da "AURORA" n° 32 (Febbraio 1996)

L'ANALISI

Volenti o nolenti

Ivano Ernesto Boselli

Finalmente ci siamo: il grosso problema della governabilità ha spinto le forze politiche a mettere le mani (pulite?) nell’impasto costituzionale. Impasta, pugna, infarina, la pagnotta cambia forma, ma gli ingredienti a disposizione sono ancora quelli del primo dopoguerra. Farina di grano duro statunitense. Acqua di fonte nostrana. Una presa di sale antifascista. Lievito di pirla (sempre pronto nel freezer).
La politica italiana, incapace di far fronte ai disastri provocati dalla mondializzazione sul tessuto sociale, avvitandosi su se stessa, propone temi del tutto ininfluenti per la risoluzione dei problemi. Sapere che fine fa il mio voto, una volta espresso, non è certo la prima preoccupazione: che fine fa il mio lavoro? Che fine fa mio figlio? Che fine fa la mia protesta?
Il concretizzarsi dell’elezione diretta del Capo dell’esecutivo anche in Italia, viene considerata da molti risolutiva nel rendere autorevole e certo il successivo governo del Paese. A ragione si giudica positivamente lo svolgersi continuo di un progetto politico di governo, che così diventa progetto amministrativo. Con foga si dice che la durata del Governo non può che essere almeno pari alla durata della legislatura. Si fa di un mero strumento democratico, qual’è qualsiasi sistema elettorale, un fine politico. Segno che nelle prospettive future dei politici italiani non è contemplato il «fare politica». Almeno fino a quando non saranno costretti a farlo tra le loro pareti domestiche.
Non si riescono a trovare meccanismi che creino lavoro? La soluzione c’è! Ecco qua il «Presidente». L’Italia abbandona sempre più il suo ruolo di Paese mediterraneo? Non c’è problema, con il «presidenzialismo» tutto va a posto. Il Sud del nostro Paese rientra nella politica delle privatizzazioni e sarà venduto al più presto a qualche giapponese o arabo? Niente paura! Il «Sindaco d’Italia» aggiusterà ogni cosa.
Non voglio qui analizzare le varie proposte riformiste delle forze politiche, ma solo cercare di capire se si vogliono cambiare gli ingredienti dell’impasto costituzionale oppure solamente l’etichetta e la data di scadenza.
Non mi pare azzardato affermare che le costituzioni co-scritte nei Paesi usciti sconfitti dall’ultimo conflitto mondiale siano da considerare a sovranità limitata. L’impianto rappresentativo e parlamentare a cui sono pervenuti Giappone, Germania ed Italia è, fuor di dubbio, prodotto anche dalla volontà dei vincenti di privilegiare il controllo dei palazzi piuttosto che l’autonomia decisionale di questi. Con la Costituzione entrata in vigore nel 1947, l’imperatore giapponese venne privato del potere esecutivo che passò al Consiglio dei Ministri; ugualmente in Italia, dal ’47, ed in Germania, dal ’49, il Capo dello Stato è eletto dai rappresentanti delle Camere e non ha potere esecutivo. È lampante il diktat alleato: «Basta uomini forti» che abbiano la possibilità di decidere e che debbano rispondere delle conseguenze solo al proprio Paese. Cosa è cambiato dopo 50 anni, ora che i soldati italiani, tedeschi e statunitensi combattono insieme per riportare e garantire la pace nel mondo?
I potentati politici nell’ONU sono gli stessi. I potentati economici nel FMI sono gli stessi. I potentati militari nella NATO sono gli stessi. I potentati scientifici vengono finanziati negli stessi modi. Esattamente come mezzo secolo fa.
Ecco come rappresento gli ingredienti della nostra pagnotta costituzionale.
«Farina di grano duro americano»:
non si sono modificate le condizioni globali di egemonia USA sull’intero pianeta, questo vale oggi per Fini e il suo movimento come valeva ieri per Togliatti e il suo PCI.
«Acqua di fonte nostrana»:
