da "AURORA" n° 33 (Marzo 1996)

GIUSTIZIA

Legge anti-stupro:
civile o incivile falsificazione

Domenico Naso

«Lo spaccio della bestia trionfante», così viene definito il nuovo mostro giuridico che è la legge contro la violenza carnale, da Giovanni Leone ex Presidente della Repubblica, ora senatore a vita. E così forse è!
Le conquiste di Civiltà, sia come affermazioni di princìpi della Ragione, che come qualità, etica del vivere comunitario, sono frutto del meraviglioso intreccio di coscienza spirituale e razionalità ordinatrice del mondo e delle cose. Ciò vale anche per il Diritto, vanto della tradizione positiva italiana, oggi in mano ad un nucleo agguerrito di fazioni politiche, posticce, e post-ideologiche, portatrici di visioni parziali, settorializzate, una contro l’altra armate, epigoni della frammentazione parossistica dei bisogni più ambigui dell’essere umano. Nuovi interessi, quali quelli incarnati in gruppi di pressione come il partito delle donne, dei gay, della Confindustria ,dei preti, dei difensori della foca monaca. Essi spezzano i vincoli etico-comunitari, per far emergere, con rancoroso senso di rivalsa, nuove conflittualità basate su di un individualismo sfrenato, che si riversa in tutte le sfere e nei rapporti del vivere civile, dal mondo del lavoro, alla famiglia, al diritto.
La bagarre sollevata durante i lavori preparatori della legge in Parlamento, sta a dimostrare tutto ciò. Un valzer continuo di ripicche, rivendicazioni, con un esito scontato: una legge "demagogicamente sbandierata, che in alcuni punti scardina i princìpi fondamentali del nostro diritto" (Avv. Maretta Scoca); ed in più, sostengo, ideologicamente mirata al perseguimento di un fine, che tra meno di una decina d’anni maturerà i primi effetti. La vera e propria battaglia dei sessi, si è svolta, sulla decennale questione della qualificazione del reato di stupro, come reato contro la morale pubblica, ovvero contro la persona. Ad intelligenze più acute la questione non ha senso, se non, ripeto, dal punto di vista ideologico.
Il Capo I del Titolo IX del codice penale, ora abrogato, qualificava la fattispecie delittuosa come «delitti contro la libertà sessuale», libertà di disporre del proprio corpo, e della propria sessualità, da parte della donna. Per una linearità e coerenza sistematica, il delitto avrebbe trovato la sua più consona sistemazione nel titolo XII del codice penale, intitolato «Delitti contro la persona». Il legislatore nel 1930 ha pensato diversamente: ed ha ben ragione. Gli atti che violano la libertà sessuale, dovevano essere inseriti in un titolo diverso dal XII, com’è avvenuto, in quanto principio giuridico vuole che ogni fatto (od atto) che esorbiti dalla sfera strettamente privata, ed abbia rilievo collettivo, debba essere sottoposto a regime giuridico diverso da quello che tale rilievo non ha. In ogni ramo del diritto accade così. L’architettura del codice penale è stata costruita mediante svariati titoli e capi, tutti interconnessi, nei quali vengono qualificate le fattispecie delittuose, riguardanti persone fisiche, a volte giuridiche; fattispecie tecnicamente diverse tra loro per soggetto, oggetto, scopo ed evento. Nel nostro caso la sfera sessuale, non solo è un bene personalissimo quindi privato, da tutelare, ma, essendo le manifestazioni dell’istinto sessuale regolate da precetti di etica sociale, e relative costumanze, che variano da popolo a popolo, hanno rilievo pubblico, la cui sanzionabilità protegge anche la cosiddetta «moralità sessuale collettiva». Se ciò non fosse tutti avremmo la libertà di estrinsecare il nostro istinto, e sfogarlo a nostro talento accoppiandoci con genitori, figli, bambini in modo promiscuo e scevro da limiti.
L’inserimento di questi delitti nel titolo riguardante i reati contro la moralità pubblica, ha perciò un duplice effetto; quella di punire chi, secondo le costumanze sessuali di un popolo, viola i princìpi che ne stanno alla base ed inoltre che gli atti di libertà sessuale trovano il loro limite in queste norme morali, tutelando così le singole persone. La moralità sessuale è la individuazione di una più ampia coscienza etica di un popolo, e tale coscienza viene offesa da tutti quei delitti che violano la libertà dei singoli cittadini. Demagogicamente non si può affermare che la donna sia da sempre stata svilita da un reato valutato da un punto di vista morale. Anzi