da "AURORA" n° 32 (Febbraio 1996)

TRA STORIA E CRONACA

Radici opposte

Giovanni Mariani

L'ulteriore approfondimento in merito al dualismo «Socializzazione - Corporativismo», può apparire a prima vista inutile, dopo quanto si è scritto su queste pagine. Ma così non è, visto e considerato che l'argomento viene spesso travisato e malposto anche da coloro i quali sono considerati «esperti della materia».
Orbene, il succo della «questione» non è di chiarire in modo definitivo ed esaustivo il principio socializzatore (cosa già fatta, a suo tempo, in queste pagine), quanto piuttosto di dimostrare fino a che punto tale principio derivi da una concezione politico-sociale dichiaratamente antagonista al Corporativismo.
Per fare questo è necessario evidenziare il diverso «humus» sociale e culturale da cui queste idee sono germogliate. Ed è bene essere netti, vista la sostanza dell'argomento, altrimenti si rischia di non capire e, soprattutto, non far capire ai lettori di "Aurora" la coerente linearità nella quale il Movimento Antagonista-Sinistra Nazionale si è sempre mosso.
Va subito detto che il Corporativismo, a differenza della Socializzazione, nasce ben prima del Fascismo e, senza timore di smentita, possiamo serenamente dire che l'idea corporativa affonda le sue radici nell'area del nazionalismo italiano di inizio secolo, grazie soprattutto all'apporto teorico di Alfredo Rocco. È superfluo rimarcare che il «parto» del futuro Guardasigilli del Regime rimarrà in embrione fino al '26; ossia sino all'affermarsi di quel fascismo totalitario che noi riteniamo sorpassato, improponibile e detestabile in non pochi dei suoi aspetti, pur riconoscendo l'efficacia di alcune sue riforme sociali.
Per comprendere appieno questo passaggio storico, è necessario fare qualche passo indietro, tornando per l'appunto alle radici culturali dell'idea corporativa. «Radici» che traggono linfa vitale dall'ambiente eterogeneo della destra borghese, militarista, imperialista, antidemocratica e antisocialista del primo Novecento. La rivista "il Regno", ad esempio, rappresentò senza dubbio la fucina di una valente pattuglia di giornalisti e uomini politici che, negli anni seguenti, influenzeranno negativamente il fascismo egemonizzandolo e svuotandolo, fino in fondo, dei suoi contenuti originari. Tra questi antesignani del pensiero borghese è doveroso citare Prezzolini ed i suoi articoli pubblicati su "il Regno" tra il 1903 e il 1904, che anticipavano di qualche anno il mito della «riscossa borghese». Il futuro direttore de "la Voce" cerca di dare una «coscienza di classe» alla borghesia italiana, incitandola ad una sorta di lotta di classe alla rovescia in senso antiproletario e antisocialista. Leggiamone alcuni stralci: «(...) Ciò che è mancato finora alla borghesia italiana è stato l'esempio e una voce di forza. Il luogo comune corrente fra gli stessi borghesi, il loro nemico interno, era una certa convinzione d'esser condannati a dover presto o tardi cedere tutto al nemico, e questa convinzione l'ha troppo spesso gettata nella viltà dell'inerzia o nella colpa delle concessioni. (...) Ed essere convinti di perdere è la prima ragione di perdere; la fede nella vittoria invece è la prima ragione di vincere. È mancato finora un esempio e una voce: cioè un Uomo. Noi crediamo fermamente al potere degli individui sulla storia dei popoli. (...) Diamo un Chamberlain alla borghesia italiana, ma adatto ad essa, capace di svegliare il sentimento di classe, e quell'egoismo che difende, offende, rende servi e distrugge. (...)».
Il Prezzolini di quegli anni (il medesimo antesignano della «liberal-democrazia» che tanto piace a Montanelli!), pare ossessionato dall'idea dell'«uomo forte», capace di dare forza al sentimento di classe della borghesia. E la «... indispensabile edificazione di una élite borghese contrapposta alla marea minacciosa delle masse proletarie ...» (da una lettera a Vilfredo Pareto), procede di pari passo con la creazione e la diffusione di riviste analoghe a "il Regno", quali il "Leonardo" e "l'Ermes" che fanno da sponda alla crescente esaltazione della guerra che aveva contagiato personaggi come Giovanni Papini. È il caso di riportare lo stralcio di un articolo di quest'ultimo comparso su "il Regno": «(...) Il diritto alla vita manca interamente di ogni giustificazione razionale (...)».
