da "AURORA" n° 32 (Febbraio 1996)

EUROPA

Europa dei popoli o Europa dei mercanti

Cesare Catilina

Al Trattato, firmato nella cittadina Maastricht il 7/2/92, che tratta essenzialmente di questioni economiche e finanziarie, hanno aderito i quindici Paesi già membri dell'Unione Europea. Con tale accordo i Paesi comunitari si propongono, attraverso tre fasi successive intermedie, di raggiungere l'obiettivo della moneta unica (il cosiddetto "Euro") e con l'ausilio di ulteriori intese multilaterali, tipo quella già parzialmente operativa nota col nome di «Spazio Schengen», di rimuovere tutti gli impedimenti doganali o burocratici che intralciano la libera circolazioni di uomini, merci e risorse finanziarie all'interno della Comunità.
Gli "Accordi di Maastricht" obbligano i Paesi firmatari a mantenere o far rientrare le economie nazionali nell'ambito di rigorosi limiti, i cosiddetti «indicatori di convergenza», che sono sostanzialmente tre: un tasso d'inflazione non superiore al 3% annuo; mantenere il «volume» dell'indebitamento pubblico complessivo ad una «massa monetaria» non superiore al 60% del PIL annuale; ridurre il «disavanzo» della spesa pubblica, sempre in rapporto al PIL annuale, sotto il 3%.
I costi connessi agli obblighi imposti dal Trattato sono altissimi per tutti i Paesi firmatari: basti pensare alla «virtuosa» Germania, nazione modello della UE per saldezza della struttura economica, stabilità politica ed efficienza burocratica nella quale la volontà di rispettare i parametri di Maastricht ha provocato una crisi occupazionale quasi «italiana», con oltre 4 milioni di disoccupati, pari al 10,7% della forza lavoro. Per tacere della Francia costretta a fronteggiare un chomage che tra i giovani è del 40%, nonché le rivendicazioni sempre più aggressive dei dipendenti pubblici ed una crisi monetaria che riesce a fronteggiare solo grazie ai rapporti privilegiati con Bonn. Quello che è pesante per il colosso tedesco diventa insopportabile per Paesi che, come l'Italia, sono gravati da un pesante debito pubblico e non dispongono di un'organizzazione dello Stato adeguata.
Da qui le esortazioni di sindacalisti (Larizza) e politici (Fini, Bertinotti, Martino) a modificare, rinegoziandoli, i tempi d'attuazione e le condizioni di «convergenza» imposte da Maastricht, in quanto che l'Italia «non è in grado di sopportare i costi sociali che il rispetto del Trattato comporta». Per quanto (non è il caso di Bertinotti, da sempre critico sull'integrazione monetaria) strumentali e rispondenti a interessi di bottega elettorale o suscitate da pregiudiziali «ideologiche» (è il caso dell'ex-Ministro degli Esteri del governo Berlusconi, l'economista Martino; da sempre rigidamente allineato sulle teorie, fondamentalmente anti-europeiste, dell'«anarco capitalismo»), queste preoccupazioni non solo sono legittime, ma anche largamente condivise da europeisti convinti come il leader della SPD tedesca Lafontaine e dai vertici socialisti francesi; il numero dei cosiddetti «euro-scettici» cresce esponenzialmente con l'avvicinarsi del fatidico 1999. Anche se, ed è il caso di sottolinearlo, il dilagare della disoccupazione e la progressiva erosione del potere d'acquisto dei salari (per quanto riguarda in specie l'Italia) solo in parte può attribuirsi alla contrazione monetaria conseguente agli obblighi di Maastricht in quantochè esse dipendono da altri fattori, i più rilevanti dei quali sono;
