da "AURORA" n° 33 (Marzo 1996)

L'APPROFONDIMENTO

Falansterio napoletano

Francesco Moricca


«L'Italia meridionale è stata e sarà sempre la zona più adatta ai rivolgimenti improvvisi. Questa terra che ha più coste litoranee di tutto il resto d'Italia, che misura una lunghezza assai grande e non permette concentramenti (di truppe) facili rende possibili i colpi di mano improvvisi. Tutti i tentativi rivoluzionari, o quasi tutti, sono cominciati dall'Italia meridionale»

F. S. Nitti


Nella conclusione del mio articolo sul centro siderurgico delle Serre calabresi (cfr. il precedente numero di "Aurora") ne diedi una definizione che ha potuto sorprendere il Lettore; il quale, nella sua benevolenza, l'avrà ritenuta nient'altro che un paradosso, oppure una «provocazione» quanto meno eccessiva. Ebbi a definire infatti il complesso di Mongiana-Ferdinandea «quasi un falansterio». 
Conviene che io renda ragione esauriente dei motivi che mi hanno indotto ad esprimere un simile giudizio, avvertendo che il mio interesse per la storia del Mezzogiorno non sorge dall'intento di rivalutare aspetti positivi di un passato comunque passato, quasi rispondendo con risentito campanilismo ai suoi più o meno acculturati detrattori; ma invece dall'intento di rintracciare, ovunque li si trovi, nella storia d'Italia e in quella europea, degli esempi e per così dire dei modelli economici che si possano riprendere e adattare alle esigenze della contemporaneità, in funzione alternativa alle soluzioni «moderne» e soprattutto «post-moderne».
Il concetto di «falansterio» appartiene al «socialismo utopistico» e in misura non trascurabile anche a quello «scientifico». Se ne sente l'influenza non solo nel giovane Marx; ed Engels lo valutò positivamente nel quadro della «critica delle vigenti condizioni sociali, ricca di uno spirito schiettamente francese, ma non perciò meno profondamente penetrante». Le stesse realizzazioni del «kombinat» e del «kolchoz» non sono estranee alle idee del Fourier. Nel «falansterio», tuttavia, si presuppone «utopisticamente» una «armonia spontanea» fra i soggetti che ne fanno parte, la quale troverà consenzienti i teorici dell'anarchismo ma sarà confutata dal «socialismo scientifico», perché inattuabile se non dopo una fase, relativamente lunga, della «dittatura del proletariato», cioè in regime di «comunismo». Fourier, nonostante il suo abbastanza scoperto romanticismo, vide con grande chiarezza «le insidie e il ciarlatanismo delle due sette di Saint-Simon o Owen, che promettono l'associazione e il progresso» (si veda al riguardo l'interessante saggio composto dal Fourier fra il 1835 e il '36). Il limite dell'autore francese consiste nell'aver concepito, sulla scorta di precedenti fisiocratici, l'«armonia economica» del suo «falansterio» in funzione di una assai discutibile «dottrina delle passioni». In essa si ritrova quella connotazione «demetrica» che caratterizza tutto il socialismo moderno, e che, in particolare, sembra sparire presso il «socialismo scientifico» durante la fase della «dittatura del proletariato» ma riemerge poi prepotentemente nella fase successiva del «comunismo», nella nota formula marxiana di una società in cui «da ognuno si esigerà secondo le sue capacità (naturali) e ad ognuno verrà dato secondo i suoi bisogni (naturali)»: e riemerge, con tendenze involutive eterico-amazzoniche.
Si può in definitiva ritenere il «falansterio» come la trasposizione, nel sistema venutosi a creare con la rivoluzione industriale, di ciò che era la comunità di lavoro propria alla bottega artigiana del Medioevo e del Rinascimento, dove il «maestro» viveva e lavorava a stretto contatto coi «discepoli» non sussistendo altra gerarchia che non fosse quella oggettiva della competenza. Passando dalla industria all'agricoltura, il «falansterio» ha il suo antecedente medioevale, per noi segnatamente rilevante, dell'«obseina» russa. Non è un caso che Dostoevskij si sia interessato a Fourier tramite il circolo culturale Butasevic-Petrasevskij, come se ne interessò il nostro Mazzini, e non solo allo scopo di criticare e confutare il socialismo marxiano (: in merito sarebbe opportuno uno studio sul «socialismo militare» di Carlo Pisacane, come ulteriore approfondimento del presente studio).
Se dunque il «modello tradizionale» influenzò la modernità, oltre che «per inerzia», per una scelta consapevole di autori come Fourier ed Engels, a maggior ragione dovette influire sui pensatori della restaurazione che in esso cercavano un'appropriata risposta ai problemi sorti con la rivoluzione industriale (cfr. E. Marino "La filosofia della Restaurazione", Loescher, '78). In questi pensatori è più o meno presente l'idea che la rivoluzione politica sia stata causata dalla rivoluzione industriale: particolarmente in Inghilterra a seguito del movimento luddista culminato negli anni 1811-12, presso autori come il Burke e il Carlyle. Tuttavia la più esaustiva disamina dei rapporti esistenti fra rivoluzione politica e rivoluzione industriale appartiene al cattolico tedesco Baader, le cui analisi incideranno poi in maniera accentuata nella definizione della dottrina sociale della Chiesa. Paradossalmente, la visione più acuta delle contraddizioni dell'industrialismo si ha nei Paesi più «arretrati» d'Europa: la Germania cattolica, la Russia di Alessandro I e del suo erede spirituale Leone Tolstoj, e, come vedremo fra poco, nel Regno delle Due Sicilie che aveva conosciuto in Campanella forse l'antesignano controriformista della Restaurazione.