Il marxismo rovesciato auspicato da Prezzolini viene allargato e sviluppato da Corradini che, dalle pagine dell'onnipresente "il Regno", preconizza la sostituzione del «mito della Nazione» a quello della «lotta di classe», teorizzando la guerra fra nazioni per la supremazia, con episodici quanto significativi richiami all'esaltazione della razza. In concomitanza con la crisi bosniaca del 1908 si coagulano attorno alla nascente «tavola rotonda» del nazionalismo italiano le più disparate correnti, non di rado tra loro antagoniste. È il caso di Scipio Sighele, elemento propulsore dell'irredentismo e di elementi provenienti dal sindacalismo rivoluzionario. È bene però tener presente che le tematiche irredentistiche, all'interno del nazionalismo, sono compresse o alimentate a seconda delle convenienze politiche del momento a differenza della tematica antidemocratica e antisocialista, nonché del classismo borghese che rimarranno costanti, tanto da divenire, nel tempo, il nocciolo ideologico «duro».
L'eterogeneità della compagine nazionalista si dissolve nel biennio 1910/'11, in concomitanza con l'affermarsi di Enrico Corradini quale «stella polare del nazionalismo italiano» che ribadisce in modo molto più incisivo il concetto di «Nazione proletaria», con il bellicismo sciovinista che ne consegue. La guerra di Libia se da una parte delinea e sancisce l'affermazione del Direttorio nazionalista composto da Corradini, Coppola, Federzoni e Rocco (che sarà poi anche il nucleo «intellettuale» de "l'Idea Nazionale"), dall'altra decreta il definitivo allontanamento dalle proprie fila degli oppositori alla linea imperialista e antidemocratica. Emblematica, in proposito, è la diffusione d'un opuscolo scritto da Scipio Sighele titolato "Il nazionalismo e i partiti politici", pubblicato nel 1911, che accusa, senza mezzi termini, la direzione dell'Associazione Nazionalista di conservatorismo becero avendo essa stretto una ferrea alleanza con la destra cattolica ed il capitalismo più retrivo (che ben poco avevano da spartire col «patriottismo» teorizzato da Sighele). Ovviamente al jaccuse di Sighele seguirono rabbiose risposte dai suoi ex-«sodali» di partito. Particolarmente efficaci furono le polemiche puntualizzazioni di Meraviglia che tra l'altro sosteneva: «La sovranità non spetta gli individui». Ma la diaspora non si esauriva con l'uscita di Sighele. Il secondo Congresso nazionalista, tenutosi a Roma nel '12, riacutizza lo scontro dialettico tra democratici e antidemocratici; la mozione Arcori-Valli che propugnava un avvicinamento alla causa democratica «erroneamente interpretata dagli altri partiti», non trova particolari consensi all'interno di un Movimento già da tempo incamminatosi sulla strada dell'autoritarismo.
La scissione definitiva della corrente irredentista e rivoluzionaria nel 1911, seguita da quella democratico-moderata nel '12, lascia libero il campo alla componente reazionaria di Corradini, Rocco e Federzoni che, depurata da ogni opposizione interna, procede a «ranghi serrati» verso un nazionalismo fondato «sul principio di rigida tutela della sovranità dello Stato». Infatti, la diaspora democratica è determinante nel lasciare campo libero «agli sciamani della religione dello Stato», quali si possono definire i Rocco e i Federzoni. È persino superfluo, qui ricordare, l'estraneità «al culto dello Stato» nel fascismo delle origini.
Ma è solo dal '14 in poi, con l'affermazione definitiva di Alfredo Rocco alla ribalta teorica della compagine nazionalista che si pongono le basi politiche ed economiche del fascismo-regime. Illuminante in merito l'analisi fatta da Paolo Ungari nel suo "Alfredo Rocco e l'ideologia giuridica del fascismo": «(...) Una società organica immota nelle sue gerarchie, regolata da una ferrea ragion di Stato, potrà ben negare nei dazi protettivi una spoliazione a danno del maggior numero e anzi giustificandoli come un sacrificio dell'organismo a se stesso, per il miglior sviluppo di un organo vitale; mentre considera gli alti salari e gli stessi diritti individuali come concessioni elargite ai singoli nel suo proprio interesse e, come tali, in ogni tempo revocabili. Certo è interesse della nazione che gli individui ad essa appartenenti siano in buone condizioni materiali e morali, ma ciò unicamente perché è interesse di ogni organismo che i suoi organi vivano fisiologicamente. (...) Le Corporazioni che teorizzava fin dal '14, d'antico ritengono solo il nome, in realtà vi si rispecchia una visione tutta moderna dell'intimo dinamismo della concentrazione capitalista, con la sua tendenza immanente a rimodellare l'intero corpo sociale secondo la struttura dei grandi imperi industriali che progressivamente si vanno assoggettando le masse. (...)».
