da "AURORA" n° 32 (Febbraio 1996)

APPROFONDIMENTO

L'acciaio dei Borboni

Francesco Moricca

La lavorazione del ferro nelle Serre calabresi ha una storia molto antica, documentata agli inizi del XVI secolo, quando nel 1529 Carlo V d'Asburgo concede a Cesare Fieramosca (fratello del più celebre Ettore) la gestione delle ferriere di Stilo, nei cui dintorni esistono peraltro giacimenti di minerali ferrosi per i tempi ragguardevoli (ematite, limonite, pirite). Successivamente le ferriere sono demanializzate e, per razionalizzarne il funzionamento, vengono assunte maestranze bresciane, che però nel 1542 abbandonano il lavoro mal tollerando la disciplina di tipo militare imposta dai soprastanti. Attorno agli inizi del Settecento funzionano nel territorio di Serra San Bruno, noto anche per la sua Certosa, trenta fabbriche artigianali con 700 addetti che producono i migliori oggetti in ferro battuto e verniciato in oro del Regno.
Durante il periodo del dispotismo illuminato, sotto Carlo III e Ferdinando IV di Borbone, il governo incoraggia l'imprenditoria locale con sovvenzioni e misure protezionistiche, cercando di favorire l'innovazione tecnologica, in linea coi tempi e con un occhio all'Inghilterra dove si sta preparando la rivoluzione industriale. Ma gli imprenditori calabresi, e non solo del ramo siderurgico, si mostrano restii: preferiscono investire i profitti nell'acquisto di terreni, che vengono per giunta trasformati da seminativi in arboreti. Sono essi principalmente, e non tanto i baroni che vivono a Napoli di rendita, coloro che vanificano le leggi eversive della feudalità e le accorte riforme del Tanucci. Bisognerà attendere la rivoluzione del 1799 e l'energica politica dei Napoleonidi, perché si adotti, e con successo, l'unica alternativa possibile: la diretta gestione delle ferriere da parte dello Stato; sebbene un tentativo in questo senso fosse stato fatto senza successo dal governo borbonico attorno al 1770, quando l'antica ferriera ai Stilo, affittata a un certo Giuseppe Lamberti, venne chiusa d'autorità prima della scadenza del contratto, e si costruì in contrada Cima quella che sarà la grande ferriera di Mongiana, gestita da un funzionario governativo, Massimiliano Conty, coadiuvato a partire dal 1798 da quattro mineralogisti e dodici minatori tedeschi. Gli scarsi successi di Ferdinando IV alla Mongiana vanno attribuiti non poco ai fatti del 1799; né il nuovo funzionario nominato al posto del Conty dal Direttorio, Vincenzo Squillace, consigliato da un nuovo gruppo di mineralogisti, ebbe tempo per far meglio, giacché venne destituito con la prima restaurazione borbonica cui seguì il periodo dei Napoleonidi (1806-1815).
Sotto Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat (che nazionalizzarono anche la grande miniera di sale di Lungro), la Mongiana, posta alle dipendenze del Ministero delle Finanze, fu potenziata con l'installazione di un modernissimo altoforno a riverbero e con laminatoi d'avanguardia acciocché il ferro «si avesse bello e sottile come un foglio», come quello che prima si importava dall'Inghilterra. Si impiantarono macchinari per la produzione in serie di canne da moschetto.
La politica economica dei Napoleonidi (improvvida per l'agricoltura essendosi sotto di loro distrutta in molte zone l'olivicoltura) fu continuata con energia e innegabili successi da Ferdinando II di Borbone, succeduto nel 1830 al padre, Ferdinando I delle Due Sicilie, già Francesco IV di Napoli.