Allo scopo di rendere in sintesi lo spirito della Restaurazione in ordine alle questioni dell'«economia politica» nel quadro della più vasta concezione del mondo, vale la pena di citare alcune pregnanti definizioni di Friedrich Schlegel sull'illuminismo come «protestantesimo politico» che ebbe in Inghilterra, patria della rivoluzione industriale, il «suo principale punto di appoggio», e riguardo al «bisogno essenziale del secolo XIX», quello di ritrovare la soluzione dei conflitti sociali nei «princìpi politici del Cattolicesimo», di un cattolicesimo non filisteo, «puramente negativo», ma propositivo secondo «ciò che è positivamente religioso nei sentimenti e nella mentalità» (cfr. "Philosophie der Geschichte", XVIII, ed. crit., vol. IX, pp. 418-19). Cui sono da collegarsi le seguenti affermazioni del Principe di Metternich: «Io sono l'uomo del diritto, e respingo in tutte le cose l'apparenza quando a tale titolo essa si separa dalla verità, e di conseguenza, non avendo per base il diritto, sfocia necessariamente nell'errore (...). Quello che chiamano il «sistema Metternich» non era un sistema, ma l'applicazione delle leggi che reggono il mondo. Le rivoluzioni riposano su sistemi, le leggi eterne sono al di fuori e al di sopra di ciò che, a buon diritto, ha soltanto il valore di un sistema» (cfr. "Memorie", pp. 239-56). Infine, dello stato venutosi a creare con la rivoluzione francese, Schelling sostiene essere suo fine precipuo quello di «estirpare l'individualità (personalità): ecco lo scopo di uno stato non metafisico, formato in modo meramente meccanico. Perciò in questo stato i meno dotati per quanto riguarda l'individualità, i talenti mediocri, le anime fatte come un orologio riescono a dominare e a governare. Sì, quanto più un uomo è estraneo alla vera scienza e alle idee, tanto più è idoneo agli affari» (cfr. "Uber das wesen wissenschaft", in Werke, IV, p. 388).

La Restaurazione, nelle sue richieste «positive» avanzate dallo Schlegel e soddisfatte dal Metternich, non sarebbe stata possibile senza l'impulso mistico di Alessandro I che di queste istanze incarnò politicamente la matrice romantica; nonché i limiti che rendono ragione degli aspetti ambigui e contraddittori della personalità del Romanov, come dell'intero movimento della Restaurazione: senza di che non potrebbe spiegarsi la definitiva sconfitta delle «anime belle» ad opera dei «talenti mediocri», dei vilissimi e «meccanici» uomini, d'affari di cui parla lo Schelling. È curioso come Alessandro I, erede della concezione romano-bizantina dell'Impero, a seguito dell'invasione napoleonica si sia fatto, non è detto proprio suo malgrado, fautore del particolare nazionalismo russo, che comunque nazionalismo era e come tale confliggeva con l'ideale della Restaurazione per la funzione assunta nella Questione d'Oriente. Tale nazionalismo trovava favore presso gli elementi più «progressivi» della società russa, cioè presso quell'esercito che sarà promotore del moto liberale decabrista.
In una situazione molto simile alla russa si trovava il Regno delle Due Sicilie. Qui il ceto «progressivo» aveva sicuramente tradizioni più antiche, ma tuttavia finì con l'identificarsi con l'ufficialità dell'esercito dopo il periodo napoleonico, proprio come era accaduto in Russia. Come in Russia, non esisteva una intellettualità borghese perché non esisteva una borghesia che meritasse questo nome. I contadini e la piccola nobiltà vivevano in condizioni analoghe a quelle in cui vivevano i contadini e la piccola nobiltà russa. Lo stesso poteva dirsi per l'alta aristocrazia, ma non per il clero: quello napoletano era certamente più «progressivo» e persino più corrotto.
Ma, come s'è accennato nel precedente articolo, totalmente diversi risultavano essere Alessandro I e Ferdinando II, consistendo la peculiarità di questo ultimo nella più completa assenza di romanticismo: romanticismo da intendersi -è chiaro- nei suoi lati deleteri. Ferdinando era uno spirito «positivo» nel senso schlegeliano, senza rimpianti per il passato, con un disprezzo, ostentato e anche accentuatamente sarcastico, per certa intellettualità napoletana, di estrazione «borghese» e dedita all'attività forense (i «paglietta») cui rimproverava d'esser parolaia, profondamente corrotta e corruttrice. Amava lo stile di vita militare ma non era affatto né un guascone né un guerrafondaio. A differenza di suo nonno Ferdinando I, aveva fatto tesoro del meglio dell'esperienza napoleonica: l'idea dello stato moderno e del rilievo che vi ha l'esercito, secondo l'insegnamento del miglior Machiavelli ripreso dal Clausewitz. L'organizzazione dello stato doveva riprodurre il modello dell'organizzazione militare, ma non meccanicamente: Ferdinando odiava la burocrazia e la assimilava al ceto dei «paglietta». Amava lo spirito attivo, tecnico-operativo. Era «autoritario» e «paternalista», ma solo nel senso in cui può esserlo e deve esserlo un uomo intelligente e uno spirito veramente indipendente. Sotto questo profilo, esaminando i «due» periodi del suo lungo regno, non lo si può ritenere a buon diritto né «liberaleggiante» nel primo né «reazionario» nel secondo. Passa indenne e con onore la bufera del '48, concede lo Statuto e non lo revoca come il nonno, nonostante abbia consentito a Guglielmo Pepe di partecipare alla prima fase della Iª Guerra d'indipendenza con un corpo di volontari napoletani, accanto al Piemonte di Carlo Alberto. Destreggiandosi con innegabile abilità fra gli interessi delle grandi potenze, attira su di sé l'attenzione di