a) la disoccupazione è un evento sociale irreversibile in tutti i Paesi sviluppati, almeno finché l'attuale modello di sviluppo rimane inalterato ed il metro di misura del benessere delle società «civilizzate» è il «Mercato». La robotizzazione della produzione industriale e la tecnologizzazione dei servizi ha di molto ridimensionato l'apparto del lavoro «umano» ed il terziario, per le stesse ragioni, non è in condizioni, come accadeva negli anni Settanta e Ottanta, di assorbire, compensandola, la perdita di posti di lavoro nel comparto industriale. E per riqualificare l'agricoltura, cenerentola della Comunità, dilatandone il numero degli addetti, occorre impegnare forti capitali al momento non disponibili. I tanto decantati «mestieri alternativi» non sono una soluzione; la loro incidenza sul piano occupazionale è trascurabile. La sola prospettiva per una soluzione parziale dei problemi legati alla disoccupazione è data da tre settori in cui è sempre più urgente l'intervento pubblico; recupero delle aree inquinate, sistemazione idrogeologica del territorio nazionale, restauro del patrimonio artistico e riqualificazione dei centri storici;
b) il deprezzamento del potere d'acquisto dei salari ha cause diverse: le più importanti sono: la cosiddetta inflazione fiscale, innescata dal continuo lievitare delle imposte indirette (carburanti, bolli auto, patenti, ecc.), dal costo sempre maggiore dei servizi erogati dallo Stato e dagli Enti Locali (trasporti, energia, telecomunicazioni, ecc.), dal rincaro dei prezzi nei beni di largo consumo, soprattutto dei prodotti industriali, solo in parte giustificato dai maggiori oneri derivanti dall'approvvigionamento di materie prime. La responsabilità di tale situazione è imputabile (oltreché all'ingordigia dei ceti imprenditoriali) ai sindacati, i quali nel sottoscrivere gli accordi sul costo del lavoro (luglio '93) non hanno preteso da governo e padronato garanzie sufficienti sul versante dei prezzi di beni e servizi. E così, all'aumento dei prezzi alla produzione (più 5,2%) e al consumo (più 5,4%) nell'anno '95, e ad un tasso d'inflazione ufficiale di oltre il 6%, ha fatto da contraltare un incremento medio salariale del 2,5%. Uno scippo vero e proprio, certo non attenuato dalle lodi sperticate elevate dai nostri politici al «senso di responsabilità dei lavoratori».
Appare chiaro, considerando questi dati, che lo spauracchio Maastricht è stato ed è utilizzato come cortina fumogena dietro la quale occultare interessi ad esso estranei. La propensione ad attribuire agli Accordi di integrazione monetaria tutti i mali presenti e futuri dell'Italia si va sempre più accentuando sia nel ceto politico (con l'obiettivo di scaricare su fattori esterni responsabilità interne), sia nei mass media, in maggioranza controllati dalle oligarchie finanziarie che, pur essendo consapevoli della necessità di rispettare i «parametri di convergenza» della