da "AURORA" n° 31 (Gennaio 1996)

UNA CERTA IDEA DELLA SINISTRA

Tutto da verificare, si capisce

Enrico Landolfi

Nella precedente puntata ci siamo dati appuntamento con il Lettore per ulteriori dati e approfondimenti sul rapporto intercorso fra l'antifascistissimo Piero Gobetti ed il fascistissimo (allora) Kurt Suckert alias Curzio Malaparte. Eccoci qui. E cominciamo col vedere come un autorevole biografo dell'Arcitaliano, lo storico Giordano Bruno Guerri, ritiene di poter chiosare la lettera con cui il «Maledetto Toscano» comunica col suo carissimo nemico di parte liberal-rivoluzionario la nomina a segretario del sindacato fascista di Firenze. Da notare che il Malaparte spera in una interlocuzione su tale sua nuova veste nel campo fascista, come dimostrano le parole con le quali egli chiude la cordiale comunicazione al Gobetti: «Aspetto che Ella risponda subito a questa mia. Voglio sapere quanto Ella si è meravigliato di conoscermi, oltre che come letterato, come organizzatore sindacalista. Più che Daniele e i leoni, più che Orfeo e le pietre, mi par d'essere Ulisse e Proteo. Regardez bien le Prothée pendant que je le tiens!».
Ma seguiamo il Guerri nel suo commento: «In realtà Suckert si dava delle arie: i soli sindacati fascisti che si erano potuti costituire a Firenze -e quasi tutti prima della sua nomina- appartenevano a categorie di lavoratori prive di tradizione operaia e di pochi iscritti. E d'altra parte c'è da credere che gli fosse difficile giungere al cuore dei lavoratori con quelle idee che egli stesso definisce "troppo originali e poco ortodosse"; per esempio quando sosteneva che "il popolo italiano non ha mai capito nulla del socialismo perché il marxismo è un fenomeno moderno e quindi per noi italiani incomprensibile; noi italiani sentiamo invece il socialismo con uno spirito che oserei dire medievale", concludendo che quindi le corporazioni fasciste devono essere fatte proprie sul novello segretario fiorentino svolgerà assai meglio sul suo libro successivo, uscito nel '23, ma -prima e dopo- ne trasse ben poche soddisfazioni».
Vediamo un po'. Sarà anche vero che in quei sindacati del Littorio appena freschi di fondazione si riunivano gruppi di lavoratori scarsi di consistenza numerica e di «tradizione operaia». Ma una rivoluzione -e, se si vuole, una sovversione- non è forse veramente tale solo se manda in archivio tradizioni ritenute, a torto o a ragione, obsolete per far spazio a processi nuovi destinati, a torto o a ragione, a gettare le basi di un «nuovo inizio», come oggi si direbbe, a costituire un pensiero nuovo, un punto di vista nuovo, una cultura nuova? E come meravigliarsi se nei periodi brevi annunzianti l'aurora gli adepti sono pochi e, magari, non di prima scelta? E qui qualche paragone, pur se irriverente, non guasta. Quanti erano i cristiani nei tempi immediatamente successivi alla Resurrezione? E, per venire a cose più recenti e terrene, i comunisti italiani dopo la scissione di Livorno? Trattasi, ovviamente, di domande retoriche, più che rivolte al valoroso studioso Giordano Bruno Guerri. Il quale, forse, si è troppo affidato all'opinione di un suo collega di parte comunista anch'egli, di sicuro, valoroso ed illustre -il riferimento è a Ernesto Ragionieti- ma, probabilmente condizionato nel giudizio su quegli esili e inaugurali sindacati in camicia nera da quella che si è convenuto chiamare pregiudiziale antifascista».
A proposito delle teorizzazioni malapartiane -per una esaustiva conoscenza delle quali l'autorevole collaboratore de "il Giornale" di Vittorio Feltri ci rinvia al già da noi segnalato "L'Europa Vivente. Saggio storico sul sindacalismo nazionale"- informiamo il Lettore che fosse interessato alla speculare malapartiana che potrà occuparsene anche scorrendo le pagine del quotidiano fiorentino "La Nazione", dove il Pratese non di rado collocava le sue eleganti riflessioni sul fascismo quale egli ideologicamente le vedeva. Di particolare interesse i numeri del 12 e 26 ottobre del 1922.