alcuni ambienti patriottici mazziniani scontenti di Carlo Alberto. Continua imperterrito, nonostante il '48 e nonostante tutto, la costruzione del nuovo stato e della nuova economia, fino all'ultimo istante di vita. Non crede che la libertà costituzionale possa concedersi a un popolo che non è maturo. Non si fida della «borghesia»: sa di essere amato dalla gente umile ma ne conosce tutti i limiti, i vizi attuali e quelli suscettibili di sviluppo: la «troppa libertà» è un male per la «natura umana». Spera più negli umili che nei «paglietta» figli pessimi del dispotismo settecentesco e della rivoluzione del '99. Ciò nonostante apprezza incondizionatamente Carlo Filangieri, figlio del più celebre Gaetano; ai tempi della questione degli zolfi siciliani, arriva a tal punto di sovrana schiettezza da rimpiangere davanti a uno sconcertato funzionario il «bravo» Caracciolo, fatto giustiziare da Nelson «per invidia di mestiere». Ma i rapporti col Principe Filangieri non sono idilliaci perché lo sospetta, e con fondati motivi, di essere un carbonaro. Lo priva del comando operativo per un certo periodo, ma quando la Sicilia insorge nel '48 a lui affida il corpo di spedizione che la riconquista, «deludendo -come dice il Croce- le mire inglesi che, dal tempo del Bentinck, non si erano più distolte da quell'isola (...) (conservandola) negli effetti, a vantaggio della futura unità italiana» (cfr. "Storia del Regno di Napoli", pp. 2230-31). Nel '59, prima di morire, gli raccomanda di consigliare il giovane Francesco e la salvezza dello Stato.

S'è detto poc'anzi che vi sono fondati motivi per ritenere il Principe di Satriano un carbonaro. Prove documentali certe sembrano non esistere, ma indizi sicuri ne esistono nella sua biografia. Donde poteva egli, trarre quella «propensione» all'unità italiana che è sottesa nel consiglio di occupare Umbria e Marche, dato nel '59 come Capo del governo Francesco II, se non da un'idea lungamente meditata? E quale giovane ufficiale di brillante ingegno dell'esercito murattiano, quale egli era stato assurgendo agli alti gradi, poteva non essere carbonaro?
La questione, cui ritengo si sia forzati a rispondere affermativamente, ha speciale importanza nel nostro discorso: sia per comprendere le ragioni della politica di Ferdinando II, la sua grandezza su cui la storiografia inglesizzante ha espresso un giudizio negativo e addirittura oltraggioso; sia per individuare le origini culturali e politiche di un socialismo che si distingue tanto da quello «utopistico» e moderno, quanto da quello, parimenti ambiguo e contraddittorio, «populista», della Restaurazione.
Questa origine è da ricercarsi appunto nella Carboneria: per cui la lunga e a tratti sofferta collaborazione di Ferdinando col Principe Filangieri altro non sarebbe che una consapevole e originalissimo tentativo di «legittimazione» del processo iniziatosi in Europa nel 1789, tentativo che sostanzialmente fallì successivamente, con l'Unità e con la «svolta» avvenuta dopo i Governi Crispi che ne ereditarono lo spirito animatore, sviluppandosi secondo le forme e le tattiche del giolittismo, cioè fuori da una concezione etica della politica e dello Stato; sicché il Salvemini poteva con fondati motivi definire il Giolitti «ministro della malavita», e il D'Annunzio irriderlo coll'icastico nomignolo di «Labbrone».
Ma cos'era la Carboneria?
Controverse ne sono le origini e al riguardo le congetture-proposte, inglesi o francesi che siano queste origini, mettono in evidenza un nesso con la questione che più sta a cuore ai carbonari, che è quella dell'indipendenza nazionale italiana. I carbonari dovettero rivendicare un'origine ora inglese ora francese, secondo che le politiche di Inghilterra e Francia favorissero o ostacolassero il processo di unificazione nazionale. Storicamente, però, la Carboneria nasce nel Regno di Napoli, nell'ambiente dell'esercito, sotto Murat al quale sarà sempre avversa, anche dopo il proclama di Rimini col quale il Murat si farà assertore dell'unità e indipendenza italiana. Così i carbonari napoletani facevano risalire la nascita della setta al volere della regina Maria Carolina e all'opera degli «Illuminati» partenopei collegati a un'omonima loggia massonica londinese; mentre i piemontesi, a detta del generale e carbonaro Giuseppe Rossetti, sostenevano di discendere dalla francese «Charbonnerie», una società di mutuo soccorso, formata da militari e sorta nella Franca Contea durante il XVIII secolo. Con qualche fondamento più iniziatico che storico, alcuni sostengono un'origine templare. È innegabile la presenza di una simbologia solare, che rimanda al mitraismo diffusosi in ambienti militari dell'impero romano e di cui fu massimo esponente Giuliano l'Apostata. Può essere di qualche rilievo il fatto che Michele Morelli, davanti ai giudici di Monteforte si sia dichiarato carbonaro e non massone, e che nonostante dovesse essere come carbonaro anche cristiano credente, abbia rifiutato i conforti religiosi prima di essere impiccato. Notevole altresì la scomunica inflitta nel '21 alla Carboneria da Papa Pio VII. Da menzionare infine la presenza di richiami alchemici nella «carbonizzazione», da intendersi nel senso di realizzazione dell'"Opera al nero" in termini di sperimentazione esistenziale, ma anche, in termini politici, come apertura nei confronti dei «figli della nera terra», dei contadini e dei minatori (e non si può non osservare il risvolto iniziatico dell'interesse per la metallurgia che accomuna Ferdinando II e il Principe di Satriano).