la dizione «Delitti contro la libertà sessuale» fu un’introduzione all’avanguardia negli anni ’30. L’affermazione dell’On. Alessandra Mussolini che dichiara (proprio lei!) che la normativa in questione sia sempre stata un bluff, che colpisce la dignità delle donne, è frutto di ignoranza pura. L’on. Melandri (pidiessina), non è mai arrivata a tanto. Lo sfogo della Mussolini s’incentrava su due fattispecie della vecchia normativa: «Ratto a fine di libidine» (art. 523 del C.P.) e «Ratto a scopo di matrimonio» (art. 522 del C.P.). La dignità in questione, frustrate e svilita, sarebbe paradigmaticamente scolpita in queste due norme della vecchia disciplina. Per fare un parallelismo, il Ratto a fine di libidine è figura diversa dal sequestro di persona (art. 605 C.P.) tout court, come il sequestro a scopo di estorsione (art. 630 C.P.) è inserito nel titolo del codice relativo ai «Delitti contro il patrimonio». Cosa se ne dovrebbe dedurre?
Che la persona sequestrata a fini estorsivi è meno persona di quella sequestrata tout court, perché il reato è dislocato in un titolo dal sapore monetario? Parimenti per il ratto a fine di matrimonio. L’introduzione di tale fattispecie fu motivata proprio dalla prassi, in voga presso le popolazioni italiche dell’epoca, assai diffuse di costringere altrui alle nozze, attraverso il ratto. Cosicché si potesse effettuare il cosiddetto «matrimonio riparatore».
Quindi norma penale che tutelava la donna nella sua dignità e libertà di scelta, perseguendo il reo indipendentemente dalle usanze del popolo. Certamente il «quid» che caratterizzava tale reato, per oggetto e scopo, era diverso dal sequestro di persona (art. 605 del C.P.), quindi dislocato a titolo adeguato.
Per venire a cose più serie, sconcerta invece la fusione del reato di violenza carnale (art. 519 C.P.) con quello di atti di libidine violenta (art. 521 C.P.), ora previsti dall’art. 3 della legge 15 febbraio 1996 n. 66 il quale ha introdotto l’art. 609 bis del codice penale. Due reati per struttura e dinamica assolutamente distinti. La loro fusione è ingiustificata e potrebbe costituire un precedente di notevole portata, prevedendo una sanzione penale unica, per reati la cui fattispecie si differenzia sia negli elementi soggettivi che in quelli oggettivi, si è fatto torto ai princìpi base del diritto oggettivo. Per qualificare il reato è necessaria la congiunzione carnale, o l’intenzione della stessa, mentre per l’atto di libidine no. Quest’ultimo ha gradi di intensità che variano dal semplice «palpamento» ad atti che raggiungono anomalie patologiche gravi di estrinsecazione sessuale, ma che non giungono mai, neanche nell’intenzione del soggetto, alla congiunzione carnale. Ricordando il caso di due giovani turisti che l’estate scorsa subirono una condanna «esemplare» per un cosiddetto «palpamento», due anni di reclusione; penso sia scontato qualsiasi commento!
Novità, accantonata per ora, gratuitamente quanto provvidenzialmente, per mancanza di copertura finanziaria, è l’introduzione del «Gratuiti patrocinio». Eccezione alla regola, anch’essa, senza precedenti. Il «Gratuito patrocinio», generalmente garantito alle vittime che versano in stato d’indigenza, è funzionale all’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, viste le differenze economiche fra gli stessi, e non garantito alla vittima di per se. Nel caso contrario sarebbe auspicabile una riforma generale dell’istituto, per estendere a tutti i cittadini, vittime di reati altrettanto gravi ed abietti, la gratuità del patrocinio, altrimenti si creerebbero i presupposti per una classificazione dei cittadini offesi in vittime di serie A e di serie B. Il diritto non può avere due pesi e due misure; si incorrerebbe nella violazione dell’art. 3 della Costituzione, circa l’uguaglianza sostanziale (comma 2°) di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza discriminazioni di razza, religione e «sesso»; sono questi i prodromi del razzismo alla rovescia!?
Con le disciplina sulla tutela dei minori si e raggiunta la farsa. Da un confronto tra le due normative, la vecchia e la nuova, si intuisce che l’unica preoccupazione delle promotrici era quella di garantire un’ulteriore abbassamento dell’età di punibilità per i rapporti sessuali tra minori.
Questo perché, oramai, è di moda l’essere comprensivi, o meglio compiacenti, verso la libertà (libertinaggio) sessuale degli adolescenti, i quali sono sempre più incapaci di gestire i processi emozionali profondi, legati al
