da "AURORA" n° 31 (Gennaio 1996)

OLTRECONFINE

La sconfitta dei guelfi in Polonia

Giovanni Mariani

Sostenere, come hanno fatto diversi quotidiani italiani, che le elezioni polacche del novembre '95 abbiano sancito il ritorno al potere del «bolscevismo ateo» equivale a riproporre, acriticamente, quello che è stato il leitmotiv dei clericali durante la campagna elettorale. Del resto quando si ignorano le ragioni «profonde» che determinano gli avvenimenti si finisce sempre col darne una interpretazione scontata e semplicistica.
La realtà è, come sempre, più complessa, e nel caso della Polonia è il prodotto di una vicenda storica alquanto intricata che, a differenza degli altri Paesi ex-comunisti, è iniziata ben prima del crollo del Muro di Berlino nel 1989. Gli è che nella terra che diede i natali a Giovanni Paolo II, dal '56 in poi l'opposizione alla dittatura comunista si è appalesata con una serie infinita di manifestazioni spesso degenerate in vere e proprie rivolte popolari. Già prima del crollo della «Cortina di ferro» la dittatura comunista era stata spodestata da un colpo di Stato militare e le organizzazioni sindacali e intellettuali contrarie al socialismo reale erano da tempo parte integrante dello scenario politico polacco.
D'altronde, già la rivolta di Danzica del '70 preparava, in qualche modo, il passaggio dall'economia di «piano» a quella di «mercato», con buon anticipo sugli altri «confratelli» del COMECON. Del resto la crisi polacca si rivelò fin da quegli anni estremamente più grave di quella nella quale si dibattevano le altre nazioni soggette all'imperialismo comunista, tanto che il successore di Gomulka, Gierek, fu costretto (avendo capito che l'economia collettivista era sull'orlo della bancarotta e che la Polonia rischiava di essere travolta dal capitalismo occidentale nel volgere di pochi anni) ad assumere un atteggiamento riformistico. Ma la Polonia, nonostante le aperture dei vertici del Partito, non poteva, per ragioni politiche e militari abbandonare i binari dell'ortodossia bolscevica, ribaditi proprio nella Capitale polacca nel luglio del '68, durante la sessione annuale del Patto di Varsavia, dal premier russo Leonid Breznev che ricordò, senza tanti giri di parole, ai dirigenti polacchi la condizione di «sovranità limitata» del loro Paese.
In quell'occasione, il vertice comunista polacco, propose tramite Gierek due soluzioni:
1) soddisfare a tutti i costi le richieste di miglioramento economico degli operai dei cantieri navali che rappresentavano il fulcro della protesta;
2) aprire parzialmente al capitalismo occidentale sfruttando il clima di dialogo prodotto dall'azione diplomatica del leader tedesco Willy Brandt che, proprio in quei giorni, aveva firmato il Trattato di Mosca, iniziando quella fase di rapporti Est-Ovest passati alla storia col nome di Ostpolitik.
«Costruire la Nuova Polonia», sostenne Gierek, «significa accettare di buon grado i prestiti occidentali, destinandoli a rinnovare le infrastrutture industriali fatiscenti e l'apparato tecnologico obsoleto, al fine di ingerire la produzione polacca nei circuiti del mercato internazionale».
Nelle ottimistiche previsioni del Partito Comunista, i debiti contratti con la finanza occidentale sarebbero stati onorati grazie ai maggiori proventi conseguiti con l'esportazione, favorita dal minor costo della manodopera che avrebbe reso appetibili e concorrenziali i prodotti polacchi (è da ricordare che mesi dopo questa politica fu fatta propria, con risultati disastrosi, da Ungheresi e Rumeni).
Prescindendo dal sostanziale antimarxismo della svolta economica propugnata da Gierek, nella sua applicazione si commise l'errore marchiano di non tener conto che i manufatti polacchi, per la loro scarsa qualità, non potevano penetrare mercati come quelli occidentali che, tra l'altro, in quel periodo, erano preda di una forte crisi recessiva determinata dalla «crisi del petrolio» seguita alla guerra arabo-israeliana. Quindi il piano di Gierek fallì miseramente, lasciando il governo di Varsavia nella spirale dei debiti contratti con le banche occidentali.
