da "AURORA" n° 32 (Febbraio 1996)

EDITORIALE

Socialismo, bisogno moderno

Vito Errico

E se si ricominciasse a parlare di socialismo? In tanti arriccerebbero il naso. Coniugherebbero subito il termine con tutte le negatività di questo secolo, fino alle aberrazioni degli Anni Ottanta. Ma erano socialisti, quelli di quel socialismo? Il socialismo è un'idea che comprende comunità e comunanza, di destini, di bisogni, di soddisfazioni spesso negate, di aspirazioni ad essere socialmente vicini al proprio simile, che la realtà ha collocato nelle ambasce e nelle angosce d'un vivere, il quale non ha mai perso i connotati d'un esistere faticoso. Socialismo come idealità, che si oppone a tutte le burrasche dell'individualismo, che sommerge e annega l'uomo. Socialismo come antagonismo di una prassi che mette l'uomo contro il suo simile. Socialismo come contrario di liberalismo, il quale, aprendo e scavando divari fra simili, uccide la libertà.
Sul concetto di libertà si sono basati i più grandi conflitti che hanno stritolato l'essere umano, ne hanno dilaniato membra e anime, ne hanno violentato pianti e sorrisi. Libertà scevra da considerazioni fondanti su significanze assolute. Nulla di quel che percorre le strade del mondo è assoluto. Non ci sono maiuscole nella nostra vita. Maiuscolo è Dio, che sta oltre la finitezza del mondo e la caducità della vita. L'uomo è figlio di Dio? Lo è, perché solo così il pensiero umano può spiegare il mistero della sua origine e con essa l'origine del mondo.
L'uomo avrà la libertà soprattutto nel pensiero e mai consimile potrà incatenarne la libertà. Libertà come rispetto d'ogni singola specificità, la somma delle quali si armonizzerà in un sistema che sarà libero fintanto che sarà garantito il diritto ad esprimersi. Libertà come bisogno di cassare reati di lesa maestà e vilipendio. La legge degli uomini non riuscirà mai a costringere il pensiero sulle cose del mondo. In cosa consiste il perseguire per lesa maestà o vilipendio? In un atto di ipocrisia, in un bavaglio messo sulla bocca, che però non impedisce alla coscienza e al pensiero di parlare. Coscienza e cervello parlano sempre, seppure la loro voce è afona.
Ma come sarebbe questo socialismo?
Democratico. Sì, senza fronzoli e con tanta chiarezza. Portiamo sulle spalle la gerla del nostro passato. In essa ci sono tutti i residuati d'una guerra che abbiamo combattuto, fedeli alla consegna. Compimmo il nostro dovere, come tutti i soldati, senza chiederci ragione di quel dovere, credendo che quella fosse la nostra missione e attestando con la nostra militanza la fedeltà a quel dovere. Vivemmo le nostre illusioni e abbiamo pagato a caro prezzo colpe, che non erano nostre. Abbiamo subito le pulsioni malefiche d'un odio, che non dovevamo sentire. Quella guerra, la abbiamo combattuta, ne abbiamo pagato il fio e l'abbiamo persa. Non c'importa se era giusta o meno. Al soldato non si chiede ragione del proprio operato. Ci arrendiamo al concetto di numero? Riconosciamo il trionfo della quantità sulla qualità? Solo menti plebee possono ergersi ad emettere cotale sentenza. S'è detto che nulla di terreno è assoluto. Siamo stati i portatori di teorie elitarie e commettevamo quel peccato di superbia. Chi del genere umano può stabilire se il proprio simile ha o meno una secondarietà? Siamo, noi di questo pianeta, paritari e così veniamo al mondo. Poi è la vita che ci seleziona. Darwinismo? Nemmeno per sogno. Parleremmo più di destino. Dal letame nascono i fiori, ma i fiori possono divenire letame. Sono gli imperscrutabili disegni divini. Ma sono anche le azioni dell'uomo. La limitatezza della ragione umana non può spiegare in guisa diversa gli accadimenti del mondo.