Ed è in questa cornice che si inquadra la critica allo Stato «illiberale» teorizzato da Rocco, fatta da Nicola Tranfaglia: «(...) L'intuizione centrale di Rocco, parte in realtà dalla lotta di classe, ma a differenza di Corradini che ha operato una meccanica transposizione dall'interno all'esterno suscitando il mito efficace ma grossolano della «nazione armata», Alfredo Rocco utilizza tale dato per promuovere con le corporazioni sindacali in cui coesistono forzosamente lavoratori ed imprenditori in una più salda disciplina sociale. Attribuendo poi allo Stato il controllo assoluto delle corporazioni, Rocco, dimostra di aver compreso il fenomeno moderno delle masse organizzate e del crescente intervento statale nell'economia, e d'utilizzarlo per costruire un ordinamento autoritario in cui l'individuo deve annullarsi per lasciar posto alla esaltazione dello Stato. È la negazione della ideologia liberale, ma la sua forza sta nel servirsi di elementi nuovi attinti dalla realtà in evoluzione accanto a motivi vecchi del reazionarismo più tradizionale. (...)».
È superfluo sottolineare la partigianeria di queste parole ed è del tutto evidente che le critiche di Paolo Ungari e Nicola Tranfaglia sono finalizzate ad una raffinata ma, sostanzialmente elementare, risaputa visione del fascismo non molto dissimile dall'assioma marxista: Fascismo = reazione capitalista. Ma è necessario anche sottolineare che l'analisi della radice nazionalista del corporativismo fascista, anche se strumentalmente proposta, è indubbiamente vera. Del resto le critiche più feroci del Corporativismo sono in seno al fascismo medesimo e, per buona pace del prof. Tranfaglia, qui ricordiamo le parole del prof. Manlio Sargenti, nell'intervista pubblicata sul n° 26 di "Aurora": 
«(...) Nella realtà tutto si era ridotto alla creazione di organi; le Corporazioni destinate a disciplinare il processo economico, che avevano avuto su di esso scarsissima incidenza, ed a produrre sul terreno più propriamente politico un'assemblea quale la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, di cui appariva evidente la mancanza di vera rappresentatività. Nell'analisi critica che si faceva di questo complesso di fenomeni si credeva di scorgere le cause del fallimento nel sostanziale squilibrio esistente in seno agli organi del corporativismo, fra la rappresentanza del capitale e quella del lavoro. Formalmente i componenti delle Corporazioni espressi dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori erano è vero in posizione paritetica con i rappresentanti delle organizzazioni dei datori di lavoro. Ma mentre questi erano i reali esponenti ed interpreti delle forze e degli interessi dell'organizzazione capitalistica dell'economia, dall'altra sedevano uomini privi, per lo più, di un autentico legame rappresentativo con il mondo del lavoro e soprattutto privi di quella profonda conoscenza dei meccanismi e delle esigenze dell'attività produttiva che sarebbe stata necessaria per affrontare, con effettiva parità di forze, l'organizzazione per la disciplina dell'economia. Questa restava di fatto nelle mani di una burocrazia in gran parte dominata ed ispirata da forze capitalistiche. (...)». Ora non crediamo che alcuno possa mettere in discussione il «fascismo» del «socializzatore» Manlio Sargenti, anche se c'è da aspettarsi di tutto.
Volendo, fino in fondo, bere l'amarissimo calice della verità è indispensabile elencare i quattro "Ordini del Giorno" approvati dal congresso di Milano nel '14, su proposta di A. Rocco. Franco Gaeta, così li riassume nel suo "Nazionalismo italiano":
a) incompatibilità con l'individualismo economico, tanto dell'economia liberale quanto dell'economia socialista che si basano entrambi su di una concezione atomistica, cosmopolita e materialistica della società e dello Stato;
b) rifiuto del libero scambio come principio generale e conseguente perseguimento di una politica protezionistica per sopperire all'inferiorità delle condizioni naturali, per suscitare energie produttive, per provvedere ad industrie nazionali con la preparazione militare, per rafforzare l'economia di alti salari e limitare l'emigrazione;
