da "AURORA" n° 33 (Marzo 1996)

L'OPINIONE

Esiste un metodo scientifico di scrivere la storia?
commento al "Rosso e Nero" di Renzo De Felice

Giorgio Vitali

Io penso di no. Soprattutto in un paese come l’Italia, ove la polemica, anche di carattere puramente scientifico, coinvolge personalmente i polemisti, che si vedono trascinati, per ragioni personalistiche, in una dialettica nella quale si cerca caparbiamente di avere ragione.
Mi sembra il caso dell’ormai celebre "Rosso e Nero", sul quale intendo esternare alcuni miei pensieri.
Intanto, ci sono alcune tesi da condividere in pieno.
Cito le frasi, tratte dalla «prefazione» del De Felice stesso:
«Una vulgata sta morendo, con buona pace dei suoi superstiti sostenitori ed epigoni, ma se ne sta sostituendo giorno dopo giorno un’altra, in parte diversa ma altrettanto refrattaria alla verità storica e probabilmente altrettanto perniciosa. Chè, se la vecchia tendeva a squalificare ed invalidare alcune verità a tutto vantaggio della esaltazione e della legittimazione di una vulgata politica di comodo, la nuova par di capire tende a legittimare le une e le altre in funzione di un immobilismo politico e culturale che -come in passato- ignori le esigenze di una società veramente moderna, ed escluda una effettiva partecipazione di larghissimi settori della popolazione, non mediata dal "vecchio", solo formalmente messo a nuovo».
«Contrariamente alle apparenze, (...) è impossibile non rendersi conto che il gran parlare che si fa della necessità di un ripensamento critico della nostra storia nazionale, dei mali che l'hanno afflitta e l’affliggono, della inadeguatezza ed addirittura della strumentalità dei rimedi messi in atto per curarli, più che a fare i conti con il nostro passato, serve ad introdurre più o meno surrettiziamente problemi di politica contingente».
«Eloquenti sono a tal proposito i recenti cambiamenti di atteggiamento di Alleanza Nazionale rispetto all’antifascismo e del Partito Democratico della Sinistra rispetto all’anticomunismo. Due "svolte" che hanno in comune l’assenza di qualsiasi giustificazione storica e nazionale ed il desiderio di far leva strumentalmente su una sorta di emotività politica, determinata dalle vicende post-caduta del Muro che, mancando di qualsiasi giustificazione critica, non vanno oltre il kitsch politico».
«Esemplare è il caso della genesi sovietica e non-togliattiana della "svolta di Salerno" e del "partito nuovo" e della logica con cui essi furono pensati».
«Nel crollo delle ideologie in genere ed in particolare dei tanti valori considerati sino a ieri "forti", la Resistenza rimane uno dei pochissimi appigli per tentare di trovare le ragion d’essere, la legittimazione del proprio potere e della propria partecipazione ad un sistema altrimenti indifendibile, politicamente ed eticamente».