Tuttavia, per quel che prima si è detto, sarebbe più giusto affermare che i Napoleonidi continuarono sulla via tracciata dai despoti illuminati che li precedettero; che questi ebbero in Ferdinando II il loro grande e originalissimo continuatore; ovvero che, in definitiva, la politica economica del Regno, a parte una solo formalmente più drastica eversione della feudalità, non conobbe sostanziali modifiche da Ferdinando I a Francesco II, ultimo esponente della dinastia.
Ferdinando II fu un «despota illuminato», epperò con un profondo spirito religioso che non si trova, nemmeno nella versione deistica, in nessun altro sovrano settecentesco. Vi era in lui, a ben guardare, molto del carattere di un Alessandro I di Russia. Ma non il misticismo e l'assoluta mancanza di pragmatismo; per cui, se lo Zar, vero animatore della Restaurazione, non fosse stato sostenuto da un uomo come il Principe di Metternich, la Restaurazione semplicemente non ci sarebbe stata. E si veda, al riguardo, l'insuperabile e veritiero ritratto di Ferdinando che ci ha lasciato il liberale Raffaele De Cesare nel suo prezioso libro "La fine di un Regno". È da dire che i successi dei Napoleonidi furono favoriti dal «blocco continentale" e dall'economia di guerra, mentre quelli di Ferdinando II si verificarono in regime di libera concorrenza, con una presenza della Inghilterra talmente ingombrante per il suo peso politico da diventare decisamente prevaricatrice; come nel caso emblematico della questione degli zolfi siciliani, quando l'astuto intervento francese prefigurò le potenti condizioni internazionali che dopo qualche decennio determineranno la estinzione della dinastia e l'unificazione della Penisola. (1)
Per comprendere la grandezza di Ferdinando e perché il mio confronto con Alessandro I di Russia non paia azzardato e dilettantesco, richiamo all'attenzione del Lettore il fatto che il re italiano non potè concedere la Costituzione del 1848, perché «spinto dalla forza degli eventi», in quanto, se così fosse stato, la avrebbe poi immediatamente revocata come aveva fatto suo padre nel '21, e senza che vi fosse obbligato dall'Austria. Ma non lo fece. A prova, riportiamo un brano dell'insospettabile De Cesare: «(il Bonanni), ministro di Grazia e Giustizia al primo gabinetto costituzionale, nel 1848, tenne aperto il libro dei Vangeli, sul quale Ferdinando II posò la mano, giurando fede alla costituzione. Quando si levò nel Regno quell'onda di ignominia, che furono le petizioni per l'abolizione dello Statuto, il consultore Bonanni al giovane relatore Giuseppe Colucci, che gli manifestava il suo timore che lo Statuto fosse abolito, rispondeva: "hanno da tagliare queste mani, prima di abolire la costituzione", ricordando il fatto di avere lui tenuto il libro degli Evangeli, in quel memorabile giorno. Ebbe ragione -commenta sardonico il liberale De Cesare-. Le sue mani non furono tagliate, perché ... la costituzione non venne mai abolita. 