Quali che possano essere stati i rapporti della Carboneria con la Massoneria sul piano tattico, è documentata un'irriducibile avversione dei carbonari nei confronti dei massoni; avversione da ricondursi, sia nell'ambito iniziatico che in quello storico, alla deviazione della «massoneria originaria», che si verificò nel corso del XVII secolo, e che darà luogo alla rivoluzione inglese, al movimento dell'illuminismo e infine alla rivoluzione francese. La cristianizzazione dei rituali massonici (Cristo concepito come il «primo carbonaro»), acquisterebbe allora il significato di ritorno alla «massoneria originaria» di San Bernardo di Chiaravalle, in un certo senso a una «restaurazione» che non poteva lasciare indifferente un uomo come Ferdinando II: i massoni pretendevano di lavorare alla riedificazione del tempio di Salomone come i primi Templari «archeologi» di San Bernardo; i carbonari dovevano purificare il mondo dalle loro opere perverse col «fuoco del loro carbone»; e con l'aiuto di San Teobaldo, un nobile francese contemporaneo di San Bernardo, che si sarebbe ritirato a vita eremitica in una selva della Svevia e qui avrebbe fondato la Carboneria dotandola di un vero e proprio catechismo.
Il documento politico della Carboneria è costituito dal cosiddetto "Patto di Ausonia" (cfr. A. M. Cavallotti, "Memoria sulle società segrete nel Mezzogiorno d'Italia", Roma, 1904). Si prevedeva un'Italia una e indipendente, dalle Alpi a Malta, (occupata dall'Inghilterra), da Trieste alla Corsica (occupata dalla Francia). Tutti i cittadini del futuro Stato dovevano essere soldati (un'idea che si ritroverà in Pisacane). La religione sarà la cattolica riportata alla sua «purezza originaria»; la quale implica una specie di socialismo teocratico che ricorda quello campanelliano e che è alquanto distante da quello «utopistico». La forma di governo della nuova Italia sarà in un primo momento la monarchica costituzionale, infine quella repubblicana democratica di tipo federale.
Circa il socialismo dei carbonari, il suo antecedente più prossimo deve vedersi nel comunismo di Babeuf che ebbe in Italia largo seguito ad opera di Filippo Buonarroti, uno dei personaggi di spicco della Carboneria fra gli artefici principali del processo per cui essa finì per trasformarsi nella mazziniana Giovine Italia, sebbene non si debba esagerarne l'influenza presso le sette anti-massoniche italiane ed europee, quasi a farne, come propone, qualche autorevole studioso della materia, una sorte di «grande vecchio» (cfr. A. Galante Garrone, "Filippo Buonarroti e i rivoluzionari dell'Ottocento", Torino, '51, e Armando Saitta, "Buonarroti", Milano, '67). Onde rifarsi un'idea non solo di certe particolari connotazioni del radicalismo buonarrotiano ma anche di quello della Carboneria in ordine alle tesi che stiamo svolgendo, è utile riportare il brano seguente della lettera che il Buonarroti inviò al Pirondi il 23/1/1831: «Dirò che la salvezza d'Italia (può venire solo da un'imposizione dall'alto ed è pertanto) nella guerra civile, nel pressoché totale spegnimento dei nostri contemporanei avvezzi alle mollizie (...). Io vorrei trarli dalle città, e ridurli ai campi e con mano di ferro farne guerrieri, da ciarlatani che sono e strabalzare il calabrese nell'Insubria, e il ligure sul Rubicone, e fare una nazione nuova, pe' suoi bisogni, e punire con la morte l'ozio, e servirmi della scure di Bruto per fondare una nuova Italia (...). Non mi asterrò dal ripetere che, se non si impedisce agli aristocratici di por mano nell'opera del popolo, saremo perduti» (in Galante Garrone, op. cit., p. 187; corsivi buonarrotiani). Si nota, nel brano riportato, un odio estremo quanto comprensibile contro l'«aristocrazia», o meglio contro un'oligarchia in cui nobili e borghesi venivano non senza ragione messi su uno stesso piano. Queste erano le idee che circolavano, assai poco «segretamente», quando Ferdinando ascese al trono, e sulle quali un uomo della sua intelligenza e onestà intellettuale non poteva non meditare molto seriamente. La Carboneria era un'associazione «segreta come il segreto di Pulcinella» e vi aderivano persone di ogni estrazione sociale fuorché i contadini. Attorno al 1819, secondo Guglielmo Pepe che pare ne fosse il capo supremo, nel territorio delle Due Sicilie, i carbonari del Regno erano 300.000, più di 600.000 secondo il Colletta, addirittura 800.000 secondo un documento d'epoca conservato presso la Cancelleria di Vienna (cfr. M. Schipa, "Albori di Risorgimento in Italia", Napoli, '38, p. 144). La Carboneria, dunque era per i tempi un vero e proprio «partito di massa», con tutte le potenzialità sovversive dello spirito nazionale e delle «strutture economiche» di un popolo che il solo fenomeno comporta: così pensava certamente Ferdinando II.
