più spuntare. Forse domani ...»

Anonimo
tradotto dalla forma originaria in dialetto reggino


«(Il popolo napoletano) credeva un sacrilegio attentare al suo sovrano,
ma credeva che un altro sovrano potesse farlo, usando di quello stesso diritto»

V. Cuoco 
"Saggio storico" - edizione anno 1806 pag. 131


La rilevanza geopolitica dell'ex-Regno delle Due Sicilie (i cui confini non per caso restano pressoché invariati durante una storia plurisecolare) balza all'occhio già da un esame sommario dei sei diagrammi che si sono preparati quali integrazione del presente saggio, sulla scorta dell'"Atlante storico mondiale" dell'enciclopedia geografica "Cosmo" edita dalla De Agostini di Novara nel 1984.
Dal confronto delle fig. 1-2-4, si osserva una innegabile costanza delle direttrici e funzioni geopolitiche che trova conferma nelle fig. 5 e 6. Come ai tempi di Federico II di Svevia (fig. 1), anche oggi il Sud Italia rappresenta il fulcro di una azione «restauratrice», epperò in senso diametralmente opposto allo spirito imperiale e romano che fu già del Barbarossa. Mentre nella fig. 5 si osserva la perfetta centralità geografica del Sud Italia nel planisfero mondiale (il cui corrispettivo «politico» è dato dalla presenza del potere mafioso, erede degenere del baronaggio medioevale oggi, a differenza che in passato, colluso e non antagonista con la «restaurazione imperiale» anglo-statunitense), nella fig. 6 sono da rilevarsi:
1) la centralità del Sud Italia (con l'«enclave» bosniaca) fra le due ali del sistema difensivo americano in Europa, costituite da una parte dall'Inghilterra e, dall'altra, da Turchia ed Israele;
2) la centralità della Serbia tra Francia e Russia, che potrebbe avere una funzione equilibratrice sia nei rapporti franco-germanici con la Russia, sia nei rapporti di tutta l'Europa col blocco americano, sia, ancora, fra i Paesi della ex-Jugoslavia, e sia, infine, per una più intraprendente politica italiana nei Balcani.
Da rilevare l'importanza dell'Albania, sia come «porta» dell'Adriatico, sia come entità geopolitica che si interpone fra il blocco franco-germanico e quello americano, a condizione, ovviamente, che l'Italia conservi la sua unità territoriale e sappia emanciparsi dalla sudditanza al blocco americano, mediante un deciso avvicinamento a quello franco-germanico, dove certamente avrebbe un peso nella misura in cui non si ripetessero gli «errori» a cui è stata per il passato costretta come Paese «a sovranità limitata». Nella fig. 5 è evidenziata la rilevanza geopolitica, ai fini del blocco franco-germanico, del Quèbec e di Cuba, che costituiscono elementi potenziali di destabilizzazione dell'America Settentrionale e Centrale.
La fig. 3 mostra come nel Viceregno e in Spagna non esistessero centri finanziari e dunque una vera borghesia mercantile, cosa che fu sottolineata da Croce, e che a me sembra rendere ragione di quelle che potrebbero essere le vere cause dell'«arretratezza» del Regno, sulla quale tuttavia vi sarebbero da levare fondate obiezioni esaminando, nella stessa fig. 3, il quadro dello sviluppo industriale fra il 1550 ed il 1775.
In realtà, a me pare che una simile «arretratezza» fu determinata proprio dall'importanza geopolitica del Viceregno, che richiedeva, come per la Spagna, una economia «di sussistenza» e «di guerra», subordinata alla preminenza della Chiesa e dell'esercito, sebbene sia da ricordare che anche durante il Viceregno non esisteva a Napoli l'Inquisizione cattolica.
Nel Cinque-Seicento una parte consistente e molto agguerrita dei «tercios» spagnoli era costituita dai «battaglioni» napoletani. Sotto Napoleone, il soldato napoletano rivelerà ancora le sue eccezionali doti, quando, come sostiene il De Cesare, sarà al comando di ufficiali ideologicamente motivati ed efficienti. Ciò, nonostante tutto, sarà confermato all'assedio di Gaeta e, durante il secondo «brigantaggio», alla battaglia di Barile, da «capimassa» come Carmine Crocco. Doti «militari», quanto a destrezza, decisione, spietatezza, non possono negarsi alla stessa mafia.


