da "AURORA" n° 31 (Gennaio 1996)

LA POLEMICA

Una politica senza dignità

Vito Errico

È proprio difficile tentare di dare una spiegazione politica e politologica del gran trambusto che il Palazzo diffonde nelle italiche contrade. Ciò che sta succedendo è d'una pochezza tale da generare ormai soltanto fastidio. Per quanto è dato di conoscere la storia d'Italia, mai s'è avuto un periodo più basso dell'attuale in fatto di discussione politica. Il cicaleccio inconcludente e minimale ha raggiunto livelli tali di uggia che anche noi, che nella politica siamo da epoca purtroppo ormai remota, facciamo fatica a palesare una volontà d'approccio. Perché una discussione, per essere tale, deve avere come oggetto un fondamento solido e nobilitante. Deve basarsi cioè su progetti che vogliono e auspicano l'assetto del mondo nelle sue varie sfaccettature politiche, economiche, amministrative. E non si può certamente sostenere che sia questo a muovere il comportamento di tutto l'impianto umano della politica italiana.
Son due anni che non si fa altro che riempire televisioni e giornali di vacue dichiarazioni proferite da mediocri soggetti, che da destra e da sinistra si arrotolano su se stessi cercando di conferire alla loro verbosità un titolo di aulicità. Due anni spesi per giocare alla lippa delle votazioni. E siccome quel rito non s'ha da celebrare, che i deputati in Italia son preoccupati solo dalla conservazione del cadreghino, ecco l'invenzione del «lascia o raddoppia» sul presidenzialismo.
Quando l'incapacità a saper comprendere e gestire i fenomeni umani s'appalesa vistosamente, nulla di meglio rimane che donarsi alle speranze taumaturgiche d'un demiurgo. In queste manifestazioni la prima ad essere sacrificata è la coerenza. In conseguenza va detto che la destra di Fini, con la questione del presidenzialismo, rimane nell'alveo del vecchio MSI, che, a sua volta, aveva mutuato quel progetto di forma di governo dal secondo comma del Punto 3 del "Manifesto di Verona", che recitava: «Ogni cinque anni il cittadino sarà chiamato a pronunziarsi sulla nomina del Capo della Repubblica». Tutto ciò naturalmente stride con il «giro di valzer» compiuto a Fiuggi e risulta ancora più laido se il fatto viene inquadrato in una logica comportamentale che altro non è se non commedia delle parti.
La sinistra non è da meno. Chiusa nella sua più densa confusione, derivata dal crollo delle ideologie, inventa un «qualcosa» che deve per forza contrastare la destra, giusto per darsi una giustificazione esistenziale. Nasce così l'idea del «cancellierato». In mezzo si colloca la ridicola posizione dei democristiani, i quali, preoccupati di essere obliterati del tutto, qualora sia la prima che la seconda forma di governo avessero a realizzarsi, decidono more solito di rimanere f ermi alla Costituzione del '48. Lo scenario è questo, semplicemente tratteggiato. Si è arrivati quindi a concedere alla forma di governo, che è parte della edificazione di uno Stato, una importanza primaria. Per la vulgata, si vuol costruire il palazzo iniziando dal secondo piano.