Fallita l'illusione del risanamento economico, la protesta operaia riesplose e con gli scioperi del '76 si radicalizzò il dissenso, tanto che sorsero, in tutto il Paese, comitati permanenti di operai. Ovviamente, questi rivolgimenti provocarono l'inasprimento delle misure repressive che comunque non impedirono il dilagare della protesta operaia che andava intanto saldandosi con quella degli ambienti intellettuali e della Chiesa cattolica.
A soli quattro anni dagli scioperi di Radon del '76, fu proclamato lo sciopero generale di Lublino e l'onda lunga della recessione economica che aveva decurtato i salari operai determinava il crollo degli standards di relativo benessere di cui godeva l'intoccabile burocrazia di partito. Quindi la protesta, fino ad allora limitata all'ambito economico, coinvolse le strutture di un sistema politico da sempre dominato da una cricca di burocrati corrotti e inefficienti, tendenzialmente nepotisti, che da tempo avevano abdicato al rigore morale e alla rigidità rivoluzionaria per concentrarsi sui benefici economici derivanti dalla loro posizione di potere.
L'organizzazione dell'opposizione già collaudata nelle lotte degli Anni Settanta si mobilitò nell'estate del 1980, cogliendo di sorpresa anche i solerti funzionari della «sicurezza». Il Governo comunista fu costretto, obtorto collo, a siglare gli "Accordi di Danzica" che sancivano il pluralismo sindacale e, quindi, conferivano un potere immenso a Solidarnosc e al suo leader carismatico: l'operaio elettricista dei "Cantieri Lenin" Lech Walesa. Ma l'apertura democratica, imposta dai sindacati anticomunisti, durò assai poco: nel settembre dello stesso anno Gierek venne sostituito alla segreteria del Partito da Stalisnaw Kania e il Gen. Jaruzelcki, già ministro della Difesa, si insediava nella poltrona di Primo ministro. Il rimpasto polacco non tranquillizzò i sempre più diffidenti vertici sovietici che pretesero un'azione più incisiva e favorirono, di fatto, il colpo di Stato militare che scavalcò Kania e proclamò lo «stato di guerra» a nome di un fantomatico «comitato di Salvezza nazionale» egemonizzato dai militari.
La missione affidata al Gen. Jaruzelcki, dai padroni sovietici, era sostanzialmente finalizzata a salvaguardare l'integrità territoriale del Patto di Varsavia e del COMECON e utilizzava per raggiungere lo scopo il prestigio di cui in Polonia godeva ancora la casta militare, depositaria dei valori nazionali. I burocrati di Mosca e il Gen. Jaruzelcki erano coscienti che il sistema comunista polacco poteva salvarsi solo sostituendo l'internazionalismo proletario con il richiamo alla Patria polacca. Questo è tanto vero che il prestigio del governo militare si incrinò solo in seguito all'assassinio di Padre Popieluzko ad opera di appartenenti ai Servizi di sicurezza dell'esercito. L'amministrazione militare non si differenziò dai governi precedenti; continuò ad accumulare debiti su debiti con le banche estere, con buona pace di quanti ritenevano possibile il risanamento economico attraverso l'indebitamento internazionale.
Gli scioperi del 1988 infersero il colpo di grazia alla Giunta militare e sancirono la vittoria definitiva dei sindacati operai e della Chiesa cattolica.
Ma l'eredità comunista si rivelò pesantissima, difficile da gestire e l'economia era a pezzi: nei grandi magazzini delle città polacche la carne scomparve dagli scaffali e le code davanti ai negozi (da sempre parte integrante dell'arredo urbano nelle città dell'Est Europa) si allungarono a dismisura e i beni di prima necessità divennero appannaggio esclusivo del «mercato nero». A risolvere la pesante situazione si candidò Tadeus Mazowiecki, amico personale di Giovanni Paolo II e consigliere politico del neo-eletto presidente della Repubblica Lech Walesa. Il governo Mazowiecki promosse subito una radicale riforma dei prezzi dei beni di consumo ed abolì le sovvenzioni statali per la produzione e la distribuzione, provocando un'impennata del costo della vita che schizzò oltre il 300%, dilatando ulteriormente il «mercato nero» e favorendo l'espandersi della criminalità comune.
