da "AURORA" n° 34 (Aprile - Maggio 1996)

L'ANALISI

Posizioni chiare, da sinistra

Vito Errico

È stato risolto un problema: la destra è stata fermata. Muoiono così tutti i sogni di vanagloria che una schiera di omuncoli aveva osato nutrire. Volevano il «comando», hanno ricevuto una sonora disfatta. Ora comincerà lo sgretolamento perché subentrerà la presa di coscienza che cinque anni son lunghi da trascorrere e fra un lustro l'Italia sarà un'altra, oltre il Duemila. Noi conosciamo quell'ambiente. È un mondo umano che è vissuto d'illusioni. Che sia stato, non s'ha da recriminare. C'è da discutere su quel che vorrà essere. E del futuro ciascuno è artefice.
Noi vogliamo indurre a qualche riflessione, basandoci su dati di fatto e restando schierati in quella posizione in cui siamo sempre stati. Cioè a sinistra. Non vogliamo parlare a quanti hanno deciso di schierarsi con Forza Italia o con altre compagini di centrodestra. Non ci interessa. Noi intendiamo rivolgere attenzione a quegli uomini che sappiamo essere contronatura in Alleanza Nazionale. Cos'è che tiene ancora insieme quell'agglomerato umano? Solo una speranza poteva agire da collante: quella di andare al potere. Non riusciamo a vedere altro. Con la svolta di Fiuggi cadeva l'ultima cortina fumogena spacciata per sostanza, che legava una compagine politica alla storia che fu. Non importa, ormai, come e perché ma il dato di fatto è che quella svolta è stata compiuta ed accettata. Altrimenti, Alleanza Nazionale non nasceva. Sappiamo bene che è passata fra mille mugugni. Ma questi, oltre a non essere giustificati, pena la caduta nell'ingenuità e nell'infantilismo politico, non hanno valore. Tutto è stato accettato in nome d'un potere, che sembrava a portata di mano. S'è perso anche quello. Cosa resta? È giusto lasciarsi andare sulla scialuppa ipernostalgica, sterile e ingannevole del rautismo? C'è stato un travaso elettorale, che non ha permesso ad A.N. di raggiungere gli obiettivi prefissi. Poca cosa, se non proprio un altro errore, compiuto da uomini portati allo sbando da un individuo, che si è messo in testa, lui che fu Flavio Messalla, di fare il Mosè di gente in diaspora. Quell'individuo «è conosciuto a questo Comando» e se non è cambiato quando era nel pieno delle forze fisiche ed intellettive, non si può minimamente credere che ciò possa avvenire al crepuscolo della vita. Quest'uomo tenebroso, che ha sempre fatto il contrario del sostenuto, andò via da Fiuggi profondendo anatemi di tradimento. Poi si scopre, ad elezioni avvenute, che aveva tentato un patto di desistenza col duo Fini-Tatarella. È classico per questo uomo scendere a patti col nemico. Ciò non ci meraviglia. Ma a chi s'è fatto abbindolare per l'ennesima volta in mezzo secolo vogliamo domandare quale coerenza, quale rettitudine, quale spirito «rivoluzionario» albergano in questo mercenario della politica. Noi non rispondiamo perché non vogliamo influenzare la meditazione.
Il nocciolo della questione è un altro e fintanto che lo si eluderà, si resterà invischiati in quell'equivoco, che nacque alla fine del 1946. Il cuore del problema sta nella scelta della fisicità del campo d'azione. Navi e barchette seguono la deriva di destra. È la solita rotta, quel vecchio itinerario che ha portato e porterà un mondo umano a naufragare sulle scogliere della storia. Un percorso, poi, stridente con le idealità storiche. Non è sede, questa, per tornare a parlare di antiche argomentazioni. Ma la scelta che ha da fare chi si sente stretto in una camicia di Nesso, che porta inevitabilmente alla follia, sta nel chiedere alla propria coscienza se la sua posizione, in merito alla storia, alla cultura, al sentire può farlo rimanere impantanato nelle paludi di destra, tenuto conto che non e più tempo di concionare su farneticanti superamenti delle categorie di destra e sinistra. S'è fatto un tempo e fu un aborto. Non lo si può fare più. La scelta oggi cade fra destra e sinistra. La destra è quella che è, senza bisogno di posticci aggettivanti, che fanno aumentare la confusione. La socialità, la solidarietà, l'anticapitalismo non possono essere categorie di destra. L'attenzione alle problematiche ambientali, lo studio dei fenomeni economici che generano ricchezze baluginanti e povertà allucinanti, vecchie e nuove, la considerazione del patriottismo come antitesi del nazionalismo sono argomentazioni che non possono avere matrice di destra.