c) costituzione di sindacati industriali come il mezzo più efficace per cui dal regime di libera concorrenza si passa a quello più efficace della solidarietà nazionale dei produttori e quindi il nesso per cui la concorrenza si sposta dall'individuo alla nazione, rimanendo così fra le nazioni;
d) disciplina e riconoscimento giuridico delle organizzazioni padronali ed operaie perché non esorbitino dal campo delle competizioni economiche e non danneggino la nazione.
Da questi "Ordini del Giorno", risulta del tutto evidente che Rocco sintetizzò al meglio, fin dal '14, i fondamenti dottrinari del Fascismo-regime nonché i postulati economici corporativi inveratisi dopo il '26.
Ma se a prima vista tali princìpi risultano compatibili con le enunciazioni del primo fascismo, analizzandoli con maggiore attenzione le distanze divengono evidenti.
Sostanzialmente, solo il primo "Ordine del Giorno" è pienamente assimilabile al fascismo diciannovista; il restante è in perfetta linea con le dinamiche del nazionalismo italiano. Infatti è del tutto assente la concezione «partecipativa» nell'economia che Mussolini definì, a suo tempo «democrazia economica». Secondo le idee di Rocco, lo Stato funge da mediatore nelle diatribe economiche. Quel medesimo Stato che la «sana borghesia», intesa come classe, intende «fagocitare» per farne un proprio strumento. Il filo «azzurro» dell'autoritarismo possiede, quindi, fin dal '14 una sua solida teoria ed una sua precisa ideologia a differenza del fascismo, movimento alla costante ricerca di «nuove sintesi». Ironia della sorte, Benito Mussolini, che nel biennio '20/'21 è ancora alle prese con una teorizzazione definitiva dei postulati del Movimento delle Camicie Nere, è ben presto travolto dalla lucida preparazione ideologica dei «nuovi arrivati» in camicia azzurra, fortemente collegati alla borghesia. In sostanza se, nel '19, il «principio partecipativo» espresso dai Fasci di Combattimento è ancora in gestazione e solo confusamente abbozzato, la teoria corporativa imposta dai nazionalisti, dopo il '22, è ben chiara. E non solo l'idea corporativa, in quanto in un opuscolo scritto da A. Rocco nel '14, titolato "Cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti", si esprimono al meglio molti dei concetti fatti propri dal fascismo-regime che, almeno per quanto ci riguarda, consideriamo antitetico al fascismo-movimento. Basti ricordare l'intesa con la Chiesa cattolica, la scomparsa di ogni velleità partecipativa, la militarizzazione, il culto dello Stato, l'autarchia, l'esaltazione dello Stato gendarme e le velleità guerrafondaie.
Il nazionalismo, si può quindi affermare, si impossessa del nascente movimento mussoliniano stravolgendo i suoi princìpi originari e snaturandolo. E tale ipotesi non è opera di uno storico «revisionista» come, ad esempio, un De Felice, bensì di un antifascista a 24 carati come Gaetano Salvemini (i suoi rapporti con Mussolini nel quinquennio 1914/'19 meritano una trattazione a parte che rimandiamo ad altra occasione), del quale è utile meditare la seguente affermazione: «Se Mussolini avesse continuato a condannare la reazione come «idiota e crudele» si sarebbe ben presto trovato a capo di un esercito in disfacimento, e senza gli aiuti dei grossi affaristi il suo giornale sarebbe fallito. I vecchi rivoluzionari e gli studenti che nei due anni precedenti (1919/'20) avevano fornito quasi esclusivamente i dirigenti dei gruppi locali, si trovarono ben presto ridotti in minoranza a fronte d'un nuovo elemento sociale: gli ufficiali dell'esercito e gli agenti degli industriali e degli agrari. Il movimento fascista non era più un semplice movimento di reazione patriottica alla politica dei socialisti e dei comunisti, esso diviene lo strumento di una sistematica reazione capitalista, il movimento del 1921/'22 antisindacale e antiparlamentare, e non quello rivoluzionario e inefficiente del '19/'20, non fu affatto una creatura di Mussolini. Le sezioni dei fasci nelle diverse città, paesi e villaggi vennero fondate da ufficiali in licenza, da agenti dei possidenti.». A conferma di queste parole è sufficiente citare Mussolini stesso: «Il fascismo non è più liberazione ma tirannia, non è più salvaguardia della nazione, ma difesa di interessi privati e delle caste più opache, sorde e miserabili che esistono in Italia!» (7 agosto '21).
Ma veniamo ai fatti; sostenere che gli orientamenti teorici dei Fasci di Combattimento avessero ben poco a che fare con le degenerazioni del Ventennio non è un'eresia, ma un dato soggettivo, facilmente dimostrabile.