Restò abolita di fatto (non essendo mai applicata)» (op. cit., ed. 1895, p. 27). Il perché, involontariamente, ce lo dice lo stesso De Cesare nell'Introduzione: «Ferdinando II disprezzava la borghesia, verso la quale aveva dato prova di severità nelle persecuzioni e nei processi» (cor. mio, p. XIII). Vi sono tuttavia moltissimi fatti documentati, riportati dallo stesso De Cesare in quantità maggiore che presso il borbonico Alianello (cfr. "La conquista del Sud", Rusconi, 1982) , che ridimensionano tale «severità». Il «disprezzo» per la borghesia di «Casalone» (come Ferdinando chiamava scherzosamente Napoli e per estensione tutto il Regno, ma senza malizia, perché chiamava suo figlio, il futuro Francesco II, abitualmente «Lasagna» e più in breve «Lasa») è invece autentico e fuori discussione: non è solo l'aristocratico disprezzo per l'angusto spirito bottegaio e per la pretenziosità aristocraticheggiante e stracciona della borghesia meridionale; è soprattutto il disprezzo per coloro che avevano sempre ostacolato le riforme, e che bisognava frustare perché imparassero a sfruttare al meglio le innovazioni della modernità, come aveva fatto un ammiraglio Caracciolo, un Gaetano Filangieri, soprattutto il figlio di quest'ultimo, Carlo, il famoso Principe di Satriano: militare di razza che si era fatto le ossa sotto Murat, e che, come vedremo fra poco, aveva fondato nei suoi feudi calabresi la più importante industria siderurgica privata del Regno: colui che, come capo del governo di Francesco II, se fosse stato ascoltato, avrebbe forse potuto salvare la dinastia e fatto si che l'unificazione della Penisola avvenisse nella forma federativa, non nel modo in cui effettivamente avvenne e di cui oggi tutti hanno ben ragione di lamentarsi.
Vi è abbastanza, credo, per sostenere la mia tesi inusitata: che cioè Ferdinando II è una personalità storica di statura, europea, una personalità unica, forse il più grande sovrano dell'Ottocento, certamente l'ultimo dei grandi Re che hanno scritto la storia. In definitiva, non revocò la Costituzione, non tanto per non venir meno al giuramento sacro, ma perché intendeva, avendola concessa intenzionalmente e liberamente, conservarla per tempi migliori, quando a lui o ai suoi successori fosse riuscito, coi metodi energici del dispotismo illuminato (qualcosa di sostanzialmente diverso dalla dittatura rivoluzionaria del XX secolo), di fare della borghesia napoletana una vera e propria borghesia organica e non una classe eversiva per partito preso come quella francese, e nemmeno, come la inglese, una accolta di mercanti e disumani sfruttatori della povera gente, «nobilitatasi» mercé l'inganno della «monarchia costituzionale», vera e propria contraddizione logica del concetto stesso di monarchia. Concezione, questa di Ferdinando, che ad onor del vero condividevano tutti i sovrani italiani e gli stessi Savoia almeno fin ad Umberto I, e sancita peraltro con chiarezza nell'esordio dello Statuto albertino. Era la concezione del Re Galantuomo, non per caso giudicato dalla regina Vittoria un risibile «parvenu». Ma questa troppo incensata sovrana dimenticava volutamente chi fossero gli Hannover e chi i Savoia. Questi erano fra le più antiche se non la più antica casata d'Europa. Gli Hannover erano invece tedeschi e stranieri in Inghilterra; avevano avuto la «prestigiosa» Corona britannica non per merito ma dalle mani dei borghesi dopo la cosiddetta «gloriosa rivoluzione», perché erano delle perfette nullità che avrebbero supinamente accettato di farsi manovrare dal parlamento come marionette. Il capostipite della «dinastia», Giorgio I, era notoriamente un bestione coronato, la grottesca parodia di un sovrano, specie se confrontato con Enrico VIII Tudor e con sua figlia Elisabetta I.