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Stare a sinistra, come lo siamo noi, può sembrare contrastante con la nostra storia. Non è ormai infrequente sentirsi dare del «cameragno». L'epiteto -sia detto per i più giovani- fu coniato per tutti quelli ch'erano passati, a regime caduto, dal fascismo all'antifascismo. Diventò subito significanza di tradimento, secondo il ragionamento fatto precedentemente da Clemenceau: «Traditore è chi lascia il suo partito per iscriversi ad un altro, convertito è colui che molla quest'altro per iscriversi al vostro». Ebbene, noi rivendichiamo orgogliosamente la nostra cultura di sinistra. Siamo stati di sinistra quand'eravamo neo-fascisti, siamo rimasti tali al superamento di quella fase. Lo siamo perché, oltre ad occuparci dei fatti nostri, sentiamo di doverci preoccupare delle problematiche che affliggono gli altri. Lo siamo perché la nostra cultura economica ci porta ad immaginare un sistema in cui il capitale non sia privatizzato ma socializzato. Lo siamo perché ci sentiamo parte della storia del movimento operaio. Lo siamo perché siamo figli del socialismo storico. E fintanto che ci sarà lotta fra padroni ed operai, noi saremo sempre con i secondi.
A detta di alcuni, ciò contrasterebbe però con una storia che ha visto il popolo italiano dilaniarsi in una guerra civile. Facciamo chiarezza. Noi dobbiamo ricostruire una nazione distrutta nei valori umanistici e popolari. Siamo cioè chiamati ad occuparci del futuro. È pur vero che un futuro non può costruirsi senza la conoscenza del passato. Ma conoscere il passato non significa rimanervi abbarbicati. Del resto, noi non abbiamo abiure da fare. Abbiamo vissuto la nostra storia da eretici ed abbiamo sempre avuto come riferimenti culturali non certo i sacerdoti di un'ortodossia imperante ma gli uomini dell'eresia operante. Noi sentiamo le stragi di Stazzema e di Marzabotto, di Gorla e di Schio come stragi del popolo nostro. Nei lager e nelle foibe è stato colato il sangue innocente d'Italia. I fratelli Cervi e i fratelli Govoni sono nostri fratelli. Noi apparteniamo ad una generazione, nata subito dopo la tragedia della guerra. Noi abbiamo il privilegio di poter nutrire questi sentimenti. E lo dobbiamo fare. Né ci servono riconoscimenti ufficiali. Quelli, non verranno. Il riconoscimento avviene nelle coscienze. È triste assistere al processo di Priebke. È altrettanto triste riaprire le ferite delle foibe. Nessun tribunale umano potrà uguagliare la giustizia giusta di Dio. È triste vedere processare i vecchi quando suona l'ora di dar finalmente pace ai morti, lasciando che i morti seppelliscano i morti. Per il bene dei vivi.
Succedono fatti culturali «nuovi». Quando si editano libri come "Fratelli in camicia nera" di Pietro Neglie, quando Arrigo Petacco scrive la biografia di Bombacci, quando Luca Canali dà alle stampe "Pietà per le spie», significa che la storia ha voltato veramente pagina, anche contro la volontà degli uomini.
Rimane il problema, certamente pregnante, del porgersi alla democrazia. L'abbiamo accettata. E questa accettazione ha dignità piena, deve averla, proprio nel momento storico in cui Arafat cassa dalla Costituzione palestinese gli articoli fondamentali e fondamentalistici, che vaticinavano la distruzione dello Stato d'Israele. Ma vogliamo dire di più, sgambettando celermente fra gli anfratti della nostra storia generazionale. Uno dei più grandi equivoci, nei quali abbiamo trascorso la nostra giovinezza, è stato quello di fare la cassa di risonanza di nostalgie inneggianti a stati totalitari mentre eravamo parte militante d'un partito, che negava ideologicamente la democrazia ma prendeva parte alla sua liturgia. Quella giovinezza, ce l'hanno rubata con l'inganno. E doveva capitare a noi, che nutrimmo sempre avversione antica per colonnelli greci e spagnoli, per generali sudamericani. Abbiamo sostenuto ogni forma d'esame. Il ciclo s'è chiuso.