La concezione dello Stato

La concezione dello Stato nel fascismo delle origini è ben lontana da quella totalitaria e totalizzante che si affermerà nel Ventennio. Scriveva Cesare Rossi nel settembre '21 sul "Popolo d'Italia" rispetto all'attenuarsi dello spirito libertario all'interno del movimento fascista: «(...) È insomma la mentalità codina, tirannica e sopraffatrice che noi abbiamo rimproverato al Partito socialista negli anni aurei e tenebrosi della sua tracotanza che si trasferisce in pieno nel campo fascista (...)». Sosteneva Nietzsche in "Umano troppo umano" (ed è ben nota l'influenza del pensiero nietzschiano sul futuro Duce): «Il socialismo è il chimerico fratello minore del quasi defunto despotismo, del quale vuole raccogliere l'eredità, gli sforzi che fa sono dunque reazionari nel senso profondo di questo termine. Desidera infatti per lo Stato una pienezza di poteri quale il dispotismo non ha mai avuto». Coincidenze? No di certo, considerato che il Fascismo -quello ubicato in via Paolo da Cannobio n° 20, tanto per intenderci- non appalesava alcuna idolatria per lo Stato autoritario, anzi, al contrario, se si legge il Programma fascista del '19 salta agli occhi la feroce polemica nei confronti dello Stato burocratico e accentratore, delineata al meglio nel paragrafo L: «Riforma della burocrazia inspirata al senso della responsabilità individuale e conseguente notevole riduzione degli organi di controllo; decentramento e conseguente semplificazione dei servizi a beneficio delle energie produttrici, dell'erario e dei funzionari; epurazione del personale e condizioni economiche di esso atte a garantire all'amministrazione l'afflusso di elementi meglio idonei e più fattivi».
Concetti profetici e quanto mai attuali! Appare evidente che la concezione dello Stato-partecipativo, socializzato, antiburocratico e decentrato, propugnata dal Fascismo delle origini, nulla ha da spartire con le suggestioni autoritarie e statalizzanti proprie del nazionalismo e con il totalitarismo dello Stato burocrate e gendarme proprie del socialismo reale.

Corporativismo

Perché questa insistenza sul Corporativismo da parte di tanti «epigoni» delle «continuità ideali»?
Vogliamo sperare (anche a costo di apparire irriverenti rispetto ai presunti «mostri sacri») nella loro ignoranza, piuttosto che credere alla loro malafede; in ogni caso non ha più alcun senso continuare in una strada rivelatasi fallimentare come quella corporativa. Non ha più ragione d'essere l'idolatria ad un ordine sociale di tipo corporativo applicabile solo attraverso la dittatura (con i risultati ben noti!), perché in democrazia finisce col tramutarsi in «consociativismo tangentista». Del resto non è il caso di chiedersi se esiste un legame tra la cosiddetta «partitocrazia consociativa» della sedicente «prima repubblica» ed il «corporativismo»? Non è questa una domanda peregrina, visto e considerato che l'accordo tra Sindacati compiacenti e Confindustria mediato dallo Stato non può essere in altro modo definito!
In relazione a quanto sopra è bene sottolineare che tanto il Corporativismo fascista che quello «democratico» hanno violentato il principio della «delega» e della rappresentanza quanto quello della partecipazione. In questo senso appare profetico l'articolo di Sandro Milani pubblicato nel febbraio del '45 su "Repubblica Fascista" che denunciava, a chiare lettere, il timore che il sindacato, in combutta col potere politico, potesse svuotarsi dei suoi contenuti partecipativi per divenire un organo autonomo e burocratizzato di gestione e di direzione dell'economia. Una profezia, come tutti possiamo constatare, che si è avverata! Ed è un vero peccato che ancora oggi i sedicenti «continuatori ideali» facciano finta di nulla!