* * *

Ferdinando II sale al trono nel 1830, in un momento particolarmente critico della storia europea. È l'anno in cui culmina la grande crisi economica iniziatasi dopo il periodo napoleonico; e anche l'anno che, con l'indipendenza del Belgio, vede la fine del sistema stabilito dal Congresso di Vienna, del «principio di legittimità» messo decisamente alla berlina dalla caduta dei Borboni di Francia, che si vedono spodestati da un Luigi Filippo d'Orléans, il «Re Cittadino», senza che le potenze «reazionarie» sappiano effettivamente «reagire».
Ebbene, nel decennio 1835-1845 anche la economia calabrese, sicuramente era le più arretrate del Regno, conosce uno sviluppo notevole ed accelerato. In una relazione del Presidente della Società economica della Calabria Ultra Prima (una specie di Cassa per il Mezzogiorno di quei tempi promossa da Ferdinando) è detto che nel 1846 l'attuale Provincia di Reggio contava 306.370 abitanti e negli ultimi trent'anni «aveva veduto crescere prodigiosamente la sua popolazione di un terzo». La Società era sorta per modernizzare le tecniche di produzione della seta, dell'ulivo e delle essenze degli agrumi, in specie del bergamotto. Attorno al 1835 furono introdotti modernissimi frantoi, talché nel 1845 «il prodotto dell'olio è di 19.523 botti (...) ed è poco meno che raddoppiato nell'ultimo decennio, poiché prima del 1835 il medio prodotto era di 10.623 botti» (cfr. L. Grimaldi, "Saggi statistici sull'industria agricola e manifatturiera della Calabria Ultra Seconda"). Notevole progresso e diffusione ha altresì la coltivazione della vite, ma il primo posto nell'economia calabrese spetta ancora ai settori della seta e della metallurgia, quest'ultimo, come si è visto, concentrato nella zona delle Serre. Qui, già all'epoca della costruzione della Mongiana (1768), si era avuto uno sviluppo integrato dei settori collegati al metallurgico: quelli boschivo (si adoperava nelle fonderie solo carbone di legna) e del controllo e sfruttamento delle acque di fiumi e torrenti, che da un lato conteneva in qualche modo il drammatico fenomeno delle disastrose piene stagionali e dall'altro forniva energia idraulica ai macchinari. Se ne avvantaggiarono i due versanti delle Serre, lo ionico fino a Stilo, e il tirrenico fino a Pizzo dove si imbarcava per Napoli il prodotto finito. Pizzo era a quel tempo il più importante porto della Calabria dopo Reggio. La crisi del 1840 provocò la chiusura di molte ferriere del Regno, ma non di quella statale di Mongiana che anzi progredì ancora. Oltre all'armamento leggero per la fanteria, si costruivano cannoni terrestri, costieri e navali; e ancora argani, ruote dentate, macchine utensili e materiale vario di qualità e in quantità, che era anche esportato reggendo discretamente la concorrenza straniera. Le Reali ferriere della Mongiana sorgevano lungo il corso dei torrenti Allaro e Ninfo, erano dotate di due altoforni, di due grandi magli e di cinque raffinerie con tre fuochi ciascuna corredati dei relativi maglietti.