La Questione meridionale oggi

Caratteristica comune della letteratura meridionalistica, di sinistra e di destra, è il trovare l'origine della Questione nel costituirsi dello Stato unitario. Per gli autori di ispirazione liberal-marxista, l'unificazione sacrificò le aspettative delle classi subalterne e gli interessi medesimi dei ceti «illuminati» meridionali allo sviluppo del Nord, che poteva così conoscere la rivoluzione industriale e i vantaggi ad essa comunque connessi in termini di «civiltà»; mentre lo sviluppo delle regioni appartenenti all'ex-Regno delle Due Sicilie, che al momento dell'unificazione era ragguardevole, subiva un forzato arresto e una involuzione verso forme «arcaiche», pericolosamente disgregatrici della società, con la trasformazione della mafia e della camorra da elemento di supporto del potere dei ceti dominanti aristocratici e borghesi, in centro del potere effettivo colluso con la classe dirigente del Nord. La malavita, in tal modo, diventava organica a sistema politico «nazionale» quanto disorganica rispetto alle attese della società reale del Meridione. Gradatamente e inarrestabilmente, essa imponeva un proprio modello «culturale». 
Da qui la tesi del Risorgimento come rivoluzione «mancata» e «tradita», fino alle recenti letture in chiave sociologico-politica dell'Arlacchi. I meridionalisti di destra (e i più notevoli -a parte Giustino Fortunato- non sono propriamente storici e politici: si pensi al Verga, al principe Tomasi di Lampedusa, a Carlo Alianello) non si discostano da questi giudizi se non per il diverso orientamento delle loro idee. Per loro il Risorgimento fu un fatale quanto inutile accadimento, che ebbe luogo tramite l'usurpazione dei legittimi sovrani attuata con la complicità di un altro legittimo sovrano, e che aggravava, anziché risolvere, i pre-esistenti problemi.
Come fenomeno culturale prima che politico, il meridionalismo presenta un sottofondo genericamente protestatario, pertanto tendenzialmente qualunquista. Grazie alle fortune storiche della sinistra e allo spessore di autori come Salvemini e Gramsci, questo sottofondo fu come coperto, e per così dire «congelato». Nei migliore dei casi fu strumentalizzato con successo, in lotte politiche che però, com'è il caso dell'occupazione delle terre nei primi Anni Cinquanta, non avevano né potevano avere un esito positivo e che servirono soltanto a minare gravemente le oggettive potenzialità dell'agricoltura meridionale e rispondevano agli interessi immediati del PCI che ben sapeva, fin dalla «svolta di Salerno», che in Italia la rivoluzione era impossibile. Come del tutto impossibile, dato l'esito del Secondo conflitto mondiale, era applicare l'idea gramsciana di unire, in un unico fronte di «rivoluzione nazionale» gli operai del Nord e i contadini del Sud. Questi ultimi potevano essere solo, e lo furono, sradicati e trapiantati come operai nelle fabbriche del Nord.
Da ciò la disillusione, la rinuncia, il vittimismo, che sposandosi col qualunquismo diedero luogo ad uno spregiudicato opportunismo di massa, incoraggiato dalla Democrazia Cristiana, che aveva nel Sud «assistito» il suo maggior serbatoio di voti, capillarmente amministrato dal potere mafioso. Questa l'origine, la psicologia e l'antropologia della «cultura» mafiosa che si afferma nelle società che hanno subito traumi storici di rilevante entità. Ciò che è accaduto nell'Italia meridionale sta ora accadendo nei Paesi dell'ex-Unione Sovietica e accadrà sempre con puntuale regolarità date certe condizioni. 
Fatti come quelli della «rivolta» di Reggio, di cui oggi cominciano ad intravedersi le dinamiche vere, al di là delle interpretazioni di comodo più o meno sessantottesche, dimostrano che in una società disgregata l'organizzazione mafiosa è in grado di controllare la protesta popolare e di strumentalizzarla ai propri fini persino nelle sue istanze più condivisibili. Ma, più ancora, sono la spia dei limiti intrinseci e dell'alta pericolosità del sottofondo genericamente protestatario che caratterizza la storia del Sud post-unitario, e del quale la cultura e l'azione del meridionalismo sono, a ben guardare, insieme specchio e maschera.