Dice ancora il Guerri: «Tuttavia Suckert era davvero interessato ai problemi sindacali, nonché convinto che quella fosse la chiave per affrontare e risolvere tutti i problemi sociali. Non mentiva scrivendo dividere il fascismo come "sindacalismo politico" e quindi interessarsene "non in quanto fenomeno politico ma soprattutto sindacale". Seguiva insomma le tracce del sindacalismo rivoluzionario dei primi anni del secolo, partendo da Sorel, Orano, Corradini e arrivando a De Ambris». Come è evidente, G. B. G. indaga a fondo il suo insigne Biografato, fino a toccare le sponde del Suckert-Malaparte/Pensiero e, quindi, a immetervisi con brillante e inesausta passione di ricercatore. Certo, non si può convenire con lo squadrista-intellettuale fondatore della rivista teorica dell'intransigentismo fascista "La Conquista dello Stato" allorché, in perfetta chiave autocritica, definisce le sue idee «troppo originali e poco ortodosse». 
Sondiamone qualcuna. Per esempio, a proposito dei processi di finalizzazione delle organizzazioni dei lavoratori dichiara che «il sindacalismo ucciderà le classi sociali», con ciò dando luogo al sorgere di una nuova civiltà, a proposito della quale afferma: «e siamo certi ch'essa non sarà né borghese né proletaria. Abbiamo l'una è l'altra ugualmente in odio».
Come qualificare Malaparte relativamente alle normali, tradizionali classificazioni cui ci si ispira per definire la collocazione di un pensatore, di un militante, magari di un semplice cittadino-elettore nello spettro politico interno alla democrazia o, magari, anche ad essa esterno? In proposito il Guerri così si esprime: «... il fascista Suckert, per le sue posizioni sindacali tutt'altro che di restaurazione dell'ordine borghese, era all'estrema sinistra del movimento». Valutazione, questa, assolutamente omogenea a quella data dal De Felice nella monumentale biografia di Benito Mussolini, il lider maximo del Regime di cui notoriamente e fondatamente si diceva negli ambienti intellettuali che avesse in uggia e in dispetto quel Giovin Signore della Penna indocile, imprevedibile, originalissimo, intrattabile e scomodissimo per tutti e perfino per chi, come Lui, si accingeva a far «ritornare l'Impero sui colli fatali di Roma».
Ma come mai tanto bruciante, intenso, incontenibile fervore sindacale in questo artista nazionalpopolare più abituato a maneggiare la penna per attizzar polemiche, per dissacrare mostri sacri, per innestare nuove marce (compresa quella su Roma) in controtendenza che per firmare contratti per le categorie del lavoro dipendente? Anche su ciò ci diceva qualcosa di interessante il Guerri: «... bisogna considerare che il Suckert era nato e cresciuto nella città dove, proporzionalmente, c'erano più operai di qualsiasi altra in Italia, che aveva vissuto a lungo nella famiglia operaia dei Baldi e che ai problemi sindacali era sempre stato vicino, sia perché il padre se ne interessava, sia per la sua precoce attività politica». Insomma, Malaparte entrerà nel direttorio della confederazione corporativa fascista quando essa è ancora un guscio vuoto.
Non è dato sapere come e cosa rispose Gobetti alla lettera -invero un po' curiosa- di Malaparte. Converrà, allora, intendere se il loro rapporto di amicizia fosse fondato su di una simpatia reciproca di taglio puramente «psicologico» magari relativo -come già segnalato nella precedente puntata- oppure fosse da rintracciare in esso qualcosa di più. Noi siamo per il «qualcosa di più». Ad esempio, per il comune apprezzamento in positivo della rivoluzione sovietica, sia pur muovendo da basi culturali e ideologiche diverse.
In "Viva Caporetto - La rivolta dei santi maledetti", il Nostro così esterna: «Credo che il fenomeno rivoluzionario russo, il quale procede parallelamente a quello italiano nella sua avversione e nella sua lotta contro lo spirito moderno (che per noi è quello settentrionale e occidentale, e per i russi quello europeo), è il complemento storico del fenomeno rivoluzionario italiano. Entrambi si aiutano a vicenda nella comune opera di disintegrazione della modernità, né l'uno è concepibile, attuabile e giusto, senza l'altro».
E Gobetti? Un paio di lustri or sono apparve nella terza pagina del quotidiano dell'allora Movimento Sociale Italiano, il "Secolo d'Italia", un articolo intitolato "Malaparte, Gobetti e il bolscevismo" che faceva il punto su tale argomento. Circa l'orientamento del giovane intellettuale torinese così prematuramente e dolorosamente scomparso l'Autore si esprimeva con i seguenti termini: «Gobetti (...) si ripropone di intendere criticamente il bolscevismo, liberando questo termine di battaglia politica dal colorito mitologico e sentimentale con cui qualcuno l'ha voluto camuffare. Certo, sostiene Gobetti, il programma dei bolscevichi (abolizione della proprietà privata, statizzazione delle banche, lavoro generale obbligatorio, formazione di un esercito rosso di operai e contadini, ecc.) è radicalmente socialista; ma gli strumenti operativi adottati sono quelli di un movimento liberale che mobilita la coscienza nazionale, affranca il popolo, gli dà un'anima, lo costituisce in uno Stato. Il liberalismo, in questa ottica, non è più l'arte di governo, mediatrice degli opposti in un continuo equilibrio instabile, che si sovrappone alla coscienza popolare, senza che questa partecipi all'operare politico, restando anzi passiva e accettando di essere indirizzata e guidata; il liberalismo è invece iniziativa di popolo, impegno creativo delle masse, volontà di potere e di aristocrazie che nascono dal basso».