Sotto Ferdinando II gli impianti furono concentrati in un unico grande edificio di forma molto allungata e furono, personalmente ispezionati dal Re durante la visita delle Calabrie, nel 1833. L'anno successivo, fra i pini secolari, sulle rive del torrente Stilaro, si iniziò la costruzione di una seconda ferriera, la Ferdinandea, con un altoforno d'avanguardia capace di produrre annualmente 24.000 cantaia di ferraccia e 8.000 di ferro malleabile, con il materiale estratto dalle vicine miniere di Pazzano. Lo stabilimento aveva una pianta simile a quello della Mongiana, ma era più grande. Nei pressi vi era la tenuta di caccia del Re. Egli aveva molto a cuore le «sue» ferriere. Di ingegno versatile e con la passione delle armi, si occupava di tutto: del personale che pretendeva professionalmente ineccepibile, della ricerca tecnologica, della più minuta amministrazione, della stessa condizione degli operai cui si garantiva un relativo benessere e da cui si esigeva la massima disciplina. Ciò nonostante, anzi proprio per questo, non vi era ombra di spirito sovversivo fra gli operai, i quali -ci informa il Padula- «dicono arditamente le loro ragioni ai loro superiori (...), non curano la moneta e, nella quindicina che son pagati, non badano che a spegnere qualche debito e far festa nelle cantine». I soprastanti «son tutti galantuomini e fanno il giornaliero rapporto scritto dei lavori eseguiti. Puniscono i pigri e gl'insubordinati, sottraendo loro la mercede per 1, 2 e 3 dì». Per gli operai esisteva anche qualcosa di simile a un moderno sistema assistenziale.
Le maestranze addette alle ferriere erano nel 1839 circa 600 unità, escluso il personale tecnico e i militari della guarnigione. La produzione annua della Mongiana era di 5.000 cantaia di ferraccia e 9.000 di ferro malleabile. Nonostante la rivoluzione, nel 1848 i suoi impianti furono radicalmente rimodernati e potenziati con un terzo altoforno e la completa ristrutturazione della fabbrica d'armi. Si installò ancora un laminatoio a cilindri del tipo Robinson, andato distrutto con la piena del novembre 1855. Nell'ispezione dello stesso anno, Ferdinando aveva ordinato la costruzione di una strada circolare che collegasse Mongiana a Ferdinandea e alle miniere di Pazzano. Questo per risparmiare sui trasporti. Aveva poi promesso fondi per migliorare l'agricoltura del comprensorio, e concesso che una parte del ferro prodotto fosse venduta sul posto per la costruzione di attrezzi agricoli.
Nel centro industriale delle Serre, a nord di Serra San Bruno e in prossimità del fiume Ancinale, in località Razzona di Cardinale, esisteva una terza ferriera, privata, fatta costruire dal già nominato Carlo Filangieri. Benché avesse militato sotto Napoleone, era stato mantenuto in servizio anche durante la Restaurazione, per le sue provate capacità, col grado di Tenente Generale. Implicato nei moti del '20, aveva dovuto abbandonare l'esercito. Incapace di restare inattivo, aveva impiantato nel suo feudo calabrese questa ferriera. Si sfruttava l'energia idraulica dell'Ancinale; il ferro veniva importato dall'Elba. Vi si producevano annualmente 3.000 cantaia di ferro malleabile. La produzione, di uso civile, era di ottima qualità, tanto che, quando Ferdinando decise la costruzione di ponti interamente metallici sul Garigliano e sul Calore, preferì i materiali della Razzona a quelli della Mongiana e della Ferdinandea. Alla Razzona funzionavano tre altoforni con otto fuochi; vi erano impiegati 80 metallurgici, 100 fra boscaioli e carbonai, 90 addetti al trasporto. La piena che nel '55 distrusse il laminatoio Robinson della Mongiana, distrusse completamente la Razzona, causando la rovina del Principe che vi aveva investito quasi ogni avere.