Il Sud è oggi una polveriera proprio per questo: perché il meridionalismo ha finito col giustificare l'assistenzialismo. Certo, non poteva fare altro, ma sarebbe stato sufficiente che almeno lo dicesse «apertis verbis», indicando la necessità di prospettare soluzioni diverse da quelle fornite per fini esclusivamente elettoralistici dai vari partiti, senza visione d'insieme e soprattutto senza prevedere cosa sarebbe successo, ed è successo, quando «ragioni di ordine superiore» avrebbero decretato non solo la fine dell'assistenzialismo, ma anche la fine dello Stato sociale.

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Si impone, pertanto, una profonda revisione delle tesi meridionalistiche, a cominciare dall'idea che la Questione ebbe inizio con l'Unità d'Italia. Da ciò dipende la possibilità teorica di non ripetere gli errori della politica meridionalistica, errori che nel dopoguerra furono commessi da chi esercitò il potere, ossia dal blocco catto-comunista, definito eufemisticamente «centrosinistra». Il meridionalismo di destra, con le sue inclinazioni «filo-fasciste» e col suo rispettabile quanto pericoloso nostalgismo borbonico, se ebbe un ruolo politico modestissimo per il passato potrebbe, nell'immediato futuro, averne uno assai più rilevante: e ricalcherebbe i medesimi errori del meridionalismo di sinistra, essendo la sua soluzione della Questione obbligata: o nel senso del federalismo proposto dal Polo della Libertà (che ripristinerebbe la sciagurata politica democristiana), o nel senso dell'indipendentismo perseguito dalla Lega; il quale potrebbe alla fine trovare consenziente il PDS, per i legami consolidati dell'azionismo col capitale del Nord, e atteso che l'opposizione del partito degli industriali all'indipendentismo è condizionata da interessi contingenti, per cui, in una mutata situazione dei suoi rapporti col capitalismo internazionale, potrebbe venir meno.
L'idea che i problemi del Meridione siano stati causati dalla conquista piemontese è vera, in realtà, solo in quanto la Questione esplose in concomitanza di quest'evento. Ma che esso l'abbia determinata dovrebbe escludersi, considerando che, quando anche non si fosse verificato, le condizioni del Sud, con i suoi squilibri aggravati soprattutto da mutamenti geopolitici nell'economia balcanica, è assai dubbio che non sarebbero comunque peggiorate, ovvero che sarebbero di molto migliorate quelle del resto della Penisola.
La decadenza inarrestabile dell'Impero Ottomano, a partire dagli inizi del Settecento, aveva provocato nell'area balcanica una sempre più consistente presenza politica ed economica di Francia ed Inghilterra, interessate a contrastare in quest'area la pressione delle potenze «reazionarie», Austria e Russia. Il Regno di Napoli, la cui floridezza dipendeva non poco dal commercio con l'Oriente, non potè non esserne penalizzato. Non avendo la forza politica per opporsi a Francia ed Inghilterra, divenne succube dei loro contrasti fin dai tempi di Napoleone I. Pure il Regno aveva conosciuto nel Settecento il riformismo più avanzato e coraggioso fra gli Stati italiani, sia nel campo della ricerca (Giannone, Genovesi, Galiani, Filangeri), sia nel campo dell'azione (soppressione della Compagnia di Gesù, abolizione dei diritti feudali della Chiesa sullo Stato, lotta al prepotere baronale in Sicilia, potenziamento della marina mercantile e da guerra).
Lo spirito militare della nazione napoletana era stato esaltato sotto Gioacchino Murat e la cavalleria napoletana aveva travolto quella cosacca alla Beresina, sotto gli occhi di Napoleone, spianandogli la via del rientro in Francia. Ancora Gioacchino Murat, col Proclama di Rimini, s'era fatto primo promotore dell'Unità italiana, e saranno suoi ufficiali (i tenenti Morelli e Silvati) gli esecutori del primo moto per l'Indipendenza (Napoli 1820). Nonostante il riformismo avesse avuto una battuta d'arresto nell'età della Restaurazione, con la ripresa del più «coriaceo» e «retrivo» feudalesimo di marca angioina, il fiorentino Zuccagni-Orlandini (1784-1872) scriveva nella sua "Corografia" del 1845:
«Notabilissimi progressi ha fatto il Regno delle Due Sicilie dal 1830 in poi nei differenti rami d'industria manufattrice (...) che danno occupazione ad un estesissimo numero di persone in tutto il regno, ove i soli addetti alle arti meccaniche formano nel 1834 oltre un diciassettesimo della popolazione». Né è da dimenticare che il primo piroscafo a vapore fu varato a Napoli nel 1818, che la prima ferrovia italiana fu costruita nel 1839 per collegare la Capitale a Portici, che le acciaierie di Torre Annunziata e di Mongiana (Catanzaro) erano in grado di produrre tutto l'armamento occorrente all'esercito. Laddove la proprietà fondiaria era passata nelle mani della borghesia «illuminata» sotto i Napoleonidi, e vi era rimasta nonostante la Restaurazione, si era iniziata con qualche successo l'introduzione delle moderne tecniche di coltivazione.