Si narra che Ferdinando I, per celia e comunque lasciandosi scappare una profonda verità, abbia una volta esclamato, in un italiano poco ortodosso: «La Carboneria è così diffusa che poco manca che non lo sia anch'io» (cfr. R. Moscati "Guglielmo Pepe, 1797-1831", II, p. LXXV, Roma, '38). Di questo Re su cui l'ironia non si è risparmiata (Croce ebbe a definirlo «Re Lazzarone»), il Colletta, riporta il brano di una lettera privata al figlio Francesco, nominato Reggente prima di partire su un vascello inglese alla volta di Layhach, dove era stato convocato per rendere conto alla Santa Alleanza d'aver concesso, dopo il moto del '20, la Costituzione spagnola, all'epoca considerata la più «progressiva» ispirandosi a quella francese del 1791 e per certi versi superandola. In questa lettera, dopo essersi senza vergogna dichiarato vecchio e amante del quieto vivere più che mai, il Re ha un lampo di regale orgoglio: «Difenderò nel congresso -dice- i fatti del passato luglio; vorrò fermamente per il mio regno la Costituzione spagnola». Il giorno della partenza -riferisce il Colletta- «fu visto con maraviglia che (Ferdinando I), stando sicuro e libero sopra il vascello inglese portasse a fregio nell'abito il nastro tricolorato di Carboneria, disusato nell'universale, solamente rimasto ai caldissimi settari» (cfr. "Storia del Reame di Napoli", Classici Utet, p. 815). Mezzucci da donnicciuola per accattivarsi la pubblica simpatia? Teatralità, io credo, da «lazzarone»: bisogno di esternare un sentimento di convinta adesione, sincero quanto destinato a non durare per volubilità non meno che per paura. Ferdinando era davvero carbonaro -perché, da «napoletano verace» era impressionabile. Era carbonaro per «sentimento» e senza alcun raziocinio. A differenza di suo nipote Ferdinando II, che legandosi al Principe di Satriano lo fa con piena consapevolezza: da «reazionario» sì, ma non da «ottuso reazionario». Egli così farà tesoro di tutta l'esperienza contemporanea: della lezione del Metternich come di quella della Carboneria più estrema, quella del Buonarroti. E non potè non tenere conto delle idee del Fourier. Nel «falansterio napoletano» di Mongiana-Ferdinandea, che non per caso contava fra civili e militari circa 1600 addetti, egli creò un modello di socialismo del tutto nuovo, correggendo l'«utopistica» e spontanea «armonia» fourieriana attraverso l'imposizione dall'alto, e cioè la militarizzazione non solo dei processi produttivi ma dello stesso stile di vita dei membri della di comunità di lavoro, che fu chiamata «colonia militare». In ciò Ferdinando II e il Principe di Satriano devono ritenersi precursori di ciò che, dopo la, Iª Guerra mondiale, sarà lo spirito della «rivoluzione conservatrice», o meglio; per dirla con Evola, della Rivoluzione restauratrice.

Dopo la prima visita di Ferdinando II (1833), il paesino di Mongiana, prima dipendente dal comune di Fabrizia, fu dichiarato «colonia militare» e divenne autonomo. Il Direttore militare dello stabilimento assunse la carica di Sindaco, funzionari municipali furono nominati degli ufficiali subalterni dell'esercito. Nel 1856 la popolazione civile ammontava a 1082 abitanti di ambo i sessi. Erano in maggioranza artigiani, contadini e impiegati. Vi erano 22 possidenti, 2 sacerdoti e 8 mendicanti. Gli addetti agli stabilimenti, fra tecnici, operai e militari di guarnigione, dovevano essere approssimativamente fra i 600 ed i 700 (nei documenti a mia disposizione queste sono le cifre indicate, sebbene il Cingari sostenga che erano addirittura 1000).
Quanto alla struttura architettonica degli impianti di Mongiana-Ferdinandea, occorre far riferimento ad un progetto di fonderia dell'Anito risalente al 1775. Dalla descrizione che ne ha fatto il Rubino riportiamo il seguente brano: «L'edificio era rettangolare e si sviluppava su due piani (...). Sul fronte principale il piano nobile era parziale ed ospitava gli alloggi rispettivamente dell'ufficiale comandante, del direttore dei lavori, del capo fonditore e del guardiano dei magazzini, con un numero di vani a disposizione progressivamente decrescente secondo una scala gerarchica di valori sociali, tipicamente militare» (cfr. "Archeologia industriale e Mezzogiorno", Roma, '78, p. 153). Dalla "Memoria sulla Mongiana" apprendiamo che «parte grandiosa del progetto dell'omonima fonderia (progetto del 1811) fu quella relativa, all'abitazioni (sic); poiché soleva dire il Ritucci (autore del progetto), che una comoda casa serve per temperare il malessere che la solitudine dei boschi e le privazioni di ogni specie cagionano (negli addetti allo stabilimento). Le abitazioni furono disposte in una pianta rettangolare e l'ingegnere ne regolò con buon gusto i particolari di costruttura. Vi si osservano cornici delle porte esterne e le scale di granito, le cucine e le stanze da pranzo nel piano inferiore, dove si scende per iscale interne, ringhiere di ferro applicate a tutte le scale, foconi per riscaldare le stanze. Bella più che mai è la piccola chiesa, la quale è ornata all'esterno di granito e nell'interno di acero, ben lavorato. Fuori la piazza rettangolare si trovano infine dei baracconi per albergatori artefici e vetturali ed altri per uso di stalle. Questa opera colossale e stata in costruzione per anni 30 (dal 1811 al 1841) ed ha importati 400 mila ducati (di spesa)» (Rubino, op. cit., p. 101).