* * *

La chiusura delle Reali ferriere calabresi, come anche di tutte le industrie siderurgiche del Regno, coincise con l'avvento dell'Unità. La Mongiana e la Ferdinandea finiranno vendute al facoltoso Achille Fazzari, ex-deputato garibaldino. Ma l'Unità italiana non significò affatto l'affermazione della logica di «mercato» sulla politica «protezionistica» e di «intervento statale» che era stata dei «famigerati» Borboni e in specie della «negazione di Dio» Ferdinando II. Questa politica fu ereditata dal Regno d'Italia, e dovette sacrificare la siderurgia meridionale a quella centro-settentrionale, semplicemente perché il nuovo Stato non era in grado di finanziare contemporaneamente l'una e l'altra. Un mercato per l'industria meridionale sarebbe stato ipotizzabile solo dopo la Guerra italo-turca del 1911-12. Prima, questo mercato era quello interno e quello estero che gravitava verso il Nord Europa. Nel Meridione la rete ferroviaria era insufficiente e si fu costretti a potenziare quella del Nord, che era di gran lunga più estesa anche se ancora inadeguata ai bisogni della rivoluzione industriale italiana. Ciò spiega tante cose e ridimensiona di molto gli argomenti addotti dal meridionalismo per giustificare la sua protesta, che fu in definitiva un alibi acciocché le classi dirigenti meridionali e specialmente calabresi continuassero coi governi del Regno gli stessi giochi che avevano sperimentato con quelli borbonici, nel bene e più spesso nel male. Ai Filangieri si sostituirono i Barracco e i Genovese-Zerbi. Questo per l'aristocrazia. La borghesia, come sempre nel meridione, seguì pedissequamente l'esempio dell'aristocrazia, affascinata e istupidita dal mito del «todos caballeros». La decadenza dell'aristocrazia doveva così coinvolgere «ab ovo» la classe che avrebbe «dovuto» prenderne il posto. A tutto vantaggio degli elementi peggiori della società: di coloro che erano stati «briganti» ai tempi dei Borboni, non solo a loro favore ma anche contro, e che sarebbero diventati, gradatamente e inarrestabilmente, la vera classe dirigente del Sud. Si intende, con termine omnicomprensivo, i mafiosi. È da dire, al riguardo che la mafia sotto i Borboni non esisteva. Nelle Due Sicilie quella che potrebbe apparire tale, tale non era in quanto del tutto sotto controllo delle classi egemoni, e dello Stato laddove non esisteva contraddizione di intenti fra questo e quelle.
In realtà la crisi di tutto il sistema creato dai Borboni e portato a perfezione da Ferdinando II, comincia quando, dopo il 1848, superata la paura del "comunismo", aristocrazia e borghesia che avevano trovato consono ai propri interessi prima il dispotismo e poi il riformismo della Restaurazione, cominciarono a trovarlo insopportabile per il carico fiscale che imponeva per modernizzare l'economia. La crisi delle ferriere calabresi e di tutto il nascente apparato industriale napoletano, comincia proprio quando essi avevano imboccato gagliardamente la via dello sviluppo. Esso non poggiava sulla volontà degli uomini «che contavano», ma sulla volontà quasi solitaria di un grande ed energico sovrano e di pochissimi uomini della tempra del Principe di Satriano. Ferdinando aveva capito anche questo. La sua apertura verso il mondo dei più poveri, verso i contadini che aveva sgravato della tassa sul macinato, verso i metallurgici delle ferriere in mezzo ai quali si compiaceva di stare come uomo fra gli uomini, ha un suo significato della massima rilevanza, che idealmente va ricondotto al socialismo autoritario della Restaurazione, che ha una valenza autenticamente virile e socialista ben oltre qualsiasi determinazione storicistica. Che il Re parlasse quasi sempre in dialetto e in modo spesso assai colorito, sebbene fosse, come dicono i suoi detrattori, un «bigotto», ha un significato tutt'altro che folcloristico.
La crisi della Mongiana e della Ferdinandea scoppiò non a caso nel dicembre del 1860. Le commesse militare non arrivavano, e neanche i soldi per pagare gli operai. Vi fu uno sciopero che degenerò presto in una grave sommossa che ebbe strascichi fino al '62, quando addirittura fu teso un agguato al commissario governativo italiano. Si parlò di «manovre reazionarie». Ma la verità emerse incontrovertibile da queste parole che il deputato Còrapi rivolse ai suoi elettori in un comizio: «Era tra i miei desideri locali di ridestare lo stabilimento di Mongiana (...). Ma trovai delle deliberazioni della Camera (...) che il Governo sia un cattivo imprenditore ed amministratore, e che segnatamente l'amministrazione di quello Stabilimento chiudevasi ogni anno con positivo disavanzo a' danni dello Stato: che perciò facea mestieri sottrarlo alla direzione governativa, ed affidarlo alla industria privata».
Parole che sembrano dette oggi.
Nel 1864 l'ingegnere governativo Giordano scriveva, nella sua relazione tecnica:
«La ferriera di Ferdinandea assai bene situata per la vicinanza della miniera ed in mezzo alla vasta foresta di Stilo, non contiene ora che un altoforno soffiato da trombe idrauliche. Essa è però grandiosamente costruita, contenendo oltre all'altoforno attivato un altro iniziato, diversi fabbricati ad uso di alloggio ed officine diverse, magazzini, una segheria e una chiesuola (...)».
V'erano dunque anche «alloggi» e una «chiesuola».
Il concetto sembra quello d'un «falansterio». Se non fosse per quella «chiesuola» 