Sono frasi, a mio giudizio, molto importanti, soprattutto per quanto concerne il legame strettissimo fra la situazione italiana pre-fascista, post-bellica, attuale ed il ruolo giocato dalle sue classi dirigenti, che hanno sempre falsificato, attraverso l’uso dei media, la realtà geopolitica nella quale gestivano gli interessi degli Italiani.
La persistenza della colonizzazione del nostro Paese, è poi ampiamente documentata dal mito resistenziale, il cui significato va oltre l’interesse immediato di una classe politica delegittimata in quanto imposta per 50 anni dai colonizzatori, ma serve a creare un vero muro fra coloro che volessero sviluppare una linea politica vera (finora inesistente), e la capacità di comprensione della gran massa degli Italiani.
Un altro fondamentale equivoco è quello di contrapporre resistenza a fascismo, intendendo per resistenza la complessità del fenomeno di tutti coloro che, dopo il 25 luglio, si allinearono alle posizioni filo-atlantiste. Il fascismo è una ideologia, nata nel XX secolo come sintesi di tendenze innovative che sul piano sociale saldava la tradizione cattolica con quella mazziniana, fatalmente contrapposte al marxismo, ma non per questo meno legittimate ad interpretare le esigenze fondamentali delle masse. La resistenza in Italia (il nome è stato mutuato dalla resistence francese per la mancanza di un equivalente termine italiano, il che ne sottolinea in modo inequivocabile l’irrilevanza semantica) è stata una espressione di tendenze neo-guelfe, neo-liberali e marxiste, ormai ideologicamente superate. Al massimo si potrebbe contrapporre resistenza a RSI, laddove si tenesse però presente che la RSI continuava, sia pure in posizione subordinata, una guerra che è stata l’unica guerra rivoluzionaria d’Italia negli ultimi 200 anni: la guerra contro l’Impero Inglese.
Il fatto non è da poco se si consideri che a tutt’oggi ci troviamo a confrontarci con emeriti tromboni dell’ultra-destra, alle cui giornaliere sparate rivoluzionarie non corrisponde nei fatti alcun atto di coerenza politica.

Sulla rivista "Il secondo risorgimento d’Italia", nel numero speciale dal titolo "Consuntivo del nostro cinquantenario", (Nota: il secondo risorgimento sarebbe la guerra di liberazione) il direttore responsabile, Silvio Sirigu, in un articolo dal titolo "Costruiamo insieme la civiltà della verità" scrive testualmente: «La storia della guerra di liberazione urge però rivisitarla, riscriverla, interpretarla. La sua storiografia non può essere quella propinataci dalle zavorrate fonti manipolatrici dei vari Biagi, Bisiach, Bocca, Eco, Petacco, Rendina e congrega, sempre intenti ad ignorare o misconoscere il sacrificio e gli eroismi delle Forze Armate regolari ed a cantare le gesta del mito-epopea resistenziale».
«Per questi motivi deve esserci assicurato il giudizio obiettivo almeno dei posteri. Su questo punto non volteremo pagina».
Mi sembra, dopo questo documento, avvalorato peraltro da una consistente documentazione, che il mito resistenziale è sostanzialmente un falso. Non lo scrive une storico «isolato», ma l’organo ufficiale delle cosiddette forze regolari di liberazione nazionale.
Ma non basta.
Sulla rivista "Il contemporaneo" del 3/9/95, ad una lettera dell’alpino Roberto Stocchi, reduce dal fronte russo, che contestava alla data del 25 aprile di non avere nessun significato nella economia della guerra, Giorgio Prinzi risponde affermando la tesi ed affermando che, semmai, le date significative della fine del conflitto dovrebbero essere quelle del "Cessate il fuoco" delle ore 14 del 2 maggio ’45, per l’Italia, e l’8 maggio per la fine della guerra in Europa. Essendo quello italiano un fronte secondario per gli Anglo-americani, dopo la conquista della Sicilia, esso fu sostanzialmente sguarnito di truppe, tanto alleate che tedesche, dimostrando ulteriormente l’insignificanza della cosiddetta resistenza.
Sempre su "Il contemporaneo" del dicembre ’95, il resoconto di un convegno dedicato alla presentazione del libro "La tragedia della guerra nel Lazio" riporta i dati relativi alla «difesa di Roma», la quale vide coinvolta una minima parte delle truppe schierate a difesa di Roma (Ariete, Piave, Centauro, Granatieri di Sardegna, Sassari, Piacenza, oltre ad aliquote della Re e della Lupi di Toscana e le divisioni costiere 220 e 221).
Anche queste notizie la dicono lunga sul reale portato popolare della guerra di liberazione.