Le condizioni di vita degli operai, specie dei minatori di Pazzano, sono pessime nella zona delle Serre fin quando le ferriere non vengono nazionalizzate, il che avviene -è importante ricordarlo- nel primo periodo del regno di Ferdinando I, prima della rivoluzione del 1799 e del periodo napoleonico. Nelle miniere, cunicoli in cui si è costretti a lavorare ginocchioni, accanto ai «grottari» si fa largo uso di giovanissimi aiutanti detti «grottarielli» o «quatrarielli» (bambini): un uso, questo, che perdurerà anche sotto Ferdinando II, e non solo nell'«incivile» regno delle Due Sicilie, fino a tutto l'Ottocento almeno. I gestori privati (arrendatori) mantenevano i salari, in particolare quelli dei minatori, a livelli di sussistenza, nei periodi di crisi anche al di sotto. I furti sul prodotto erano dunque una regola, sia fra gli operai, sia fra i boscaioli, i carbonai ed i mulattieri addetti al trasporto. L'origine della militarizzazione degli operai, avvenuta nel periodo napoleonico, è da ricercarsi anche in questo fenomeno. In tale periodo si ha perciò tutta una serie di provvedimenti che migliorano il tenore di vita degli operai assicurando una maggiore redditività del lavoro. Fra questi provvedimenti ricorderemo l'istituto della «filiazione», cioè l'esenzione dalla leva con l'obbligo di un servizio decennale agli impianti. Gli operai, a seconda delle specializzazioni, sono suddivisi in squadre guidate a un responsabile che risponde personalmente della quantità e qualità del prodotto nonché delle eventuali frodi. Per quanto riguarda il regolamento interno del centro siderurgico calabrese, si veda quello vigente nella ferriera di Poggioreale, riportato integralmente alle pp. 201-210 dell'opera del Rubino.
Ferdinando II conservò la forma paramilitare impressa dai Napoleonidi, e però ne tolse i caratteri coattivi e la sfruttò come elemento di socializzazione e di educazione nazionale. In ciò fu non poco agevolato dalla devozione dei montanari serresi alla Casa reale, che non era stata intaccata, neanche di poco, dai vantaggi materiali delle innovazioni francesi. Furono emanati provvedimenti di mutua assistenza che garantivano una relativa sicurezza in caso di infortuni e malattia. Chi avesse servito negli stabilimenti per 35 anni aveva diritto a una pensione. La metà della somma corrispondente spettava alle famiglie bisognose di coloro che, avendo lavorato per 35 anni, erano morti per causa di servizio. Nel 1855 all'interno del paese fu costruita una grande caserma per la guarnigione, nel cui cortile fu posta una statua del Re «di ferro fuso e a mezzo busto» e una meridiana. Vi era annesso un edificio destinato agli uffici di amministrazione, con 22 appartamenti per gli impiegati. Vi erano poi delle confortevoli baracche per gli operai. Nel 1856 furono assegnati alla Colonia un medico, un farmacista e un giudice di pace. Al plebiscito del 21 ottobre 1861, dei 615 aventi diritto al voto della Provincia di Catanzaro, 220 votarono contro l'annessione al Regno d'Italia. Votarono coraggiosamente con voto palese. Erano tutti del comprensorio di Mongiana-Ferdinandea.
Il Rubino, citando una fonte d'epoca, ci informa che le virtù religiose degli abitanti della Colonia erano ragguardevoli, assai meno, curiosamente, quelle morali (con riferimento, è da supporre, a una certa licenza sessuale); «perché mai -scrive l'autore citato dal Rubino- la corruzione dei costumi, va inevitabilmente congiunta al progresso del commercio e dell'industria? È la civiltà che genera il contagio, o la rozzezza primitiva di un villaggio che degenera in contatto della creduta civiltà?» (cfr. op. cit. p. 91-92).
Viene spontanea una domanda: se la licenza sessuale pre-esiste in qualche modo al «contagio della creduta civiltà», perché mai non è stata estirpata dalla religione, perché mai ha potuto quasi essere una virtù mediante la religione?

Il 1648 è l'anno in cui a Napoli scoppia la rivolta anti-spagnola di Masaniello e in cui si conclude la terribile Guerra dei Trent'Anni (che fu, in ultima analisi, una guerra di religione assai simile alla IIª Guerra mondiale). Nel biennio 1649-50 le «ferriere di Stilo» (così si chiamava all'epoca il centro siderurgico calabrese che nel 1618 produceva 1200 quintali di ferramenta per la marina e acciai speciali per usi civili) erano inattive perché coinvolte nella sommossa. Le maestranze, anticipando in qualche modo il movimento luddista inglese del secolo successivo, avevano distrutto gli impianti e si erano impadronite del macchinario e degli utensili. Tommaso Sergente, un funzionario della Sommaria inviato per identificare gli autori del sabotaggio e per riattivare gli stabilimenti, scrisse nella sua relazione che era opportuno usare massima cautela, «sendo ben noto a (...) questa Regia Camera (che) le pendenze sono in quella città di Stilo» che aveva dato i natali al Campanella ed era stata centro della prima rivolta anti-spagnola, mostrando nei suoi cittadini una riottosità e capacità tali da renderla assai pericolosa; come pericoloso e quasi «diabolico» s'era rilevato il frate stilese, sfuggito alla condanna capitale simulando la pazzia nonostante la «prova del sonno» e condannato a ventisette anni di carcere duro.