Benedetto Croce apparteneva proprio a questa borghesia «illuminata», erede del grande riformismo settecentesco e fautrice convinta quanto decisa dell'Unità italiana (per quanto il Croce si ostinasse a negare questa sua appartenenza, io credo solo per sottolineare la presunta «novità storica» del suo liberalismo a fronte del dispotismo illuminato). L'atteggiamento della aristocrazia illuminata circa l'Unità e le forme tattico-strategiche dell'unificazione, non può essere solo valutata dall'espressione estremistica che assunse nel mazzinianesimo «socialisteggiante» di Carlo Pisacane, per il quale l'autentico cemento della coscienza nazionale di un popolo è dato dall'esperienza della guerra che esso combatte per la propria liberazione, inquadrato nella salda gerarchia (plebiscitariamente eletta) di un esercito ordinato secondo schemi tradizionali di disciplina militare, in cui l'ufficiale ha i caratteri propri dell'originaria aristocrazia medioevale, secondo uno spirito legionario ante litteram che teorizzava la «nazione armata», rispolverata poi dal socialista Jean Juarès in Francia a dagli interventisti di sinistra (Mussolini, Corridoni, Alceste De Ambris), in Italia nei mesi precedenti il Primo conflitto mondiale.
Non va pertanto considerata come deviante rispetto all'ortodossia mazziniana, o più semplicemente ingenua e velleitaria, la petizione che, poco prima di essere giustiziati nel vallone di Rovito, i Fratelli Bandiera inviarono a Ferdinando II affinché si mettesse a capo del moto per la Indipendenza (1844).

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Dopo il 1861, e nonostante dolorosissimi eventi (dall'eccidio di Bronte al brigantaggio, alla biblica emigrazione nelle Americhe), non può essere negato ragionevolmente quello che i governi del Regno d'Italia fecero per alleviare i duri sacrifici imposti al Meridione dalla necessità di impiantare al Nord, più vicino al cuore dell'economia europea, la struttura dell'industria nazionale; struttura che doveva essere costruita quasi dal nulla, secondo le dimensioni e i criteri più avanzati, e che, in questo senso, non poteva dirsi esistente né in Lombardia né tantomeno in Piemonte.
L'acquedotto pugliese non fu opera di poco conto, per tacere di quanto fu edificato durante il «famigerato» Ventennio.
Nella depressa Calabria, per fare un esempio che non si può tralasciare, fu bonificata la Piana di Sant'Eufemia (importante, allora, nodo ferroviario), vi si impiantò la redditizia cultura della barbabietola con l'ausilio di coloni veneti per i quali si costruì un attrezzato villaggio e infine impiantato un grande zuccherificio. Cementifici furono costruiti nelle vicinanze, a Catanzaro e Vibo Valentia Marina. Esempio, questo, di una cellula economica funzionale alle immediate necessità di una comunità umana mediamente vasta, ma suscettibile di sviluppo indefinito secondo le opportunità che potrebbero prospettarsi nel futuro.