sesso, scartando a priori i valori educativi di base, che i centri istituzionali a ciò preposti tengono in nessun conto, presi come sono dall’insegnare al fanciullo le «scariche ormonali che presiedono all’orgasmo». La tutela reale dei minori, con le relative circostanze aggravanti, è rimasta perfettamente uguale come nella precedente disciplina, con una variante: si sono create coacervi di partecipazioni incrociate, per l’assistenza al minore vittima di stupro o di atti di libidine, tra enti pubblici, associazioni private, famiglie e tribunale dei minori, psicologi e sociologi, che a definire ciò «giungla tutelare» sarebbe cosa da poco. Sull’irrevocabilità della querela di parte, essa era già irrevocabile, ne sono stati allungati, semplicemente, i termini di presentazione: da tre a sei mesi. A parte va considerata la nuova fattispecie, cioè il reato di «violenza commessa in gruppo». Scolasticamente parlando si conosce che, una fattispecie delittuosa, per essere autonoma ha bisogno di un «quid pluris»che la distingua da altre, apparentemente simili. Altrimenti la si considera una circostanza aggravante, di un reato base, che determina un aumento di pena. Per esempio, se un furto viene commesso da una o due persone esso è sottoposto ad un certo regime sanzionatorio; se è consumato da tre o più persone, ne viene aumentata di un terzo la pena. Nel nostro caso qual’e il «quid» che giustifica la nuova fattispecie?
Per dare una risposta circa la creazione di questa fattispecie di reato autonoma, bisogna abbandonare il campo strettamente giuridico- formale, dandone una giustificazione che attiene al campo della politica criminale. Una scelta di tal genere non farebbe una grinza, qualora se ne chiarissero i presupposti. La recrudescenza del fenomeno di violenza commesso in banda, o in gruppo, ha, oggi raggiunto livelli altissimi di pericolosità sociale. L’errore è stato quello di ricorrere, nuovamente al diritto penale cosiddetto d’«emergenza». Un errore in quanto riforme parziali effettuate sulla base di onde emozionali abbassano la soglia di riflessione a carattere sociologico e rendono il testo del codice penale disarticolato, aumentandone la difficoltà interpretativa; per cui si amplia la sfera discrezionale della magistratura con elevato rischio di sentenze contraddittorie, in giudicati che violano l’omogeneità del giudizio.
È evidente che il codice Rocco non riesce più a fronteggiare i fenomeni moderni, perché esso è condizionato storicamente, il diritto penale è diritto in movimento. Da più parti si è prospettata una globale riforma del codice. Perciò sarebbe stato conforme al principio di coerenza ed articolazione interna al testo valutare globalmente, riflettendo a fondo su questa nuova tipologia di reato. Globalmente, perché i reati commessi in gruppo hanno una portata più vasta, socialmente parlando. Assistiamo increduli ed atti vandalici, messi in atto dalla micro-criminalità urbana; al teppismo da stadio; a violenze commesse su genitori (come il caso Maso e similari); anziani indifesi; su bambini.
Quindi l’oggetto del reato, pur variando da caso a caso, ha nelle sue motivazioni soggettive una radice comune, in quanto è un’espressione di un disagio psicologico diffuso, profondo, specie tra gli adolescenti, causa di esplosioni violente, efferate e gratuite. È proprio la gratuità della violenza che sconvolge. Per cui la banda, il branco (per usare una terminologia in voga) pur prendendo di mira i beni offesi, realizza un atteggiamento nichilistico di una gioventù devastata interiormente, che, spesso, sfoga le tensioni interne usando a volte, come canale privilegiato, il sesso, essendo quest’ultimo intimamente legato alla sfera dell’identità emotiva. Atteggiamento stereotipato, da eroe negativo, che, indifferentemente, commette abusi sessuali, o distrugge e violenta qualsiasi altro bene sociale. Non è raro il caso di bande giovanili che vengono arrestate per reati diversi, e più volte. Questi hanno un solo elemento comune: il fatto di essere commessi in gruppo.