UE, intendono riversarne gli oneri derivanti sui lavoratori dipendenti ed autonomi. In proposito è illuminante il documento programmatico rimesso al Presidente del Consiglio incaricato, Antonio Maccanico, da Luigi Abete a nome del direttivo della Confindustria. In esso l'Associazione degli Industriali «chiede» che la manovra per la variazione del disavanzo '95/'96 non sia fatta utilizzando la leva fiscale, ma solo attraverso ulteriori tagli di spesa: riduzione del numero dei dipendenti pubblici, con blocco del turn over (non sostituire i pubblici dipendenti che, in percentuale di circa il 5% annuale, maturano il diritto alla pensione di anzianità) incentivando, attraverso la maggiorazione degli stipendi, la permanenza nel lavoro dei pensionandi per un periodo ulteriore di cinque anni (con tanti saluti ai giovani in attesa di un posto di lavoro), ed inoltre: blocco tutti i trasferimenti di risorse agli Enti locali, lasciando ad essi maggiore autonomia impositiva; per dirlo in soldoni, alla pressione fiscale rimasta invariata dello Stato centrale dovrebbe aggiungersi quella periferica di Regioni, Province e Comuni volta a compensare, con nuove tasse locali, i mancati finanziamenti dello Stato per la trascurabile sommetta di 23 mila miliardi. Se ciò non fosse sufficiente, gli industriali prospettano la modifica dei meccanismi di finanziamento della spesa sanitaria attraverso un'ulteriore addizionale IRPEF a carattere sempre territoriale.
Gli industriali hanno, dobbiamo ricordarcelo, a differenza della classe politica, il pregio della chiarezza: essi non intendono rinunciare a parte dei maggiori profitti derivati dalla crescita e dai minori costi della produzione (l'Italia è tra i Paesi occidentali quello in cui si è registrata la maggiore crescita produttiva nel '95, grazie alle incrementate esportazioni favorite dal deprezzamento della Lira) per pagare il prezzo del biglietto d'ingresso a Maastricht. Quantunque il potere politico ed economico continui, in perfetta malafede a sostenerlo, i sacrifici ai quali la comunità nazionale è stata sottoposta in questi ultimi tre anni non sono, se non in misura marginale, attribuibili al Trattato di integrazione monetaria. È del tutto evidente che dopo un ventennio di finanza pubblica allegra il Paese sarebbe stato comunque costretto, pena il fallimento, al riequilibrio dei conti interni.
L'ennesima farsa all'italiana, forse inscenata allo scopo di distogliere la pubblica opinione dai pericoli reali celati nel Trattato, ha finito col suscitare, nel Paese, umori anti-europei finora assenti. «Pericoli» con grande chiarezza evidenziati da uno dei più prestigiosi ed autorevoli quotidiani francesi: «Vi è una tendenza a lasciare che l'Europa si costruisca di soppiatto, tra banchieri, politicanti e tecnocrati, tenendo i cittadini in disparte (...)» ("Le Monde" 28/3/95). Il vero nodo scorsoio che si va stringendo al collo dei Popoli d'Europa, come giustamente sostiene il giornale francese, è rappresentato dal prevalere, nel Trattato, delle ragioni economiche su quelle politiche e, soprattutto, dal potere immenso che esso conferisce ad una ristretta oligarchia di banchieri.