Di tutto ciò oggi è rimasto ben poco. In compenso, si è costruito il grande stabilimento della SIR rimasto sempre praticamente inattivo. Il «merito» dei successivi governi repubblicani, a maggioranza democristiana (spesso rivendicato persino dagli «oppositori») consisterebbe nell'elevamento della «qualità della vita» in tutta l'area del Mezzogiorno. Il che s'è verificato attraverso la terziarizzazione dell'economia, non tanto attraverso l'assistenzialismo puro e semplice (bisogna rammentarlo al sen. Umberto Bossi), quanto piuttosto attraverso l'industrializzazione e finanziarizzazione della malavita, le quali, da un punto di vista esclusivamente economico e non considerando le loro implicazioni giudiziarie e politiche, sono momenti dello sviluppo di qualsiasi attività economica, anche di quella criminale: tal che la mafia devesi oggi, paradossalmente, ritenere una delle branche del terziario avanzato, la più promettente e capillarmente estesa non solo nel Settentrione ma in tutto il mondo. Traffico d'armi anche nucleari e di droga, taglieggiamento di ogni attività redditizia, usura ed altre pratiche connesse all'investimento del «denaro sporco» indicano che la complicità delle banche e della finanza internazionale costituiscono l'unica spiegazione plausibile dell'«invincibilità» di mafia et similia, della stessa presunta «diabolica intelligenza» degli individui analfabeti e semianalfabeti che ne sono a capo, espressioni di una cultura che è «arcaica» solo nel senso della sua massima degradazione rispetto alla organica cultura contadina.
Mediti su questo il sen. Bossi, che vogliamo credere in buonafede pur diffidando della sua preparazione culturale, ma non di una sua tutta propria intelligenza politica. Certo il suo progetto indipendentista risolverebbe il problema dell'assistenzialismo, ma non certo quello di sradicare al Nord la malavita, che non è fatta solo di meridionali stabilmente residenti o «in trasferta», che impone, non con le sole armi della violenza, ben altro assistenzialismo.
L'espressione secondo cui la mafia è «uno Stato nello Stato» potrebbe in realtà intendersi in altro modo che non quello corrente ed «addomesticato». Poiché l'affermazione del neo-liberismo rischia di cancellare del tutto le prerogative politiche dello Stato (riducendolo a mero gestore di servizi efficienti e rientrando fra questi la stessa difesa degli «interessi nazionali» con un esercito, guarda caso, di «professionisti»), dovrebbe essere oltremodo evidente che, ove certe tendenze del neo-liberismo non vengano in qualche modo poste sotto controllo efficace e al limite energicamente stroncate, quello «Stato» che è in effetti la mafia, che durante la sedicente prima Repubblica è rimasto «entro» lo Stato, verrebbe adesso a coincidere con la forma di Stato che è più funzionale al neo-liberismo e, con buona pace del sen. Bossi, non si sa fino a che punto voglia tutelare la «libertà» dei bravi ed onesti borghesi del Nord.
È proprio certo il Senatore che i piccoli imprenditori padani (che sono stati sempre e potrebbero continuare ad essere indefinitamente la spina dorsale del sistema industriale italiano) non siano per caso destinati a diventare in un futuro prossimo non già «proletari», ma schiavi sempre più inconsapevoli, non necessariamente in grado di permettersi molto meno di quella «qualità della vita», fatta quasi solo di futili agi materiali, a cui sono abituati da «mamma RAI», prima ancora che dal sempre sorridente padrone della "Fininvest", e per difendere la quale da africani e meridionali riempiono le campagne attorno a Pontida?
Anche in una Padania indipendente questi ipotetici «schiavi» si troverebbero addosso i loro «aguzzini». Potrebbero essere ancora meridionali, o della «zona» del Brenta, o maghrebini, o russi, o cinesi. E perché no? Francesi, tedeschi o americani...
Crede il Senatore di potersi fidare dei grandi industriali e dei pidiessini che lo corteggiano e vezzeggiano, anche abbastanza manifestamente nonostante tutto? E perché, gli chiediamo, ha lasciato il Polo? Se l'ha fatto per tutelare l'autentica democrazia popolare, ha fatto bene. Se l'ha fatto perché si fida di più di coloro che una volta chiamava «comunisti», potrebbe essere molto ingenuo, ovvero un troppo avventato giocatore d'azzardo. Se infine l'ha fatto solo per non stare con i «fascisti» troppo sgraditi all'estero, allora è un traditore: prima che della patria italiana, della sua patria lombarda, che lo ha votato nonostante l'alleanza con i «fascisti».
Ma può darsi che allora il Senatore non sapesse come i «fascisti» intendono e sono disposti ad accettare il federalismo. E se non sapeva, guai a chi continua in buona fede a credergli! Può darsi che oggi non sappia nemmeno dove può portarci il suo indipendentismo!