La democrazia è un metodo. Imperfetto per quanto si vuole e certamente lo è, ma ne conosciamo un altro per governare i popoli? Ce n'è tanti e la storia ben lo sa. Quello della rappresentanza è un antico problema che assilla le meningi umane. Si può credere nell'investitura dall'alto e allora si devono accettare tutte le limitazioni che il metodo impone, fino ad arrivare a credere nella «grazia di Dio» che metteva monarchi e diarchi a capo dei popoli. Oppure le nomine vengono dal basso ed è democrazia. Un'illusione, anch'essa? Può darsi, ché il mondo non è più l'Atene di Pericle. Ma su questa democrazia, sul tipo di democrazia moderna si deve vigilare per non ottenere un effetto dittatoriale. Il mondo come villaggio globale, tutto ristretto nei grovigli della cibernetica, corre un serio pericolo: quello creato dalla democrazia virtuale che partorisce verità, tali sol perché si propagano e veicolano sui circuiti di collegamento mass-mediologico. Il mondo è come lo vede ogni uomo, non come vorrebbero che lo si vedesse. È un concetto importante, specie per noi cittadini di società «evolute», sempre più renitenti all'approccio con l'aspetto vero della vita, ch'è fatta di giovinezza e vecchiaia, di godimenti e sofferenze, di soddisfazioni e dispiaceri. La verità virtuale della telematica e della cibernetica ci trasmette le prime, solo quelle ed oscura i secondi, compiendo un'operazione tanto perniciosa da distruggere l'essere vivente, quando accadono i crepuscoli dell'esistenza e si profila la notte della vita. Ed allora ritorna quel bisogno di socialismo, di quell'idea che porta l'essere umano ad essere prossimo del suo simile e proprio in quei crepuscoli, giusto al profilarsi delle tenebre.
E i crepuscoli della vita non mancheranno mai. La natura dell'uomo è perversa, l'egoismo e l'individualismo costituiranno sempre i geni fondanti e malerici della razza umana. Si tratta di dominarne le manifestazioni, di gestirne i processi di sviluppo. Purtroppo avremo sempre ricchezza e povertà ma tutto sta nel frenare le prevaricazioni della prima e garantire le limitazioni della seconda. Si può dire in uno: dare dignità ad entrambe. Lotta dura, che dura da quando esiste il mondo ed andrà avanti, fintanto che la specie umana girovagherà per le contrade del globo.
In questo contesto s'inserisce la garanzia del lavoro come altro fattore della produzione. E qui va fatta una precisazione. Certo, non son più tempi di Pelizza da Volpedo. Il «quarto stato» ha dismesso gli abiti e i cappellacci laceri. Però l'indigenza resta. E restano le «morti bianche», i sacrifici del sangue versato sull'ara d'un tempio, che turibola d'incenso solo il capitale. Al lavoro vanno soltanto i benefici effimeri del consumo. Di questi tempi vengono a mancare anche quelli. C'è uno squilibrio che nessun mercato potrà colmare. È una nozione iniziale dell'economia, quella del mercato che tende all'equilibrio. Ma non lo raggiunge, non può farlo. Ecco allora il bisogno di quella che Tony Blair chiama «stakeholder economy», imprecisamente tradotto come «economia della partecipazione». Bisogna creare interesse e responsabilità e l'azienda è anche comunità. Statalismo? Nemmeno a parlarne. L'uomo deve stare in piedi da solo, ma la volontà non è sufficiente a mantenergli la posizione eretta. Spesso, invece, è proprio la carenza di strutture che vince la volontà e riduce l'uomo in ginocchio.
È un discorso difficile? Questo socialismo è un'utopia?
L'utopia aiuta a vivere e non fa sprofondare nel freddo del razionalismo, che ha prodotto il darwinismo sociale e il capitalismo, due germi che, lasciati liberi d'una libertà ch'è libertinaggio, uccidono l'uomo.

Vito Errico

 

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