La guerra dell’Italia contro l’Inghilterra non nasce spontaneamente nella mente di Mussolini, come si continua a voler far credere.
Mussolini tenta una mediazione fino all’ultimo.
Questi eventi occorre tenere bene in mente, perché mai scelte, anche importanti, sono state prese in una sola notte nella storia dell’umanità.
Nemmeno ai tempi dell’assolutismo, quando, cioè, i Re potevano decidere senza il rischio di essere criticati.
Le guerre possono anche essere dichiarate per perderle. Ad esempio, Luigi XVI aveva dichiarato guerra, assieme ai Girondini, nel 1792 ad Austria e Prussia, per perderla, onde contrastare la Rivoluzione. Sono avvenimenti che dovrebbero far riflettere.
Nell’ottimo articolo di Giovanni Volpe "La responsabilità della seconda Guerra Mondiale", (1982) che trascrive una conferenza tenuta dallo stesso presso il Circolo Rex il 4 aprile delle stesso anno, per presentare la fondamentale opera di R. Quartararo, collaboratrice di Renzo De Felice, "Roma fra Londra e Berlino, 1930-1940" (Ed. Bonacci, Roma), sono contenuti alcuni concetti che val la pena di riportare.
Nel 1939 l’Italia era accerchiata dall’Inghilterra.
«Da mesi Londra e Parigi erano decise a schiacciare Germania ed Italia ed a salvare i loro Imperi».
L’Inghilterra era stata messa sull’allerta contro l’Italia fin dal 1923, quando, dopo l’eccidio della missione Tellini, sbarcammo a Corfù senza aver chiesto preventivamente -e per la prima volta da 200 anni- il benestare inglese.
Dice la Quartararo che «Mussolini non voleva una schiacciante vittoria tedesca sulla Gran Bretagna perché, se era vero che l’Italia fascista, per sentirsi libera, voleva, l’accesso all’Oceano, era ancor più vero che essa non intendeva diventare una provincia del Terzo Reich».
Mussolini si augurava che nessuno vincesse, perché «Se vince l’Inghilterra non ci lascia il mare per un bagno, me vince la Germania, non ci lascia l’aria per respirare».
Il 15 ottobre 1982, durante la trasmissione "Radio anch’io" condotta da Gianni Bisiach, e dedicata ai diari di Pietro Nenni, Andreotti fa questa dichiarazione: «Quando venne a riferire a De Gasperi (una visita a Stalin, N.d.R.) io ero presente; Nenni, con molta onestà, raccontò di aver detto a Stalin che si adoperava per un movimento pacifista e per un’Italia neutrale e che Stalin gli aveva risposto: «Ma lei non conosce la storia d’Italia: per la sua posizione geografica l’Italia non può essere neutrale. È importante che nell’alleanza non abbia un ruolo di punta e che, anzi, eserciti una certa moderazione» (G. Bisiach, "Radio anch’io. L’Italia al microfono", Mondadori, 1985).
È in questo contesto che Mussolini decide di fare la guerra rivoluzionaria. (Ugo Spirito, "La guerra rivoluzionaria", prefazione di G. Rasi, Ed. Fondazione Ugo Spirito, I ediz.).
Ed è in questo contesto che la RSI continua la guerra rivoluzionaria. Infatti, proprio l’articolista del succitato "Il contemporaneo", riferendosi al libro "La tragedia della guerra nel Lazio" dice testualmente: «... quelle minoranze, soprattutto di ispirazione liberale, che volevano che l’Italia rimanesse nel tradizionale sistema di ideali e di alleanze che avevano reso possibile il Risorgimento e l’Unità nazionale».
Mussolini stesso, nel marzo del ’44 dice ad Ottavio Dinale: «Il nemico che non mi perdonerà mai, né oggi né domani non è la Russia, ma l’Inghilterra. È l’Italia di Mussolini che ha messo sulle vie della liquidazione il potentissimo impero inglese. ...e quando tutti i popoli oppressi dall’Inghilterra avranno acquistato l’agognata indipendenza, quel giorno dovranno pur ricordare questo Italiano morituro che venne sconfitto solo perché ebbe il coraggio e l’audacia di avere sfidato l’Inghilterra».
Basterebbe questo lascito per tracciare una linea di politica estera per l’Italia del prossimo decennio!
Conclusione di tutto: si può riassumere con il titolo di un recente libro del noto politologo A. Gambino: "Europa invertebrata, protettorato imperfetto".
Quindi, ignorare ancora gli elementi sopraccitati, a favore di un vaniloquio come quello resistenziale, che tra l’altro nell’opinione pubblica non italiana è assolutamente inesistente, serve solo a perpetuare la falsificazione del presente, nel quale ben altre evidenze dovrebbero essere portate all’attenzione degli italiani, come il fatto che Mani Pulite ha colpito soltanto quei personaggi politici che si opponevano alle cosiddette « privatizzazioni» e tentavano, nel contempo, una politica estera mediterranea.
Che i presidenti di questa Repubblica sono stati tutti eletti, se si eccettua forse Einaudi, non già perché decisi dalla sovranità del nostro parlamento, che non esiste, ma per i servizi resi ai potentati extra-nazionali. Basti pensare a Saragat, Pertini, Cossiga, Scalfaro.
Al servilismo strappalacrime dei nostri uomini politici corrisponde a tutt’oggi un paternalismo autocompiaciuto degli anglosassoni, per i quali tutto questo discettare di resistenza serve solo a confermarne l’arroganza. In tal senso, lo stesso Processo di Norimberga si configura più come la punizione del padrone contro il servo che gli ha mancato di rispetto, che come vendetta.
Non vendetta, prerogativa dell’ebraismo, ma presunzione!!