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Tuttavia questo discorso non deve scambiarsi per retorica patriottarda. Si potrebbero addurre le ragioni economiche, storiche e attuali, della idiozia piramidale di una semplice ipotesi di secessione del Nord. Ma si preferisce, invece, invocare le ragioni politiche della nostra recisa condanna al ricatto indipendentista della Lega.
Non solo un'Italia divisa permetterebbe agli Stati Uniti di conservare (con l'appoggio della mafia consolidato da una cinquantennale esperienza) il controllo del centro del Mediterraneo, impedendo a Sud le potenzialità espansive del blocco franco-tedesco entro cui sarebbe compresa la «repubblica del Nord», ma annullerebbe la valenza geopolitica dell'Unione europea quale fu intuita e voluta dai suoi Fondatori in vista di una futura ripresa della centralità dell'Europa sulla scena planetaria (non più intesa in termini imperialistici) dopo la disastrosa conclusione della Seconda guerra mondiale; da cui erano uscite sconfitte non solo le Potenze dell'Asse, ma anche Francia e Inghilterra, e anzi tutti gli Stati europei le cui politiche divennero subalterne e tributarie a Stati Uniti e Unione Sovietica.
Oggi, con la caduta del comunismo, la Russia torna ad avvicinarsi all'Europa. È questo il vero significato della protezione accordata dalla Russia alla Serbia durante l'ultimo conflitto balcanico. Errori che a mio modo di vedere sono stati commessi da Francia e Germania per valutazioni di immediata utilità (e tacendo sulle posizioni di Inghilterra ed Italia prone come al solito innanzi al padrone americano), hanno reso molto più difficile la realizzazione dell'unione politica degli Europei dopo l'imposizione della «pax statunitense» in Bosnia. L'eventuale frattura dell'Unità italiana, che valutazioni di immediata utilità potrebbero indurre Francia e Germania quanto meno a non ostacolare, la renderebbe molto più difficile e lontana.
Una forte presenza degli USA nel Sud Italia e sulla sponda orientale dell'Adriatico taglierebbe in due il Mediterraneo, secondo una linea orizzontale passante per il Canale di Sicilia e una verticale che attraverserebbe l'Adriatico. Si avrebbe come conseguenza l'impedimento di contatti e intese politiche dell'Europa coi Paesi dell'Africa bianca e del Medio Oriente asiatico, soprattutto con Turchia e con Israele, il quale non è detto debba in eterno condividere un indirizzo politico consono agli interessi americani nell'area del Golfo Persico. Per altro verso lo «schiacciamento» della Russia sul confine serbo-bosniaco creerebbe serie difficoltà all'Ostpolitik europea ed al progetto di una grande Europa da Lisbona a Vladivostok.
Ove si accetti questa impostazione, non si potrà non stigmatizzare la strumentalità agli interessi statunitensi, anti-europei quanto anti-italiani, del duro atteggiamento assunto dal governo solo nei confronti degli immigrati albanesi. Un atteggiamento diverso, se non proprio accondiscendente, avrebbe invece dovuto assumersi verso costoro. Ciò avrebbe consentito (con altre iniziative) di «legare» l'Albania all'Italia, secondo una fruttuosa e sperimentata politica perseguita già nei secoli XIV-XV dai sovrani angioini e aragonesi del Regno di Napoli, i quali sostennero contro il Turco l'antemurale albanese e poi accolsero nelle Calabrie, dopo il suo rovinoso crollo, i valorosi superstiti del popolo di Giorgio Castriota Skanderberg. Detta linea politica avrebbe consentito il controllo dell'accesso all'Adriatico, avrebbe permesso all'Italia di rivestire, in questo delicato momento di ridefinizione degli equilibri e dei rapporti internazionali, un ben diverso ruolo in specie nella questione jugoslava: non solo di tutelare, finalmente e sul serio, i sacrosanti diritti degli Italiani di Istria e Dalmazia, ma anche di assicurarci contro presenti e futuri ricatti da parte di Croati e Sloveni.

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Si diceva all'inizio della necessità, oggi ormai inderogabile, di riconsiderare la Questione meridionale in termini del tutto diversi da come fu impostata e si cercò di risolvere dall'Unità alla crisi della prima Repubblica. Si sono forniti argomenti sufficienti di natura storica e geopolitica per dimostrarlo, ponendo nel dovuto risalto come la tendenza che si sta sempre più decisamente affermando, nonostante le assicurazioni in senso contrario del Presidente della Repubblica e della «nuova» classe politica non leghista, sia quella che opera più nella direzione dell'indipendenza del Nord che non in quella del federalismo che, a precise condizioni, ho già detto di condividere e di ritenere la sola realisticamente possibile in uno scritto di due anni fa ("Aurora" n° 17/18). 