Qual'è invece il vero problema italiano, a cui l'ingegneria costituzionale non può portare alcuna risoluzione? L'ubi consistam sta nel sapere ciò che l'Italia deve essere e non solo in termini amministrativo-costituzionali. Prima di tutto, e non ci stancheremo mai di ripeterlo, questa nazione deve risolvere il problema della sua sovranità politica. È un problema essenziale per la vita di un popolo. Noi non siamo fra quelli che plaudono alla distruzione nucleare degli atolli corallini. Ne siamo fieri nemici. Però rileviamo positivamente il comportamento di Chirac di fronte a un mondo che giustamente lo osteggia. Quella di Chirac è l'espressione di un atto di sovranità nazionale. Per l'Italia invece la mancanza di questa essenziale caratteristica la porta a non poter conoscere ancora, a distanza di più lustri, la verità su Ustica, sulle stragi e su tutte le nefandezze che hanno costellato il cielo storico dei nostri ultimi anni. E la riduce a farsi pretoriana della politica americana, della quale porta le armi, dalle savane del Mozambico agli altipiani della Bosnia.
Questo problema è negletto dalla classe «dirigente» italiana nella sua interezza. Se non lo fa Fini, è pure comprensibile. Il suo mondo affonda le radici nella melma dell'Occidentalismo più bieco, che arma la NATO e la rivitalizza con la dottrina dell'«out of area».
Se non lo fanno Buttiglione e Bianco, non c'è tanto da discutere. I due soggetti son figli d'un De Gasperi che completò l'atto di vendita dell'Italia agli Stati Uniti d'America.
Che non lo faccia la sinistra, è proprio grave. Dov'è Fassino, responsabile della politica internazionale del PDS? Va bene che il nemico in guerra, di solito, diventa il miglior alleato in pace, ma è proprio vergognoso che l'anti-americanismo di stampo bolscevico abbia lasciato il posto all'acquiescenza muta all'imperialismo a stelle e strisce.
Tutti gli altri problemi ruotano come corollari d'un teorema. Bertinotti ha ragione da vendere quando si chiede se il problema della occupazione in Italia non sia più importante delle votazioni da celebrare a marzo, a giugno, a novembre d'un anno che verrà. Intorno alla questione «sovranità» ruota il problema del modello di sviluppo. La nostra società ha ormai due grandi classi. Quella dei ricchi, che si arricchisce sempre più in nome di un «laissez faire» tragico, che vende le industrie strategiche nazionali ad un potere economico senza bandiera, del quale incassa i dividendi, e quella dei poveri, che raggruppa la media borghesia e quel che rimane del proletariato. Di questo «modello» squilibrato fa le spese il mezzogiorno, che vive una condizione ormai uguale a tutti i «Sud» del mondo. I limiti di disoccupazione delle nostre regioni meridionali hanno raggiunto il 55% della popolazione attiva. I giovani non hanno altra carta da giocare che l'arruolamento volontario per la Bosnia e la Somalia e ottenere questa possibilità di morire nel caldo torrido o nel freddo glaciale non è nemmeno facile.
Il Sud è stato abbandonato e s'è abbandonato. Qui la vecchia DC è stata sostituita da AN. Uomini e carriaggi, gli stessi o i figli naturali o politici dei «galantuomini», sono stati felicemente arruolati nelle solite bande di lanzichenecchi, che finiranno di mettere a sacco il Meridione. Il Sud non reagisce perché questa è sempre stata la terra di Masaniello. Mai rivoluzione si è avuta, tutt'al più rivolte. Il Sud è capace solo di mugugnare dietro gli sproloqui di Bossi. Lo fa come una sorta di difesa d'ufficio. È uno sfogo umorale, una difesa di campanile. Ma tutto finisce lì, senza saper cogliere tutto il dramma reale d'una situazione pericolosa di cui Bossi è soltanto il portavoce. La conoscenza diretta che abbiamo dei ragionamenti spicci che formano la «mentalità» delle popolazioni collocate al nord, dove abbiamo trascorso buona parte della nostra vita, ci porta ad affermare che la voglia di secessione non costituisce soltanto la brutade d'un essere repellente come Bossi. E dobbiamo dire che tale «sentimento» pervade maggiormente i meridionali settentrionalizzati, più che i settentrionali autoctoni.
C'è la voglia di «segare» lo Stivale. Se poi a ciò si aggiungono i piani redatti da Delors, dalla Trilateral e dal CFR agli inizi degli Anni Ottanta, in base ai quali si destinava ai «meridioni» dell'Europa una funzione di mero mercato di consumo delle produzioni realizzate nel Nord, al quale veniva conferito un ruolo trainante nel progetto economico-finanziario, il quadro si completa in tutte le sue specificità. Se non si capisce questo, non si comprende la tragedia dell'ex-Jugoslavia. Croazia e Slovenia sono regioni di quel blocco mitteleuropeo, che sta formando il nerbo d'un futuro assetto dell'Europa sempre più germanizzata, alla quale non è geograficamente e politicamente estraneo il nostro Nord-Est.

Tutto ciò, naturalmente, non ci può star bene. Noi sosteniamo che questo è un Paese «uno». Non tanto per effetto di sapori risorgimentali, che sempre abbiamo avversato. Non furono le Cinque giornate di Milano o i «trecento» di Pisacane ad aver fatto l'Italia. Ma il momento storico della Prima Guerra Mondiale fonde realmente, nel sangue e nel sacrificio, più popoli in uno. E quel sacrificio di sangue va conservato come valore.
Però è pur vero che il tipo di Stato centralistico non regge più, anche perché è il Meridione ad aver fatto la spesa maggiore d'un siffatto impianto. Ma è anche vero che il decentramento non può avere caratteristiche politiche. Esso può essere solo amministrativo. Uno Stato deve rimanere come ente di coordinamento delle attività delle singole regioni. E deve restare quella salvaguardia dell'aspetto sociale d'un popolo, connessa alle sue necessità e alla capacità di soddisfarle.
La logica di Maastricht naturalmente inficia questo postulato. Perché quel trattato è figlio di quella teoria della globalizzazione egoistica che prescinde dal rispetto delle singole specificità, il quale sta a base del concetto di libertà.
Sono queste le tematiche che una classe politica seria dovrebbe dibattere. Invece ci ritroviamo ad aver da fare con piccoli gnomi che menano il can per l'aia. La politica italiana ha bisogno d'un colpo d'ala. Ma son le aquile a volare oltre le vette. Le quaglie saltano di solco in solco e finiscono impallinate da chi si accovaccia nelle stoppie. Cioè, è una questione di dignità che, come il coraggio, uno non se la può dare.

Vito Errico

 

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