Infine, c’è da sottolineare la persistenza del mito della guerra civile.
Il mito della guerra civile assume connotazioni di drammaticità e di assoluta negatività e viene di volta in volta attribuito all’uno e all’altro dei contendenti. Secondo De Felice, se non ci fosse stata la RSI, «la Resistenza avrebbe avuto un carattere nazionale, la guerra partigiana sarebbe stata lotta di liberazione dall’occupazione straniera, l’insurrezione generale sarebbe apparsa come una naturale rivolta patriottica». Similmente, noi potremmo dire -ma siamo troppo seri per farlo- senza il 25 luglio non avremmo avuto la defenestrazione di Mussolini e l’invasione d’Italia da parte dei tedeschi, invasione che non ci darebbe stata se Mussolini avesse continuato a governare, visto che era una delle eventualità che Egli più paventava. Tale invasione è avvenuta, invece, sotto il governo del massone e realista Badoglio il quale, in quelle condizioni, realizzò anche il famigerato 8 settembre, che ha generato quella sindrome che tanto preoccupa il De Felice.
A me, personalmente, la sindrome dell’8 settembre non da alcuna preoccupazione. Non me ne sento coinvolto. Ne sarei coinvolto se dessi credito alla mitologia resistenziale. Poiché a codesta mitologia assegno il significato che le compete, cioè zero, la sindrome dell’8 settembre mi preoccupa come preoccupa i tedeschi il tradimento dell’armata di Von Paulus.