Nel biennio 90/91 la disoccupazione salì enormemente ed i non-occupati passarono da 500.000 a 1.500.000, senza che questo avesse alcuna positiva ricaduta sulla dissestata economia. Per far fronte alla «battaglia polacca più importante del secolo» (la definizione è di un quotidiano di Varsavia), si ritenne necessario procedere ad un rimpasto dei vertici governativi: fu così che l'ultra-liberista Bielecki sostituì, in fretta e furia, Mazowiecki con l'obiettivo primario di privatizzare tutto e comunque!
Il governo liberista, eseguì alla lettera i suggerimenti «disinteressati» del FMI ed i primi ad approfittare della privatizzazione selvaggia dei beni statali furono gli esponenti della nomenklatura comunista (arricchitisi nel corso degli Anni Settanta e sostenuti finanziariamente da centrali estere), convertitisi in un battibaleno dall'ortodossia marxista al capitalismo d'assalto.
Le privatizzazioni in grande stile iniziarono nell'aprile del '91 in concomitanza con l'inaugurazione della "Borsa Valori" di Varsavia. Privatizzazioni, manco a dirlo, monopolizzate dagli investitori esteri. È bene però distinguere tra le prime dismissioni statali, destinate ad una ristretta élite e comprendenti i «gioielli rari» dell'apparato produttivo e le seconde, comprendenti un triste compendio dell'inefficienza industriale polacca, ossia veri e propri «bidoni» difficilmente convertibili, destinati, in linea con i suggerimenti dei "Chicago Boys" ad essere acquistati dai "Fondi di investimento privato" equivalenti ai "Mutual funds" statunitensi.
A distanza di quattro anni, il progetto liberista «puro», lungi dall'innescare l'agognato miracolo economico, auspicato dagli epigoni indigeni della sig.ra Thatcher, ha ulteriormente aggravato la già disastrosa situazione: i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri più poveri.
E pur essendo riusciti, con costi sociali pesantissimi, a migliorare leggermente i conti dello Stato non ci si è nemmeno avvicinati all'obiettivo prefisso: la crescita progressiva del benessere di massa. Il «male da sviluppo» del quale sarebbe affetta la nazione polacca, invece di attenuarsi è andato aggravandosi in tutti i settori.
La svolta «comunista» va quindi inquadrata nel contesto appena esposto e quindi considerata alla stregua di una risposta sociale alla deregulation che ha ridotto larghi strati della popolazione alla fame.
Il comunismo, inteso come dottrina politica e sistema economico, è morto! Non solo in Polonia, ma in tutti i Paesi ex-comunisti. I sedicenti «comunisti» capeggiati da Kwasiniecki si sono da tempo convertiti al «libero mercato» e alla «democrazia pluralista», al pari dei loro avversari del centrodestra, auspicano l'ingresso della Polonia sia nella NATO che nell'Unione Europea. L'inguaribile «statalismo» della sinistra, denunciato da Walesa e dalla Chiesa cattolica, è vero solo in parte. I Socialdemocratici di Kwasiniecki perseguono diversamente dai loro avversari, la politica di privatizzazione dell'economia mostrandosi appena più attenti alle ricadute sociali di questa scelta economico-politica.
La sinistra, d'altro canto, non rappresentando più quello che è stato «il Partito degli operai e dei contadini», ha stretto saldi rapporti con il potere finanziario nazionale ed internazionale che, in precedenza, aveva sostenuto Solidarnosc. Gli è che la campagna elettorale ha evidenziato due concezioni del capitalismo antitetiche: da un lato il liberismo oltranzista, il cosiddetto «anarco capitalismo», che ha il suo massimo esponente teorico nel premio Nobel Milton Friedman, mentre dall'altro, il «capitalismo ecumenico» (che potremmo definire l'ala sinistra del capitalismo) che alla totale deregulation contrappone il rilancio dell'economia ottenuto attraverso la dilatazione dei consumi e una più equa redistribuzione della ricchezza nazionale, in linea col dettato Keynesiano «dell'acqua che scorre, con maggiore o minore intensità, in tutti i rubinetti».