Mentre appena un anno fa le posizioni razzistiche del peggior leghismo, riguardo a extra-comunitari e meridionali, sembravano poco diffuse nell'opinione pubblica del Nord, oggi invece si assiste al fenomeno contrario (il che era prevedibile, ma io confesso, non previdi perché non volevo prevedere). Di ciò porta la maggiore responsabilità la «nuova» classe politica, la quale, come la «vecchia», ha continuato, a mio parere intenzionalmente a non legiferare in maniera seria riguardo all'immigrazione. Se i noti meccanismi della «psicologia di massa» hanno avuto modo di agire come agiscono, fuori da ogni consapevolezza e quindi senza che li si possa condannare moralisticamente, la colpa imperdonabile ricade sulla sinistra «progressiva» nel suo insieme, in particolare sui tatticismi e le ipocrisie catto-comuniste.
A quanti del Nord rifiutano d'esser marionette della «psicologia di massa» circa l'umanità in genere e quella dei meridionali in specie, consiglio la lettura della "Storia del Regno di Napoli" di Benedetto Croce, opera in cui un meridionale parla dei difetti e anzi dei vizi dei meridionali con equilibrio spesso non scevro di una buona dose di autoironia. Vale la pena riportare il seguente passo, tratto dalle "Considerazioni finali" (op. cit., Bari, 1980 pag. 252): 
«I meridionali, o italiani in genere, lavoranti all'estero, fecero tale impressione su quel signor Chamberlaim, di buona memoria, fantastico quanto fanatico pangermanista, che non dubitò di dichiararli (a dispetto di tutte le teorie dei misuratori di crani e anche di tutti i ragguagli serbati dalle storie) puri germani: che è l'estrema comicità degli spropositi in cui gli assertori delle razze sono costretti ad avvilupparsi».
Venendo alle proposte operative per una nuova e necessariamente graduale soluzione della Questione meridionale che, dato quanto precede, è fra quelle principali se non la più importante per gli interessi nazionali, si deve sottolineare che essa non figura fra le «quattro priorità» del Discorso Programmatico del presidente Dini, ma viene solo fugacemente menzionata fra «i grandi temi sociali», alla stregua di un problema di «occupazione» e di «solidarietà»; sebbene si riconosca, quasi per cortese omaggio a una formula rituale che: «... nel Mezzogiorno l'intreccio perverso fra dirigismo, assistenzialismo, corruzione e criminalità non consente di definire facili terapie». Ma più ancora si deve sottolineare il fatto che fra le «quattro priorità» non si trovi menzione di più adeguati provvedimenti contro la mafia, nonostante la gravità della situazione di cui si fa un gran parlare, e in considerazione delle analisi del fenomeno che pure esistono e sulla base delle quali ci si sarebbe aspettato almeno un cenno di soluzione «tecnica». Se il discorso tocca la questione della Giustizia, sembra intenzionalmente eludere qualsiasi riferimento alla funzione «tecnica» più elementare della Giustizia, che è quella di prevenzione-repressione della criminalità, specialmente della criminalità organizzata. E ciò può spiegarsi col fatto che, al momento, le forze politiche sono interessate non tanto ad affrontare risolutamente questa materia, quanto invece ad indagare tramite la Magistratura, le risapute collusioni dei partiti con la mafia e i loro medesimi comportamenti mafiosi, allo scopo di servirsene come di un'arma nella lotta politica. La tristissima vicenda del ministro Mancuso è al riguardo significativa.
Nonostante i risultati che pure si sono ottenuti grazie all'impegno e all'alto tributo di sangue pagato dalla Magistratura e dalle Forze dell'Ordine, la mafia non solo non è sconfitta, ma sembra diventare sempre più forte e c'è da aspettarsi che lo diventerà sempre più in futuro. 