La Banca Centrale Europea

La lettura del Trattato di Maastricht e dello Statuto della BCE è in proposito molto istruttiva. Da essa emergono con solare chiarezza due cose, la più perniciosa delle quali è la totale indipendenza della Banca Centrale dal potere politico. Secondo quanto sostengono l'art. 107 del Trattato e l'art. 7 dello Statuto, né la BCE, né altra Banca Centrale nazionale, né un qualsiasi organo decisionale o componente di quest'ultimo possono accettare o sollecitare istruzioni da istituzioni politiche, comunitarie o nazionali. Questo concetto è rafforzato da quanto affermato nell'art. 108 del Trattato e nell'art. 14, primo comma, dello Statuto i quali impongono ai singoli Stati aderenti alla UE, di rendere compatibile la loro legislazione nazionale, compreso lo Statuto della Banca Centrale, con le disposizione del Trattato e dello Statuto. L'art. 14 di quest'ultimo, al secondo comma, stabilisce che il mandato dei governatori delle Banche Centrali nazionali non può essere inferiore ai cinque anni e che essi non possono essere rimossi dal potere politico. Infine, l'art. 104, primo comma, del Trattato e l'art. 21 dello Statuto precisano: è fatto divieto alla BCE, come pure alle Banche Centrali nazionali, di accordare qualsivoglia tipo di credito alle istituzioni o agli altri organi della Unione Europea, alle amministrazioni centrali o periferiche di essa, alle altre autorità ad essa dipendenti o ad organismi e imprese pubbliche degli Stati membri, come pure di acquisire sul mercato primario titoli del debito pubblico dei medesimi.
Da tutto ciò non si può non dedurre che il potere effettivo conferito alla «casta finanziaria» è immenso, tanto più che questo è svincolato da qualsiasi controllo politico da parte degli organi rappresentativi della volontà popolare democraticamente eletti. Anzi, la totale discrezionalità e indipendenza d'azione dei banchieri nel manovrare enormi masse monetarie, espone i vertici politici e le burocrazie amministrative dei Paesi comunitari al costante ricatto dei «dittatori dell'Euro» che sono nella condizione, approvando o negando interventi ed investimenti, di determinare il successo o la rovina di singoli uomini politici e di intere nazioni. Di questo, potere i «padroni della moneta» hanno piena consapevolezza, tanto è vero che qualche «iniziato» ha avuto la sfrontatezza di dichiararlo pubblicamente: «(...) L'indipendenza dal potere politico è un'antica richiesta delle Banche Centrali (...) che desiderano affermare il proprio prestigio e portare a compimento un processo che li ha resi potenti negli ultimi due secoli, soprattutto dopo che l'oro ha cessato di esercitare un'influenza diretta sulla circolazione monetaria. Ed è fatale nell'evoluzione delle istituzioni che l'indipendenza diventi la richiesta che corona e consolida la posizione attraverso il riconoscimento di uno status che attua la separazione dall'antico protettore; in questo caso il Tesoro dello Stato» ("La Banca Centrale europea: istituzione concettualmente «evoluta» o inizio della sua evoluzione?", Mario Sarcinelli, conferenza all'Università degli studi di Pisa, 3/4/93).
L'integrazione economica, ed i necessari risvolti monetari, pensati e attuati per facilitare, precedendola, l'unità amministrativa e politica, nel rispetto delle particolari peculiarità delle singole nazioni ha, con l'ausilio del Trattato di Maastricht, conferito alla struttura finanziaria il ruolo guida proprio alle èlites politiche. Il rischio, ormai incombente, è di consegnare il futuro dell'Europa nelle fredde mani della ristretta cerchia dei «conta moneta» che già dettano le loro inaccettabili condizioni, come quella di separare la moneta dallo Stato in quanto «i governi, essendo esposti al continuo ricatto elettorale» non sarebbero in grado di garantire la sufficiente indipendenza, rispetto alle «esose» richieste degli elettori. La tanto celebrata partecipazione democratica retrocessa, dai banchieri di Maastricht, al rango di «ricatto elettorale»; c'è di che rimanere allibiti! Le oligarchie mondialiste hanno finalmente in mano la chiave per piegare le residue resistenze del Vecchio Continente!
È pur vero che gli Accordi di Maastricht non si esauriscono nel solo rispetto economico, avendo risvolti politici che trattano di pubblica amministrazione, di fiscalità, di rapporti tra Stato e cittadino, di imprese e servizi, di opportunità di lavoro, di fattori di produzione, di retribuzione ottimale, di politiche sociali e normativa frontaliera, ma tutto questo è subordinato e schiacciato, oseremo dire asservito, ad un dato di fondo: lo strapotere del potere finanziario.