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Bisogna andare avanti. Lo scenario politico italiano va chiarendosi. La fase di transizione ha imboccato la dirittura d'arrivo, tenendo conto della lentezza dello svolgersi della politica.
Per quanto ci riguarda, occorre darsi da fare per scongiurare la rinascita di un Centro. Abbiamo dovuto subire l'onta della candidatura di De Mita ma dobbiamo fare in modo che l'avellinese resti un «peon». La rinascita del Centro ci porterebbe alla risurrezione di tutti gli equivoci che hanno presieduto alla storia della seconda metà di questo secolo. E non è certo di questo che abbiamo bisogno. La riesumazione del Centro sarebbe d'impaccio, oltre tutto, nello svolgimento della campagna di contrasto, che dobbiamo combattere contro le forze separatiste e secessioniste della Lega. La «questione del Nord-Est», ch'è la vera questione pericolosa per la tenuta di quest'Italia, con tutte le sue caratteristiche di natura geopolitica, economica e culturale, non può essere affrontata con sistemi di mediazione, tipici delle politiche di centro. Ancora una volta verrebbero a ricrearsi le condizioni che presiedettero alla nascita delle Regioni a statuto speciale. Il Centro avrebbe mille ragioni per mediare con chi è stato proprio avezzato e ingrassato dal Centro. L'egoismo del Nord-Est è il frutto amaro della miserabile condotta politica della Democrazia Cristiana. Non si può mettere ai voti l'unità d'Italia. Questo non è giacobinismo né invocazione di risoluzioni dal sapore militaristico.
Due sarebbero le operazioni infauste in questi frangenti; trasformare certi masanielli in martiri di cause perse in partenza, giacché la voglia di separatismo in Italia è fortemente minoritaria, e creare contraltari leghisti, che vedano al Sud insorgere uno sterile campanilismo meridionale, che durerebbe l'espace d'un matin, quando non verrebbe inquinato da influenze mafiose, sempre in agguato. La rivolta di Reggio Calabria, la sua storia vera, deve insegnare tanto.
È necessario che questo Stato venga riformato mediante un decentramento sostenuto e nutrito. Occorre procedere innanzitutto a cassare dall'ordinamento statuale l'istituto della Provincia, che altro non è se non un doppione, peraltro costoso, della Regione.
L'assetto municipale deve subire una profonda trasformazione. Le burocrazie devono essere messe in condizione di non sabotare l'operato dei Sindaci. Le funzioni di Capi Ripartizione devono essere avocate allo staff del Sindaco nel rispetto delle leggi che regolano il comparto. Sul piano politico va seguito il discorso che conduce Tony Blair in Inghilterra. La ricchezza non va distrutta ma va creata e ripartita. C'è una convergenza d'interessi nel creare il pubblico benessere. A tutti i cittadini dello Stato conviene che negli ambiti nazionali ci sia produzione di beni. Se lo Stato è prospero, c'è benessere per tutti, per gli imprenditori e i prestatori d'opera. Ma lo Stato deve dare a chiunque la possibilità materiale di partire verso le conquiste della vita. Non si invoca l'assistenzialismo ma non si può negare assistenza a chi è debole, a chi non ce la fa, a chi fatica per mettersi al passo con gli altri.
Il Sud ha bisogno d'infrastrutture che nessun privato può garantire. Interporti, aeroporti, grandi vie di comunicazione sono necessari per mettersi al pari con l'Europa. Maastricht è senz'altro discutibile ma sicuramente non può rappresentare la forca a cui impiccare intere popolazioni. Maastricht deve essere tutt'al più una meta, non una tappa di marcia forzata.
I popoli reagiscono benevolmente quando comprendono il senso dei sacrifici. I popoli si ribellano quando i sacrifici sopportati vengono vanificati.

Vito Errico

 

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