La guerra civile è una manifestazione endemica di questa penisola. La quale è stata insanguinata da guerre civili durante tutto l’arco della sua esistenza come terra abitata da uomini che fanno politica.
Anche la Iª guerra mondiale ha visto fronteggiarsi italiani, e grandi eroi sono stati proprio coloro che, come Battisti, Chiesa, Filzi, Sauro, han pagato col patibolo la loro fede italica.
Se esaminiamo la storia d’Italia negli ultimi 3 secoli, vediamo che la cosiddetta guerra civile italiana è stata combattuta fra due forze antagoniste: quelle atlantiche e quelle mitteleuropee.
Lo stesso problema si sta riproponendo ai giorni nostri, e guai se continuassimo a bamboleggiare ancora con concetti come resistenza e guerra di liberazione.
«L’Italia, nel 1943-45 conobbe una guerra civile di dimensioni e drammaticità ignote in altri paesi» afferma ancora De Felice. Si tratta di una affermazione assolutamente gratuita.
Escludendo la Jugoslavia, la Russia, i paesi mediorientali, la Cina, la Grecia, il Sud-est asiatico, basterebbe fare un riferimento al paese a noi più vicino, la Francia, ove la guerra civile, assai feroce, riguardava proprio, come da noi, lo scontro fra i sostenitori della politica atlantica ed i sostenitori della Mitteleuropa.
Tra parentesi, lo stesso De Gaulle, sottomesso alla politica inglese, sarà nel dopoguerra l’iniziatore di una politica di indipendenza europea, dopo aver imparato la lezione, però, dell’Indocina e dell’Algeria. Ed i presidenti che l’hanno seguito alla guida della Francia si sono attenuti alla stessa linea.
Nel numero del 17/9/43 del famoso giornale "Je suis partout", Cousteau scrive: «Questa guerra, che lo si voglia o no, è sopratutto una guerra civile» (P. M. Dioudonnant: "Je suis partout, 1930-1944" Ed. la Table Ronde ). E lo scriveva senza tanti isterismi.
In conclusione
(Ultima pagina) Scrive l’intervistatore Pasquale Chessa. Quando Gianfranco Fini confidò ad Alberto Statera, ("La Stampa", 30 marzo 1994) che considerava Mussolini il più grande statista del secolo, il professore mi guardò e disse: «Che banalità! Io preferisco Winston Churchill.
Parliamoci chiaro: se il nazismo è stato battuto, se l’Unione Sovietica non è stata divorata da Hitler, se gli alleati hanno vinto la guerra, lo si deve alla resistenza politica di Churchill. Una forza morale costruita sull’intelligenza dei propri valori storici, culturali, nazionali ...».
Ma che giudizio storico professore! La dipendenza politica culturale nei confronti del mito anglosassone, pervader tutta la sua opera di «liberale». E condiziona a fondo la sua capacità di giudizio!
Mi permetta una obiezione. Invertiamo i termini. Ma con elementi storici più consistenti.
Se l’Inghilterra ha perso il più grande Impero del mondo diventando uno propaggine degli USA con forti spinte disgregative interne che riguardano non solo l’Irlanda ma anche la Scozia ed il Galles, lo si deve al caparbio difensore degli interessi dell‘Ammiragliato britannico, che rifiutò persino di ascoltare Rudolf Hess, paracadutatogli da Hitler per un accordo di pace.
Se oggi la Russia comunista ha subito una implosione che l’ha riportata a livelli geografici quali non conosceva da secoli, ciò non si deve soltanto al fallimento del Socialismo reale, degno figlio della utopia marxista, ma soprattutto allo sconquasso generazionale costato circa 40 milioni di vite umane, che la Germania le ha inflitto con una guerra devastante della quale, e non a caso, ci è giunta solo una eco illanguidita.
La Russia ne avrà per parecchio ancora, come ha dimostrato la incredibile sconfitta nella guerra dell’Afghanistan. E l’Europa, da questo punto di vista, può stare tranquilla.
Per quanto riguarda, mi permetta professore, la differenza fra Churchill e Mussolini, possiamo azzardare cosa dirà la storia, quella vera, fra qualche decennio.
Mussolini potrà, alla peggio, essere paragonato a Cromwell, che ha creato le premesse della unificazione inglese e della sua affermazione nei secoli a venire. Churchill, bene che gli vada, potrà essere paragonato a Romolo Augustolo, il quale perse una frazione di un Impero, perché l’Impero Romano sopravvivesse ancora per 1000 anni con sede a Bisanzio, mentre l’uomo con la bombetta decretò la fine ingloriosa di un Impero mai apparso, per estensione, nella storia del mondo.

Giorgio Vitali

 

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