Secondo "Il Cacciatore" -così si firma l'articolista del "Secolo d'Italia"- questa del Gobetti è «una interpretazione mitica del bolscevismo, legata alla stagione feroce ma appassionata dell'iniziativa leninista e trotzkysta: Gobetti legge la lontana Russia in chiave volontaristica, idealistica, soreliana, con riferimenti culturali, dichiarati o meno, che vanno ancora più in là, ad Oriani, a Mazzini, all'aristocratico individuo assoluto (quante volte ricorrente nella storia da Stirner a Nietzsche, da Rimbaud a Evola ...) dell'Alfieri anti-tirannico. Solo che qui l'individuo si fa individualità collettiva: il popolo russo riscattato dall'autocrazia zarista. Non ci si meravigli troppo di queste simpatie gobettiane; di questo ingenuo entusiasmo. È sin troppo facile prendere duramente le distanze, sulla scorta di una visione del mondo tradizionale e controrivoluzionaria, da certe suggestioni: non si può certo imputare a Gobetti, però, il fatto di non aver previsto quel che sarebbe avvenuto dopo: il congelamento della Rivoluzione d'Ottobre.
A conclusione di codesto ragionare una significativa ammissione: «E del resto non si può negare che tanta parte (...) del movimento culturale fascista si pose, dinnanzi alla rivoluzione russa, in un atteggiamento di interesse, che non significava adesione, ma volontà di scavare, di capire, di giudicare».
Ancora più interessante questa ulteriore proposizione: «I fascisti allevati in trincea, gli uomini come Malaparte, un intellettuale come Bottai, che mai si sottrasse ai propri appuntamenti con la storia -nel bene e nel male- la gente estrosa e gagliarda che dette vita all'esperienza di Strapaese, i giovani come Ricci che l'avrebbero proseguita con motivazioni politiche sempre più secche e lucide nello stile di Dante e di Machiavelli, i disperati pieni di speranza di Salò non avrebbero potuto guardare al comunismo con l'occhio di un forcaiolo». Perfetto! Peccato che il gruppo dominante della novella Alleanza Nazionale non possa essere d'accordo con il "Cacciatore" condizionato com'è dalla sua natura intimamente reazionaria, dalle sue perverse alleanze, dai suoi obiettivi inequivocabilmente conservatori. E, insomma, dalla sua vocazione strenuamente misoneista.
Il quale "Cacciatore" conclude benissimo la sua prosa con questa rapida e incisiva riflessione: «La verità respira largo e potente: questo Gobetti e Malaparte, amici e nemici di scorza ruvida ma diritti di cuore, lo sapevano».
Questo per quel che riguarda il pezzo con il titolo "Malaparte, Gobetti e il bolscevismo". Ma il "Cacciatore" ne licenziò alle stampe anche un altro, sempre sul "Secolo d'Italia", con il titolo "Malaparte, Gobetti e la rivoluzione". I contenuti sono in parte diversi, in parte analoghi. Comunque, vale la pena di espungere qualche branerello. Questo, anzitutto, anche se il capoverso terminale dell'articolo: «Ed è contro lo spirito moderno che due rivoluzioni sono in marcia: quella fascista e quella bolscevica. Ad entrambe il proto-fascista Malaparte e il liberale rivoluzionario Gobetti guardano con attenzione, anche se con ben diverse valutazioni ed intenzioni». Ma vediamo come il Piemontese e il Toscano propongano il «popolo» e ad esso si propongano. La concezione gobettiana di esso è così rapidamente descritta, a brevi tocchi: «In questo cammino verso la modernità il popolo non dovrà essere assente; la nuova classe dirigente sarà nazionale se coniugherà il sano attivismo della borghesia progressista con la richiesta di partecipazione delle avanguardie operaie. E le aristocrazie culturali protestanti faranno da mediatrici, con la massima apertura di spirito, senza paternalismi».
Ed ecco l'identikit della visione malapartiana: «Il popolo di Malaparte è questo. Ha una faccia diversa da quella di Gobetti. È il popolo dell'Anti-Riforma. È il popolo che ha sofferto e dopo essere stato spesso carne da macello in guerra reclama ora un ruolo attivamente politico. È stato la Nazione delle armi, vuol essere la Nazione delle leggi». E così conclude: «Per Malaparte è un popolo in camicia nera. Anti-moderno, anti-europeo, controriformista».
Ma andiamo al riscontro. Effettivamente l'Arcitaliano non contraddice il misterioso "Cacciatore" con il suo messaggio populista. Vediamo: «Credo che il Fascismo è l'ultimo aspetto della Controriforma, perché tende a restaurare la civiltà propria, naturale e storica, dello spirito italiano, naturalmente antico, classico e improprio della modernità, contro tutti gli aspetti conseguenti della Riforma, perciò contro lo spirito moderno, che è barbarico, settentrionale e occidentale, eretico».

Enrico Landolfi

 

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