Dunque, rincorrere alla legislazione d’emergenza, usando la classica tecnica descrittiva per qualificare gli elementi della fattispecie, non rende un buon servizio alla causa. E men che mai risolverà la questione l’inasprimento delle pene. Battaglia demagogicamente condotta dalle promotrici della legge. Come tutelare la salute psichica della gioventù italiana? Questa avrebbe dovuto essere la domanda essenziale. E da qui trarne le conseguenze. Forse per garantire un’eventuale rieducazione, per questi neo-criminali che non superano spesso i sedici anni d’età. In sede normativa, distinguere il reato commesso da questi ultimi, da quello effettuato da criminali adulti; prevede attenuanti circostanziate, non rifugiarsi nella dizione «partecipazione di minima importanza», che il novello art. 609, introdotto dalla legge, prevede come attenuante generica. Altro si sarebbe dovuto prevedere, in quanto la logica da branco, appartiene ad un campo di interazioni sociali di gruppo, che fuoriescono dalle normali circostanze attenuanti previste del codice.
Altro che aumentare indiscriminatamente le pene a giovani vittime, inconsapevoli, di una società cieca e sorda alle esigenze umane di dignità e gratificazione interiore. Aprire le porte del carcere è come condannarli a morte.
Una legge questa, che nulla innova della precedente disciplina, anzi dove può crea mostri giuridici, in più scatena un furore sanzionatorio, persecutorio, che raggiunge tratti illiberali, quali la coazione, per l’indiziato (non colpevole), a sottoporsi al test dell’AIDS. Strana Italia questa, dove si ondeggia su un protezionismo garantista, oltremodo eccessivo, per i criminali incalliti di ogni risma e con crociate contro l’untore, dove invece ci si dovrebbe sforzare di comprendere le ragioni profonde che sottendono agli eventi e mutamenti epocali. Questo fenomeno, in specie, bisogna fronteggiarlo in primo luogo con la prevenzione, non solo con la pena (non sarà stata certo l’introduzione dell’art. 416 bis del C.P., a ridurre i reati di mafia ed i mafiosi) che interviene soltanto qualora nulla possa essere più fatto in tema di educazione civile.
Non lasciamoci ingannare dai professoroni che pontificano ex-cathedra, o dai parlamentari ingrassati a suon di milioni e commesse. La sanzione penale è esclusivamente retributiva, punitiva ed espiativa. È una vendetta sociale legalizzata; non è rieducativa. O si rieduca o si manda il reo in carcere. Tertium non datur. Quest’ultima è la soglia, oltrepassata la quale muore l’uomo e nasce la bestia!
È qui il diritto cede il passo all’Etica, anzi si intreccia ad essa, ne è lo strumento più adeguato di realizzazione positiva ed ordinatrice di una Comunità Nazionale. Tranne che non si sia del partito del «formalismo giuridico», dove il Diritto è una struttura spersonalizzata frutto di astrattezze, meccanismo anodino, fondato su una norma «fondamentale» posta o presupposta non si sa bene da chi (Kelsen).
Il giuridismo, oltre che assurdo, potrebbe essere illegittimo, pur essendo legale.
A fronte dell’inutilità sociale di questa legge, si ripropone la domanda iniziale sulla valenza ideologica, che essa assume! Si stanno ponendo le basi, come in altri rami del diritto, per quell’inesorabile processo di frantumazione dei valori etico-comunitari. Concezione del mondo che, attraverso la personalizzazione della libertà, paradossalmente parte da una perdita di libertà.
Cultura sociale che diventa sempre più atomistica, estetizzante, mass-mediologica, con un culto, pauroso per la competizione tra i sessi, a tutti i livelli, non può non tradursi in una ricerca spasmodica di nuovi capi espiatori, feticci di una società che avrà sempre più bisogno del «nemico» metafisico, nel nostro caso, lo stupratore.
La frattura tra regole morali e diritto positivo, rende quest’ultimo latitante, oppure agevole strumento di moti emozionali arroganti e vendicativi. Riacquistare la dignità del vivere civile ha un senso laddove si ponga a base del diritto non solo la sacralità della Persona singola, ma anche la sacralità della Persona collettiva, che è fatta di singoli, condividenti valori comuni.
La sanzione penale nulla può alla perdita di senso delle «cose» e dei rapporti umani. La violenza ha oggi assunto i tratti grotteschi di una «parusia», di una catarsi interiore, tragicamente vissuta. Ricomporre le fila, per non creare soluzioni di continuità tra Etica e Diritto, sarà la sfida degli anni a venire, a cui le donne sona chiamate, parimenti agli uomini. 
E sarà questa l’unica reale vittoria civile delle donne.

Domenico Naso

 

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