Un fermento riformatore influenzato dal controriformismo rivoluzionario campanelliano era dunque presente nel comprensorio delle Serre, i cui centri del versante tirrenico erano Pizzo Calabro, dove si imbarcava per Napoli il prodotto delle filiere; Monteleone, capoluogo geografico e nel periodo napoleonico anche amministrativo della Calabria Ultra Prima nonché sede di un forte partito filo-francese; infine Tropea. Pizzo darà i natali a Benedetto Musolino, un patriota mazziniano dissidente, autore di significative opere storico-politiche. Montenapoleone ospitava fin dal 1612 un Collegio di Gesuiti in cui insegnò il fratello maggiore di Michele Morelli, il sacerdote Vincenzo, e dove fu quasi certamente educato il martire del moto del '20. Di lui Mariano D'Ayala notò «grandissima modestia, purezza di liberi sensi, squisita umanità e generosa lealtà da prode». Il commilitone Badolati lo presenta come «moderato in tutto, educatissimo, di poche parole ma di molti fatti. Istituito nelle materie filosofiche (...) disprezzava il denaro (e) amava più essere povero che ricco». Il padre del Morelli, Giuseppe Maria, coprì la carica di Ricevitore Generale del Monteleonese a partire dal 1803, cioè all'epoca della prima restaurazione borbonica (1799-1806). Si legò di amicizia col Generale Colletta (l'autore della citata "Storia del Reame di Napoli) che fu a Monteleone comandante delle forze di repressione del brigantaggio filo-borbonico durante il 1805. Quanto a Tropea, diede i natali al Barone Pasquale Galluppi, che introdusse in Italia la filosofia kantiana e fu il primo in ordine cronologico dei filosofi idealisti italiani, nonché titolare della cattedra di filosofia dell'ateneo della capitale (per le notizie sul Morelli, cfr. A. Morelli: "Michele Morelli", Cappelli, '69).
Con questo ambiente culturale ebbe sicuramente rapporti intensi il Principe di Satriano: in gioventù come ufficiale dell'esercito murattiano e «carbonaro, ma anche come feudatario della zona dove possedeva il bosco di Stilo; poi, come Direttore Generale dei corpi Facoltativi dell'Esercito borbonico dai quali dipendevano le ferriere di Mongiana-Ferdinandea, e come proprietario della ferriera di Razzona.
Nel quadro delle polemiche che si ebbero nelle Due Sicilie alla fine degli anni Trenta fra protezionisti e liberisti (polemiche che in sostanza riproducevano i termini dell'attuale dibattito fra «capitalisti ecumenici» e «anarco-capitalisti»), il Principe di Satriano fu accusato, in un opuscolo uscito nel '38, di essere un difensore «interessato» delle tesi protezionistiche. L'accusa poteva avere un fondamento solo ad occhi superficiali. «Interessato» doveva essere piuttosto chi muoveva l'accusa, il «tecnico» che compose l'opuscolo firmandosi con le iniziali M. L. R., cioè Mauro Luigi Rotondi. Il Filangieri, nella sua documentatissima "Risposta alle riflessioni economiche sul ferro" (Napoli, 1838), definì eloquentemente il malevolo avversario «propugnatore dell'industria britannica»: come dire «prezzolato traditore degli interessi nazionali» (si ricordi la recente crisi con l'Inghilterra per il monopolio degli zolfi siciliani durante la quale Napoli si era vista minacciata di bombardamento). Il Rotondi, antesignano di qualche «tecnico» contemporaneo della «Seconda Repubblica», non poneva solo in discussione la massima elementare della sana «economia pubblica» (come Ferdinando aveva imposto venisse chiamata nelle Università del Regno l'«economia politica»), e per la quale, a detta del Genovesi, deve essere cura dei sovrani «che la nazione di cui sono capi dipenda dalle altre (...) il meno che sia possibile». Il Filangieri, peraltro, non impiegava nella sua ferriera di Razzona il minerale estratto dalla vicina miniera di Pazzano, ma lo importava dall'Elba. Ciò viene significativamente taciuto dal suo perfido accusatore. Citando uno specialista di sidero-tecnica straniero e di prestigio internazionale (l'Hassenfratz), il Principe afferma la migliore qualità e durata del ferro nazionale (e quindi la sua capacità di sostenere la concorrenza) perché fuso con carbone vegetale, a differenza di quello inglese, fuso con carbon fossile, che il Rotandi sosteneva essere «più economico» importare per il fabbisogno del Paese: rammenti il Lettore quanto si è detto, nel mio precedente articolo, sulla costruzione dei ponti in ferro sul Carigliano e sul Calore in cui fu impiegato il materiale prodotto alla Razzona, e poi tragga le sue conclusioni sull'onestà del Principe. Il Bianchini così scrive di lui: «Questo valentuomo zelantissimo del pubblico bene ha impiegato (alla Mazzona) molto capitale ed ha posto tutte le cure per portare il ferro malleabile a un grado di perfezione che sconosciuto era fra noi»; per cui a buon diritto meritò la commessa statale delle catene impiegate nella costruzione dei ponti sospesi sul Carigliano e sul Calore, realizzati da Ferdinando fra il '32 e il '34, e di cui, nella sua "Risposta", il Principe dice che «a giudizio di quanti e Napoletani e Forastieri li osservano, fanno grandissimo onore all'Ingegnere (Luigi Giura) che ne regolò la costruzione ed all'opificio nazionale che poté somministrarli» (cfr. Rubino, op. cit., pp. 18-19 e Nota 8). Si ricordi infine che la ferriera deI Principe fu completamente distrutta dalla piena del '55, causandone la rovina economica.
Dunque non implicava una mera questione nominalistica, che poteva insorgere solo nella «mente ottusa di un bigotto», la decisione con cui Ferdinando II cambiò nome all'economia politica, chiamandola «pubblica». Tenendo presenti le tesi qui esposte sulle idee del Re e il significato della sua collaborazione col Filangieri, idee che secondo me sono da collegarsi alla campanelliana "Città del sole", si potrebbe dire che il nome più appropriato alla scienza «modernissima» alla cui fondazione tanto avevano contribuito gli ingegni napoletani del Settecento, avrebbe dovuto essere quello di economia sociale, dove l'attributo di «sociale» non poteva non escludersi acciocché non lo si confondesse con «socialista», nel senso che il termine aveva acquisito in Europa a partire dagli anni Quaranta.