Partecipazione

Il muro che separa il Corporativismo dalla Socializzazione diviene ancora più alto se si analizza la logica in cui si è sviluppato il Fascismo movimento e i suoi postulati originari. Solo tenendo presente questa diversità di fondo può essere compresa la famosa frase detta da Mussolini al Ministro Tarchi: «Era dal '19 che aspettavo questo momento!». In ogni caso i punti C/D/E del programma di San Sepolcro, «a favore delle classi lavoratrici», eliminano ogni residuo dubbio in materia:
C) una rappresentanza dei lavoratori nel funzionamento dell'industria, limitato nei riguardi del personale;
D) l'affidamento alle stesse organizzazioni proletarie (che ne siano degne moralmente e tecnicamente) della gestione di industrie e servizi pubblici;
E) la formazione dei Consigli nazionali tecnici del lavoro, costituiti dai rappresentanti dell'industria, dell'agricoltura, dei trasporti, del lavoro intellettuale, dell'igiene sociale, delle comunicazioni, ecc., eletti dalle collettività professionali e di mestiere, con potere legislativo.
Ed è perlomeno interessante sottolineare come i «princìpi partecipativi» sopraesposti siano contemplati momentaneamente nella Costituzione repubblicana.
Diciamo momentaneamente, in quanto da più parti, da destra e da sinistra, la si vuole «mandare in pensione». Basti qui ricordare l'art. 46 della nostra Carta Costituzionale che prevede la «coogestione» e l'art. 47 che parla di «compartecipazione» e quindi globalmente di «Socializzazione». Ma le assonanze con i postulati dei Fasci di Combattimento si fanno ancora più evidenti nell'art. 99, giustamente ricordato da Agos Presciuttini nel n° 31 di "Aurora", che è del tutto sovrapponibile al paragrafo E che abbiamo prima citato. Quindi è perfino superfluo dover continuare a spiegare perché il MA-SN ritiene oggettivamente necessario l'impegno in difesa dell'attuale Costituzione.

Borghesia

A Fiuggi, come era già accaduto il 25 luglio 1943, le strade si separano. Da una parte i «nazionalisti» borghesi, eredi degli «azzurri» di Rocco e Federzoni, che teorizzano «repubbliche semi-presidenziali» con l'obiettivo di dare al sistema una svolta decisionista in cui gli interessi della borghesia siano meglio tutelati. Dall'altra i «socializzatori» che ben conoscono ed apprezzano il valore della «borghesia del lavoro» che attraversa tutti i campi dell'attività umana e costituisce un elemento prezioso ed indispensabile per il progresso ed il trionfo delle fortune nazionali sotto qualsiasi regime o, ancora più chiaramente: «... i fascisti distinguono in quel complesso di uomini e istituti che si chiamano globalmente «borghesia» gli elementi parassitari dagli elementi produttori».
Come abbiamo avuto modo di osservare, il passato ci insegna che ogni forma di Corporativismo è comunque espressione d'una oligarchia economica e come tale incompatibile con la Socializzazione che si fonda su princìpi quali quello della giustizia sociale, della libertà e della sovranità popolare.
In questo senso la Sinistra Nazionale non ha nulla da spartire con formazioni politiche, di qualunque latitudine, non ispirate al principio partecipativo.
Su questo punto non possiamo e non vogliamo transigere. Ed è bene chiarire, una volta per tutte, che la sola cosa che può far tremare gli «stati maggiori» del capitalismo parassitario si chiama «Socializzazione».

Giovanni Mariani

 

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