Le elezioni di novembre non hanno, quindi, posto il problema di una maggiore o minore adesione al libero mercato, ma quella di permettere o no l'egemonia totale dell'«anarco-capitalismo» che già durante gli anni della dittatura militare era ritenuta l'unica risposta possibile ai disastri ereditati dall'economia collettivista. Anche se, in ogni caso, il feroce scontro elettorale tra centrodestra e sinistra non può ridursi al solo, pur importante, programma economico.
Il progredire della sinistra, negli ultimi anni, è coinciso con la crisi del polo clericale. Secondo noi, infatti, sarebbe più appropriato parlare di sconfitta della Chiesa cattolica, di Solidarnosc e di tutte le forze ad esse riconducibili, che di vittoria dei socialdemocratici. «Sconfitta» proporzionale all'incapacità del centrodestra a garantire, almeno in parte, l'attuazione di quelle riforme sociali promesse da Lech Walesa all'indomani del crollo del Muro di Berlino. 
Incapacità dimostrata, anche a livello organizzativo, da Solidarnosc che non è stato in grado di riorganizzare il suo apparato e di adeguare il suo programma dopo la dura sconfitta patita nelle elezioni politiche del '93. Nelle elezioni presidenziali, va detto, hanno giocato un ruolo non secondario fattori imponderabili, umorali ed irrazionali, oltreché l'inettitudine propositiva della destra polacca e la lotta intestina tra le sue diverse anime: nazionaliste, democristiane e liberali tenute insieme unicamente da un anticomunismo vuoto quanto viscerale.
Le fortune del «liberal» Kwasiniecki sono, come dicevamo, attribuibili al cretinismo politico del partito clericale e alla sua incapacità di utilizzare le energie delle quali pure disponeva. La sapiente promozione elettorale dei socialdemocratici ha fatto il resto: da una parte stava infatti Walesa, figlio naturale del vecchio regime (pur avendolo aspramente combattuto) dall'abbigliamento che richiamava alla memoria la «divisa» della nomenklatura russa; per non parlare, poi, degli slogans truculenti, carichi d'odio, indirizzati con rancorosa rozzezza contro gli avversari politici. L'atteggiamento di Walesa e dei suoi sodali veniva recepito dall'elettorato, paradossalmente, come un ritorno alla brutalità dialettica dello stalinismo. Dall'altra parte stava il post-comunista Kwasiniecki, che di comunista ha ormai solo la provenienza: capace di parlare e muoversi come un perfetto gentleman inglese, uno yuppie di sinistra in tutti i sensi; vestito con cura e gusto, sempre sorridente, coadiuvato, nell'esposizione del programma di governo, da una folta schiera di imprenditori ed esperti d'informatica, giovane, dinamico, buon giocatore di tennis, poliglotta e, dulcis in fundo, costantemente affiancato dalla bella moglie Jolanda, titolare di una affermata agenzia immobiliare. Insomma, una first lady in perfetto stile clintoniano.
Tra i fattori imponderabili c'è da considerare la sete di «nuovismo» che pervadeva la società polacca e che in questo caso coincideva con la necessità di «sognare». La rassicurante immagine della coppia Kwasiniecki non poteva che risultare vincente se contrapposta ad un avversario solitario e violento come Walesa; pronto ad annunciare, di fronte a milioni di telespettatori che «avrebbe volentieri rotto la mascella all'avversario».