A riprova di ciò che si può chiamare socialismo teocratico-militare, va segnalata la grande cura che Ferdinando, tramite il Filangieri, dedicò alle istituzioni educative da cui doveva uscire, ed in effetti uscì, la classe dirigente della nuova Italia. In Ferdinando, proprio come in Tommaso Campanella l'«educazione» in senso lato e l'«istruzione tecnico-scientifica» in senso speciale possiedono una centralità e una preminenza assoluta. Ma non tanto il mondo universitario «pennarulo» egli privilegiò (sebbene proprio a Napoli si terrà nel '45 il VII Congresso degli Scienziati italiani), quanto piuttosto quello della cultura militare: quei Corpi facoltativi dell'Esercito da cui dipendevano le scuole militari e il Centro siderurgico calabrese, e che, a partire dal 1834, furono posti sotto la direzione del Tenente Generale Carlo Filangieri.
Le scuole militari del Regno erano le seguenti: la Scuola militare Politecnica fondata nel 1811, la Scuola d'Artiglieria di Capua e il Real Collegio Militare della Nunziatella. In quest'ultimo, in forza del decreto 14/3/1823, il corpo docente era formato, oltre che da provetti ufficiali, da «professori della R. Università, cioè (da) tutte le personalità professionalmente più spiccate nel campo delle scienze e poi anche delle lettere, che diedero fama all'Ateneo napoletano (...). Passando in qualità di commissari agli esami alla Nunziatella, essi stabilirono un legame tra gli studi di quel collegio e la cultura civile del paese, fattore essenziale di progresso in ogni forma di attività» (cfr. Gen. C. Montù, "Storia dell'Artiglieria italiana", Roma, XV e. f., vol. IV parte II, pp. 1918-19). Tuttavia, quando il Filangieri assunse l'incarico dirigere le scuole militari, si avvide subito «che nel loro organamento fissato (dal nominato decreto) eranvi inconvenienti tali che a mio credere meritavano sovrani provvedimenti» (C. Filangieri, in Montù, op. cit., p. 1924). Questi «provvedimenti», sollecitamente approvati dal sovrano, riguardavano gli insegnamenti di chimica e fisica, di Geometria descrittiva e di ingegneria civile, per cui si chiamarono professori «più giovani»; ma soprattutto una riforma che «investisse in pieno tutta la vita culturale dell'Istituto, e non solamente per le scienze generiche ma anche e più specialmente per quelle del mestiere» (cfr. Montù, op. cit., p. 1926).
Queste, secondo le parole del Principe di Satriano, erano «la Meccanica, l'Idromeccanica, la Geodesia e l'uso degli strumenti ad essa relativi, la Fortificazione d'attacco, di difesa e di guerra sotterranea, l'Artiglieria teorica con la parte che riguarda a' tiri; le pratiche dell'Artiglieria nella guerra delle Piazze e specialmente la Costruzione della Batteria; la Costruzione de' ponti d'ogni sorta, la Fisica, la Chimica, la Mineralogia in quanto hanno relazione alla Milizia; la conoscenza delle qualità del legname necessario agli usi di guerra» (cfr. C. Filangieri, "Ordine del giorno", 28/2/1835).
La cattedra di balistica, per espressa volontà del Principe di Satriano, venne assegnata ad un giovane Alfiere, preparatissimo in geometria analitica quanto noto per le sue idee «non ortodosse»: Mariano D'Ayala. Costui, «già prima del 1848 (...) -ci informa il Ferrarelli- accendeva nei giovani l'amore d'Italia. In quell'anno memorando, poi, il suo esempio fu seguito da parecchi. Tra gli integrali e i differenziali, il dovere di amare la Patria era dimostrato dai professori con rigore matematico». Sicché -continua il Montù- «per quanto protetto e difeso dal Filangieri, il D'Ayala venne esonerato dalla carica di professore e destinato allo stabilimento della Mongiana (9/4/1843)» (cor. miei; cfr. op. cit., p. 1959). Alla Nunziatella insegnò anche Francesco De Sanctis, anche lui «protetto» dal Filangieri, sicché -commenta il Montù- questi «forse involontariamente preparò -come dice il Marselli- la congiura spontanea delle lettere e delle scienze contro la tirannide politica e sacerdotale» (cor. miei; cfr. op. cit., p. 1964).
Sintomatico questo «forse involontariamente» (come anche l'espressione curiosa di «congiura spontanea») degli spiriti massonici del Generale Montù che pure scriveva nell'anno XV dell'era fascista. Sintomatico altresì che la lapide dedicata dalla Città di Vibo Valentia (la vecchia Monteleone) a Michele Morelli nel '20 rechi alla fine, evidentemente apocrifa, ovvero cancellata e poi riscritta, la dicitura «auspice la Massoneria vibonese» (e notare che nel '20 Vibo si chiamava ancora con l'antico nome di Monteleone, mentre assai più significativa è l'altra lapide che al Morelli dedicò la Società Operaia vibonese, e che fu apposta sulla facciata del palazzo avito ove il Martire ebbe i natali.
Alla Nunziatella studiò anche un altro celebre patriota «non ortodosso»: Carlo Pisacane. Dell'aria che spirava alla Nunziatella ai tempi di Ferdinando e del Filangieri, questo ci dice Nello Rosselli, un autore insospettabile, nel suo celebre libro su Pisacane: «Un convitto severo e di etichetta borbonica (...); ma non (...) di quegli istituti che usavano un tempo, dei quali diresti che l'intento preciquo fosse quello di soffocare la vivacità dei ragazzi e scoraggiarne le inclinazioni individuali. I rapporti tra professori e discepoli correvano cordiali (...). Si tolleravano perfino le discussioni politiche. S'intende, non di politica interna».
Ma c'erano, come abbiamo documentato! Ed erano «permesse» senza permissivismo.

Francesco Moricca

 

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