Note

(1) Nel 1816 Ferdinando I aveva concesso a Londra il monopolio della produzione siciliana di zolfo, venduto poi dagli Inglesi a prezzi altissimi senza che Napoli ne avesse alcun vantaggio. Federico II aveva bisogno di molto denaro per la sua politica. Tanto più che aveva abolito la tassa sul macinato. Decise quindi di togliere agli inglesi la concessione degli zolfi e la attribuì a condizioni convenienti ad una società francese. Così, nel 1836, il Palmerston inviò la squadra del Mediterraneo a bombardare la capitale se il Re non fosse retrocesso dalla sua deliberazione. Ferdinando rifiutò di cedere alla minaccia e mise le forze armate in stato di allarme. Intervenne per una «mediazione» a questo punto la Francia. In realtà Luigi Filippo, certo della vittoria britannica, voleva evitare la possibilità, sullo scacchiere italiano, di un'intesa anglo-austriaca in funzione antifrancese. Ferdinando, che diffidava della Francia quanto dell'Inghilterra, preferì tornare sulle sue decisioni: restituì la concessione agli Inglesi e indennizzò pure la società francese. Fu certamente in questa circostanza che prese quella decisione che avrebbe segnato la sua successiva politica estera: considerare suo alleato soltanto il Papa e nemiche tutte le altre potenze, Austria compresa. Il che dovrebbe chiarire il suo «strano» comportamento durante il '48: dalla concessione della Costituzione all'invio di un contingente napoletano in aiuto di Carlo Alberto in Lombardia. Il De Cesare riporta una serie di informazioni di grande interesse. È comprensibile che non ne tragga le conclusioni, ma è a suo onore che ce le abbia date. Ferdinando non era affatto nemico dell'Unità italiana, ma non voleva che si attuasse a danno dei Napoletani e, ovviamente, della Dinastia. D'altronde l'agire di Inghilterra e Francia nei confronti del Regno prefigurava già nel '36 quello del '59-61. L'aver sfidato il Palmerston fu esiziale per il Borbone. Dopo la repressione del moto siciliano del '48 (che non si può condannare tenendo conto delle vicende del separatismo ottocentesco e novecentesco e anche anteriore), il Palmerston orchestrò, con la complicità del Gladstone allora inviato governativo a Napoli, una feroce campagna denigratoria contro «Re Bomba» (!!!), facendo pubblicare delle lettere in cui il Gladstone asseriva di aver visitato (!!!) le carceri borboniche e di aver constatato «de visu» le «atrocità» a cui erano sottoposti i detenuti politici. La quale affermazione egli poi smentirà nel 1888, «in camera caritatis» fra i suoi amici liberali accorsi a festeggiarlo (cfr. D. Razzato: "La biografia che L. Settembrini scrisse di Ferdinando II", cit. in op. cit. da C. Alianello).
Quanto si è detto induce a qualche rilevante conclusione.
La petizione che i fratelli Bandiera rivolsero al Borbone acciocché si mettesse alla testa del moto italiano, aveva un fondamento tutt'altro che peregrino.
L'«inerzia fatalistica» con cui Francesco II affrontò gli avvenimenti del '60, nonché la cattiva prova che l'esercito offrì fino alla battaglia del Volturno, ma non in questa né dopo, trovano una spiegazione nella più o meno completa e diffusa consapevolezza delle circostanze qui riportate. Tuttavia questa «inerzia fatalistica» non impedì al Re di rinchiudersi a Gaeta con l'Armata resistendo ad oltranza «perché l'onore fosse salvo».
Francesco II può al massimo essere accusato di inesperienza, ovvero, di non aver saputo interpretare le istruzioni paterne, allorché rifiutò, per «rispetto della roba del Papa», il consiglio di annettersi l'Umbria e le Marche che gli aveva dato Carlo Filangieri appena nominato capo del governo.
Ferdinando II, ne sono convinto, non avrebbe avuto bisogno di un simile consiglio. Se fosse stato in condizione di agire, con lui non ci sarebbe stato bisogno della spedizione dei Mille. Si sarebbe subito messo d'accordo col Cavour e la Federazione italiana sarebbe stata una realtà nel 1859; non ci sarebbe stata la «Questione romana» con tutte le sue laceranti conseguenze.
Ove simile mia convinzione sembrasse azzardata, si considerino i fatti seguenti:
Ferdinando morì il 23 maggio 1859, dopo una terribile malattia in atto dal dicembre del '58 e causata da una sacca di pus nella regione iliaca destra per effetto di coxalgia.
«Nei giorni di maggiore sofferenza, che furono quelli dal 25 aprile alla morte (...), il Re non lasciava di prender conto degli affari dello Stato, ma soprattutto, molto ansiosamente, delle cose della guerra (II di Indipendenza) (...). (Ma) si cercava di tenergli occulte, o di comunicargli, a un po' per volta, le notizie, le quali potevano fargli impressione».
Il 12 aprile, visitato per l'ultima volta dalle più eminenti personalità dello Stato, «dal Principe di Satriano (Carlo Filangieri) e dal Generale Ischitella (...) volle la promessa, che avrebbero assistito e consigliato negli affari il nuovo Re». È in effetti, appena salito al trono, Francesco II «si ricordò delle parole del padre, e nominò il Generale Filangieri primo ministro, in luogo di Troja, e ministro della guerra» (De Cesare, op. cit., pp. 282-283, 299)