Non spetta né a me né al nostro Movimento suggerire ai politici cosa fare. Se essi volessero saprebbero benissimo cosa fare. A noi basta denunciare l'inerzia governativa e tentare di darne una spiegazione. Se altro dicessimo, di certo saremmo interpretati malamente, oppure, per evitare di non esserlo, rischieremmo di cadere nei soliti luoghi comuni e nella demagogia. E questo non vogliamo. Tuttavia possiamo e dobbiamo dire che la lotta alla mafia è il compito prioritario che il Parlamento deve assumere, per le ragioni inerenti alla tutela dell'unità territoriale della Nazione e alla sicurezza dello Stato che sono state esaminate, credo, con sufficiente chiarezza. Inoltre dovrebbe essere lapalissiano che, ove non si proceda con la massima energia contro la delinquenza organizzata (e senza trincerarsi dietro l'alibi della non esistenza di «facili terapie» e di altre simili ovvietà) non si riuscirà mai a risolvere quella Questione che oggi più che mai, fuor di retorica, è Questione nazionale.
Se non si elimina la mafia non si può ragionevolmente sperare che privati forestieri vengano ad investire il proprio denaro al Sud. Se lo faranno, nella situazione attuale, ne avranno certamente un guadagno che risulterà una perdita ulteriore e un ulteriore rapina ai danni dell'economia locale.
Né il fenomeno potrà circoscriversi al solo Meridione o alla sola Italia.
Sappia la Lega che al Sud non sono proprio pochissimi coloro che chiedono agli Italiani del Nord l'unico e vero «aiuto» che dignitosamente possono chiedere e anzi pretendere: che ci si aiuti a liberarci dal cancro della mafia, non ultimo dei motivi dell'evasione fiscale sia al Sud che al Nord. Lo sciopero fiscale, minacciato epperò mai voluto seriamente dalla Lega, potrebbe essere un valido strumento di protesta civile per costringere Parlamento e governo ad agire contro la mafia con sistemi più efficaci di quelli fino ad oggi adoperati.
Il sen. Bossi ed i suoi la smettano di farneticare, si accingano invece ad aiutare i meridionali nella sede istituzionale appropriata che è il Parlamento nazionale, nel modo qui richiesto.
Liberato dalla mafia, e nel quadro di una riforma dello Stato in senso federalista (non confederale), il Sud potrebbe da solo costruire una sana economia, correggendo perfino squilibri strutturali vecchi di secoli, e senza che si assumano strategie in stridente contrasto con l'economia «di mercato».
Il principio fondamentale di una sana economia è secondo noi che essa debba scaturire dalla iniziativa e dalla inventiva dei soggetti economici di una data società, nel quadro delle oggettive possibilità che la situazione offre.
Così, esemplificando, l'agricoltura meridionale dovrebbe produrre non più di quanto è previsto dai trattati che l'Italia ha stipulato con la CEE, fermo restando tuttavia che le sia consentito di soddisfare tutto il fabbisogno locale. Il rimboschimento, insieme alle culture specializzate tradizionali, sarebbero il volano di un'industria compatibile con le risorse esistenti e rispettosa dell'ambiente che, opportunamente valorizzato nelle sue bellezze naturali ed artistiche, potrebbe finalmente dare luogo ad un turismo di qualità e «competitivo».
Dove fosse possibile, si potrebbero costruire e riattivare le centrali idroelettriche, attuando una razionale messa a regime delle acque che avrebbe ricadute positive tanto sull'ambiente quanto sui costi dell'energia.
La produzione di apparecchiature sofisticate, come quelle richieste dalla cibernetica e dall'informatica potrebbe trovare posto, sull'esempio dei Paesi estremo-orientali, nel piano della nuova economia meridionale, escludendo però i soliti impianti chimici, petrolchimici e siderurgici quand'anche i loro prodotti tornassero ad essere convenienti secondo la «pura» legge di mercato. Ciò si attuerebbe o potenziando o riconvertendo l'esistente.
L'importazione dovrebbe privilegiare i prodotti del resto dell'Italia, con intelligenti ed accorti provvedimenti. L'attività finanziaria potrebbe utilmente ispirarsi, con le dovute correzioni, al modello borbonico, soprattutto per i suoi connotati anti-usurocratici. Esperimenti di economia socializzata, peraltro già in atto, ma quasi solo in attività di infimo ordine, come le «imprese di pulizie», troverebbero terreno favorevole nell'ambito di una ristrutturazione economica e data l'innegabile inventiva dei meridionali sarebbero certamente un esempio valido su scala internazionale.

Francesco Moricca

 

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