Il trattato di Schengen

Gli Accordi di Schengen, dal nome della cittadina lusserburghese nella quale sono stati sottoscritti, nel 1985, da Francia, Olanda, Lussemburgo, Belgio, Germania ed ai quali si sono associati, dopo qualche mese, Italia, Portogallo, Spagna e Grecia, rendevano operativi e fattibili alcuni dei presupposti sulla cittadinanza europea successivamente codificati a Maastricht. Dopo l'allargamento della CEE, passata da 12 a 15 Stati membri, ai nove si è unita l'Austria. Fuori dal Trattato sono rimaste Svezia e Finlandia, impedite al pari della Danimarca, dalle incognite destate dalla mancata adesione della Norvegia che giudica lo «Spazio Schengen» incompatibile con precedenti accordi multilaterali simili stipulati nell'ambito del Consiglio Nordico e quindi dalla necessità, conseguente all'adesione, di creare barriere e controlli doganali lungo tutta la smisurata frontiera tra Norvegia e Svezia. Nell'ottobre '95, l'impasse è stata superata avendo i Paesi Schengen deciso di integrare nel Trattato Norvegia e Islanda, anche se questi non fanno parte della UE, così consentendo la partecipazione degli altri Paesi scandinavi e della Finlandia. In quanto alla Gran Bretagna, essa si è rifiutata di far parte (in virtù delle sue note posizioni «minimaliste» sulla comunità) della zona di «libera circolazione» delle persone, riuscendo ad evitare che tali Accordi venissero inseriti nella legislazione e nelle norme della UE. Quelli di Schengen sono accordi che hanno un carattere esclusivamente governativo, non vincolante per i Paesi della Comunità. Il rifiuto inglese ha determinato anche il congelamento dell'Irlanda.
Pur con tutti i problemi enumerati lo «spazio Schengen» può essere a ragione considerato uno dei pilastri del Trattato di Maastricht, in quanto rende fattibile uno dei presupposti fondamentali di questo: la cittadinanza europea. Appurata questa valenza, è perlomeno curioso l'atteggiamento dei mass media italiani (peraltro sensibilissimi a tutto ciò che si muove in ambito comunitario), rimasti del tutto indifferenti allorquando, il 26/3/95, Spagna, Benelux, Germania, Portogallo e Francia davano corso all'attuazione degli Accordi escludendo l'Italia. Eppure, a nostro avviso, si trattava di un evento straordinario: era la prima volta che, almeno formalmente, il nostro Paese rimaneva al palo, fin dai tempi del Trattato di Roma, in un progresso comunitario.
Tutto ciò è istruttivo dell'indipendenza e della libertà dei mezzi d'informazione italiani. Lo è soprattutto considerando l'enorme, continuo battage al quale siamo sottoposti a proposito della necessità di rispettare i tempi di «convergenza monetaria», rispetto al silenzio sulla esclusione dallo «Spazio Schengen» determinata dall'incapacità dello Stato italiano di controllare le proprie frontiere, tanto da «ospitare» nel suo territorio un numero enorme, solo approssimativamente calcolabile, di extra-comunitari e da essere privilegiato dall'immigrazione clandestina quale «base» per «invadere» l'Europa comunitaria.
Il Decreto Dini, emanato in fretta e furia (in virtù di un vero e proprio aut aut della Lega Nord, che minacciava di non votare la Legge Finanziaria) non ha rimediato alle storture della Legge Martelli; basti la considerazione che delle diverse migliaia di clandestini identificati e fermati (l'ingresso clandestino nel nostro territorio è illegale) e delle centinaia di arrestati e condannati per aver commesso reati, non uno è stato espulso, grazie agli appigli burocratici contenuti nel Decreto Dini, inseriti in virtù delle pressioni del Polo progressista e della intollerabile ingerenza delle organizzazioni vaticane, in primo luogo la Caritas.
La politica dell'Italia, in tema di immigrazione, è stata con forza denunciata anche in seno al Parlamento europeo che ha più volte sottolineato la negligenza delle autorità italiane nell'adottare le direttive comunitarie, persino quelle che contemplano aspetti non secondari di sicurezza interna. Per fare un esempio, la normativa comunitaria sulla protezione dei dati informatici sulle persone prevista dal SIS (Sistema Informatico di Schengen), che consente lo scambio di informazioni tra forze di polizia dei Paesi aderenti, è stata solo approvata dalla Commissione Giustizia della Camera e deve ancora passare al vaglio del Senato. 
Non si comprende, comunque come possa coniugarsi il quotidiano cicaleggio sulla necessità di rispettare le «convergenze» di Maastricht col totale silenzio sugli obblighi di «Schengen» non certo secondari rispetto al primo visto che prevedono il riconoscimento esplicito dell'esistenza di un «cittadino europeo» a fianco del «cittadino nazionale».
In conclusione resta da aggiungere che non sono i tempi di attuazione delle «convergenze» di Maastricht che vanno ridiscussi, ma la sua sostanza: la delega in bianco, sul controllo della circolazione monetaria, al «direttorio» della Banca Centrale che con ciò accumula un potere vastissimo e insindacabile esponendo i Popoli d'Europa al rischio della tirannide finanziaria. L'unità del Continente deve essere, come nella prospettiva dei Padri fondatori, un fatto essenzialmente e sostanzialmente politico di cui il mercato e le convergenze monetarie sono componenti importanti ma non predominanti.

Cesare Catilina

 

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