Francesco Moricca


Lo Zar Alessandro I secondo i dotti e nella coscienza popolare

Personaggio «contraddittorio», secondo gli storici, lo Zar. Il suo documento sulla Santa Alleanza «allarmò» il Papa e fu dal Castelreagh definito un tipico esempio «di sublime misticismo e di sublime stupidità». 
Ai tempi della rivoluzione d'Ottobre era ancora viva la credenza popolare che Alessandro, ufficialmente morto in circostanze misteriose (forse assassinato) a Taganrog, si fosse in realtà dato a vita ascetica, vagabondando fra la Russia e la Siberia sotto il falso nome di Feodor Kusmic'.
Assisteva i poveri e i malati, perfino i deportati, tanto che più volte fu arrestato e poi rilasciato dalla polizia. Sarebbe morto a Tomsk in Siberia, dove la sua casa e la tomba in cui fu sepolto divennero luoghi di pellegrinaggio ritenuti miracolosi.
Pare che i Romanoff, fino a Nicola II, si interessarono parecchio a questa leggenda.


Alcuni dati

Gli stabilimenti napoletani, con riferimento all'Arma tecnicamente più qualificata, l'Artiglieria, erano concentrati nella capitale.
Comprendevano l'Arsenale, la Fonderia, l'Opificio Meccanico di Pietrarsa, la Reale Montatura d'armi a Torre Annunziata ed il Deposito del Treno.
Nel 1860, l'esercito disponeva di 1310 cannoni di bronzo e di 1388 di ferro. Oltre alle armi portatili distribuite ai Corpi combattenti, giacevano nei depositi 71.688 fucili e 18.000 sciabole di diverso tipo.
Occupata Napoli, è documentato che una volta i garibaldini prelevarono dai depositi 2.000.000 di cartucce da moschetto; e, fra l'altro, 4 cannoni rigati da 12, 10 rigati da 12, 6 obici da montagna da 12, 12 mortai a suola da 12, 112.222 tra bombe, granate e palle piene, 3936 tubi a mitraglia, 116 affusti (cfr. Maravigna, "L'Artiglieria garibaldina nella campagna del 1860)


Ricerca senza confini e collaborazione fra pubblico e privato

Nell'"Antologia Militare (delle Due Sicilie)", II semestre 1843, vi è una nota su "Pregi e difetti del sistema del fucile a percussione del sig. Console da Milano". Nella stessa rivista specialistica, I semestre 1844, si legge: «In Napoli, per comando di S. M. Siciliana (...), S. E. il principe di Satriano (ordina) voler dirigere la riduzione di alquanti dei loro fucili al (...) sistema a percussione fulminante (Console), da servire di saggio alle Truppe Napolitane. Ciò non potè (il Console) eseguire in Napoli e vennero d'effetto (a lui) spediti in Roma 4 fucili nuovi di ottima costruzione di quella Regia Fabbrica (di Torre Annunziata)».
Ci si interessò anche al sistema a percussione fulminante dell'inglese Forsyte, fatto conoscere agli esperti attorno al 1814 dal Generale Bentink, noto come tipo I a bottiglietta di profumo, e da cui derivò il Gutiérrez o Forsyte II tipo a slitta, accuratamente descritto e molto criticato dal Colonnello napoletano G. Mori nel libro "Sulle armi da fuoco portatili a fulminante" (1833
).

 

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