Non va in ultimo sottovalutata l'incidenza elettorale dei «delusi dal liberismo», dovuta all'immenso solco che separa il benessere della capitale e delle maggiori città polacche occidentali (Poznan, Wroclaw, Danzica) dalla miseria di città e villaggi dell'Est, immobili da secoli nella loro arretratezza. Questa fascia di delusi aveva abbandonato Solidarnosc col dilagare della miseria nelle regioni orientali ed è proprio in questi territori, abbandonati a sé stessi, che il proletariato e il contadiname sono più sensibili ai richiami della sinistra. Operai, contadini e pensionati rappresentano quella ragguardevole porzione di popolazione impoverita dai tagli sociali del bilancio statale operati dai governi di centrodestra. Una fascia di popolazione composita che può dividersi, grosso modo, in tre categorie:
1) il contadiname, al quale la privatizzazione del 20% dell'agricoltura cooperativistica (caso unico nei Paesi del «socialismo reale», l'agricoltura polacca era all'80% organizzata in modo «privatistico) ha coinciso con la morte vera e propria delle cooperative, essendo state le terre da loro coltivate lottizzate. Si sono così create sperequazioni incredibili; i più furbi, i più ricchi e gli antichi proprietari (nobiltà e clero) che le hanno rivendicate, si sono appropriati delle terre migliori, mentre alla maggioranza è stato lasciato solo il suolo meno fertile, coltivato col traino animale, e lo spettro della fame;
2) la classe rurale urbanizzata, rappresenta il partito nostalgico per eccellenza; un mondo a parte, che nel corso degli Anni Settanta e Ottanta aveva abbandonato la campagna per l'industria e le miniere. A distanza di qualche lustro si sentono ancora in debito col regime comunista che ha loro fornito una lunga serie di infrastrutture sociali (scuole, casa, sanità, previdenza sociale) e da soddisfazioni personali (auto, acqua corrente, elettricità) di gran lunga superiori a quelle godute in precedenza;
3) l'aristocrazia operaia, tecnici ed operai che avevano condiviso i benefici estesi alle categorie tecniche superiori (ingegneri, insegnanti) ed intravisto nella caduta del Governo comunista l'occasione di migliorare ulteriormente il loro status economico. La chiusura di gran parte degli stabilimenti industriali, ormai obsoleti, li ha espulsi dalla produzione relegandoli in una miseria senza prospettive.
Non va infine sottovalutata l'incidenza della vecchia nomenklatura. Il crollo del comunismo ha, infatti, coinciso con la cacciata dal posto di lavoro di migliaia di funzionari, impiegati statali e di partito. La stragrande maggioranza di costoro si è ritrovata «a spasso»; pochi si sono arricchiti, ma la grande massa degli «apparatcicki» si è schierata anima e corpo con la socialdemocrazia.
Il risorgere della sinistra in Polonia è stato, come appare evidente, determinato dagli errori di Walesa: il leader di Solidarnosc avrebbe dovuto capire, prima degli altri, che qualsiasi politica di «rinascita nazionale» non può non fare i conti con le rivendicazioni della classe operaia e dei contadini il cui apporto era stato determinante nella lotta contro il comunismo.
La classe operaia polacca, tradizionalmente molto combattiva, aveva fin dal '56, in pieno regime totalitario-poliziesco ed utilizzando le organizzazioni sindacali clandestine, difeso le posizioni economico-sociali acquisite e, negli Anni Settanta, si era schierata in massa con Solidarnosc accelerando il crollo del regime comunista. L'ex-elettricista di Danzica, si era illuso di mantenere inalterato il rapporto coi ceti operai anche perseguendo una politica economica che li penalizzava. Non si era reso conto che era necessario gradualizzare le riforme per risparmiare al popolo, sull'esempio della Romania di Ion Iliescu, licenziamenti e miseria.
Ma lo scenario polacco non può essere spiegato e compreso se non si tiene conto del potere della Chiesa cattolica. Nella terra dei Piasti e degli Jagelloni, la sua intromissione nel potere statuale è sin troppo evidente. Il clero polacco, che aveva egemonizzato il dissenso anticomunista nel corso degli ultimi trent'anni, aveva acquisito una centralità che ne faceva l'unica vera forza del Paese, capace, almeno si riteneva, di risollevarlo dall'abisso della miseria morale e materiale in cui il bolscevismo l'aveva precipitato. La Chiesa, avrebbe potuto gestire la «rinascita» polacca appellandosi alla parte «sana» della base comunista, particolarmente sensibile ai richiami solidaristici. Così non è stato: le gerarchie ecclesiastiche, facenti capo al reazionario Cardinale Glemp, si sono lasciate sedurre dall'autoritarismo guelfo, fallendo miseramente.
È del resto abbastanza noto che, negli ultimi cinque anni, la gerarchia cattolica ha rinnegato i postulati della dottrina sociale cristiana alleandosi, senza tentennamenti, con l'ala più reazionaria, più retriva ed antisociale del capitalismo. Il che è di per sé grave, ma lo è maggiormente qualora si tenga conto del fallimento della ristrutturazione produttiva che ha ridotto il Paese alla miseria.