basta rileggere i Princìpi Fondamentali per trovare l’italianità del vivere e se valevano ieri nella Costituente catto-comunista, valgono oggi per i vari Saggi confabulanti che ben si guardano dal metterci le mani.
«Una presa di sale antifascista»:
ancora oggi non è consentita la riorganizzazione del partito fascista come non è consentita l’attività mafiosa, anche ciò, se valeva nel ’47 per vincitori e vinti, vale oggi per garantisti e magistrati di turno.
Non sono cambiati di molto gli ingredienti tant’è vero che anche il «lievito di pirla» è sempre quello:
così come metà degli Italiani votarono per la Monarchia tre anni dopo la fuga da ciclista di Vittorio Emanuele da Roma, oggi metà degli Italiani voterebbe premier il primo illusionista, convinto e convincente, di passaggio.
L’incapacità di architettare uno sviluppo convincente dello Stato ha portato tutti i partiti italiani fuori dalla politica sensata dentro la sventatezza politica, fuori dalla progettualità continua dentro la demolizione del già costruito.
Per verificare ulteriormente la scarsa influenza che ha sulle «cose» un tipo di rappresentanza e rappresentatività piuttosto che un altro, prendo ad esempio il dettato costituzionale francese.
Lo Stato che nacque nel ’45, la «Quarta Repubblica», durò poco. Alla prima occasione favorevole De Gaulle, forte del suo prestigio di Capo della Resistenza, si impadronì del potere senza che i partiti di centro e di sinistra riuscissero a sbarrargli il passo. Nel ’58, con referendum popolare, è stata approvata una nuova Costituzione che accentua in modo preminente il ruolo del Presidente della Repubblica, che viene eletto direttamente ogni sette anni. Spetta al Presidente garantire l’indipendenza nazionale, nominare e dimettere il Primo Ministro e decidere lo scioglimento del Parlamento; egli, inoltre, è anche il capo dell’esecutivo in quanto presiede le riunioni del Consiglio dei Ministri. La sfera dei poteri conferiti al Presidente è di tale ampiezza da sminuire il ruolo del Parlamento. I Deputati non possono fare i Ministri ed il «voto di fiducia» è sostituito da un semplice «voto di censura» che non obbliga il Governo a dimettersi. Un sistema istituzionale, quindi, diametralmente opposto al nostro.
E allora? Sia il governo Berlusconi nel ’94 che quello Juppé-Chirac nel ’95 hanno dovuto fare marcia indietro sulle riforme previdenziali. Se avessero dato prova di ostinazione si sarebbe prodotta, in entrambi i casi, una situazione molto pericolosa. I pericoli che corrono i diritti acquisiti (pensioni, sanità, scuola, assistenza) sono gli stessi da noi come in Francia, anche se qui il Presidente viene eletto dal Parlamento e non dai cittadini come Oltralpe. In Italia, come in Francia, lo Stato sociale è in crisi e la corsa verso i parametri di Maastricht assicura ulteriori giri di vite nonostante i 50 Governi italiani e gli ininterrotti 14 anni di potere Mitterand.
Concludo dicendo che ha poca importanza per il «politico che fa politica» come si vota e quali equilibri tra le istituzioni esistano perché:
a) Il «nero su bianco» ormai è divenuto carta straccia; ciò vale per i contratti collettivi, le norme e gli accordi che dir si voglia. Vige la regola «Qui lo dico, qui lo nego».
b) Il peso che ha l’insieme delle forze mosse dai partiti italiani è poca cosa di fronte al muoversi mondiale delle cose.
Non vale la pena spendere altro tempo.
Giocando: metterei mano sull’aspetto delle autonomie regionali che sono in armonia con l’assetto dell’Unità d’Italia e già previste nell’attuale Carta Costituzionale. E poi, visto che la legge di iniziativa popolare è una dolce chimera, referendum propositivo, per dare la possibilità anche alle estreme minoranze, impegnate e capaci, di partecipare alla costruzione della società, volenti o nolenti.

Ivano Ernesto Boselli

 

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