La Chiesa ha svolto un ruolo politico di retroguardia che mirava a stabilire la sua totalizzante egemonia sulla società civile polacca. Una manovra maldestra e perdente, che il vessillo della Fede è riuscito a nascondere solo in parte, avvalorante la tesi, a suo tempo sostenuta dai comunisti, che una volta crollato il regime, i preti avrebbero fatto causa comune con la borghesia più retriva pur di assicurarsi il potere.
A questo punto è lecito domandarsi se l'azione politica di Lech Walesa, al di la delle sue asprezze caratteriali, durante la campagna elettorale sia da considerarsi «farina del suo sacco» o non piuttosto, come più d'uno sostiene, un comportamento impostogli dalle gerarchie cattoliche. Se così fosse, il «virile» sindacalista di Danzica, il rivoluzionario tutto d'un pezzo, sarebbe solo il «gracchiante megafono del clero», come sostengono i suoi avversari politici. La battaglia elettorale è stata, come abbiamo detto, condotta in modo anomalo: il programma di Solidarnosc era la fotocopia di quello della Chiesa cattolica; nulla o quasi che richiamasse alla memoria le battaglie sindacali e politiche del «sindacalismo rivoluzionario» d'oltre-cortina. Un'inconsistenza propositiva che si amalgamava alla perfezione col più generico e pericoloso dei liberismi.
Walesa s'era reso conto di andare verso il disastro? Probabilmente si! Anche se non direttamente non mancano conferme in questo senso da parte dei suoi più stretti collaboratori. Alla luce di questa ipotesi il «rozzo» Walesa va collocato in una diversa cornice: quella di un personaggio shakesperiano avvolto nella nebbia di una sconfitta annunciata, alla quale nulla poteva opporre, essendo solo un docile burattino nelle mani del cardinale Glemp.
Il Partito guelfo, in sostanza ha cercato di impossessarsi dello Stato nel momento del trapasso dal sistema collettivista a quello liberista agitando tutta una sfilza di falsi problemi:
1) l'anticomunismo; la sinistra polacca non ha nulla da spartire col modello sovietico né col neo-comunismo russo, risultato vincente nelle elezioni del 17 dicembre '95. Quella polacca è una sinistra «liberal», aperta al mercato, del tutto simile alla corrente veltroniana del nostro PDS;
2) lotta al paganesimo, promossa da Walesa durante la campagna elettorale. Nella società polacca non vi è alcuna traccia di paganesimo o di ateismo, come pure nello stesso schieramento di sinistra. Basti ricordare che durante il regime comunista la stragrande maggioranza dei funzionari di partito dichiarava pubblicamente la propria fede cattolica.
3) l'antisemitismo, la destra polacca è sempre stata profondamente antisemita, Oggi si tratta di una posizione del tutto strumentale. Il problema non esiste, constatato che gli ebrei polacchi sono una trascurabile minoranza. Del resto, a far «piazza pulita» dell'intellighentia ebraica ci pensò Stalin, ben prima di passare la «palla» ad Adolf Hitler. Con la complicità di Dimitrov e Togliatti. Le purghe antisemite all'interno dell'Internazionale comunista, sono ben note, sopravvissero allo stesso Stalin e si manifestarono con particolare virulenza anche negli Anni Settanta ancorché molti dirigenti del partito furono estromessi con l'accusa di sionismo e nazionalismo borghese.
Quella che si prospetta nel prossimo futuro è una Polonia divisa a metà, probabilmente più laica che in passato. Poco importa chi sono stati i veri vincitori, gli sconfitti sono, ancora una volta, i più poveri, Quella maggioranza della popolazione vessata sotto gli Zar, abbandonata a sé stessa da Pilsudski, angariata da Russi e Tedeschi durante il Secondo conflitto mondiale, ingannata dal comunismo sovietico quanto dalle mene dell'oligarchia cattolica. In quanto al «compagno» Kwasiniecki c'è poco da fidarsi, le sue tirate demagogiche, il suo ostentato yuppismo, la totale assenza di riferimenti alla riorganizzazione sociale dello Stato nei suoi programmi, i suoi precedenti poco chiari (s'è dimenticato di denunciare il proprio reddito al fisco), i suoi rapporti con l'alta finanza fanno pensare ad una sostanziale continuità delle ingiustizie sociali in Polonia.

Giovanni Mariani

 

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