da "AURORA" n° 34 (Aprile - Maggio 1996)

EDITORIALE

I nodi al pettine

A. De Ambris

Non è un compito da poco quello che si è assunto Romano Prodi. Non basteranno, infatti, la buona volontà e la riconosciuta competenza economica del Professore bolognese a rimediare alla drammatica situazione economica, politica e morale in cui si dibatte il nostro Paese.
Per anni il fenomeno leghista è stato sottovalutato dai politici italiani e solo ora, nel momento in cui il venticello della scissione rischia di trasformarsi in bufera impetuosa, la classe dirigente abbozza una timida reazione. L'economia italiana dopo 18 mesi di relativa espansione, diretta conseguenza del deprezzamento della Lira e non frutto delle capacità strutturali del sistema produttivo nazionale, segna il passo.
Il risanamento morale della Nazione è più di facciata che di sostanza: corruzione, criminalità organizzata e clientelismo continuano ad essere un serio ostacolo per la rinascita economica, sociale e politica del Paese specie nelle regioni nelle quali la crisi economica è più acuta.

Le due Italie di Bossi

Non siamo fra i tanti che hanno manifestato «dolorosa sorpresa» per la virata secessionista di Umberto Bossi. La Lega Nord si è nutrita fin dai suoi esordi di umori anti-meridionalistici e già nei primi Anni Novanta erano ben marcate la tendenze xenofobe che oggi si stanno manifestando in tutta la loro virulenza. È anche vero che la Lega Nord ha subito una profonda trasformazione dopo la sua partecipazione al governo Berlusconi. A quel tempo, infatti, la grande massa dei leghisti era composta da piccoli imprenditori, nella grande maggioranza commercianti ed artigiani, inconsolati ed inconsolabili orfani di DC e PSI, da poco travolti dalla bufera di «Tangentopoli», che avevano garantito per decenni, a queste categorie, esenzioni fiscali e privilegi normativi di una certa consistenza. La scomparsa, per merito delle inchiesta giudiziarie, dei referenti politici tradizionali ha sospinto grande parte di questo ceto medio nelle braccia di Umberto Bossi che, a quel tempo, ne seppe interpretare con un certo successo gli umori con una serie di campagne propagandistiche contro l'esosità fiscale di Roma. La Lega Nord era tutta qui: un impasto di egoismi e particolarismi di settori del lavoro autonomo con scarsa incidenza sulle grandi masse del Nord.
Le cose sono cambiate nel '94: la parziale crisi produttiva tedesca determinata dalla supervalutazione del Marco favorita dagli alti tassi d'interesse applicati dalla BundesBank con l'intento di attirare i capitali stranieri necessari per la ristrutturazione dell'ex-Germania Est ha innescato, con il contemporaneo deprezzamento della Lira, un circolo virtuoso che favorendo l'esportazione della produzione italiana delle regioni del Nord-Est ha dato vita ad una sorta di piccolo miracolo economico permettendo ad un apparato produttivo diffuso quanto fragile, imperniato su migliaia di piccole e piccolissime aziende, di acquisire competitività nei mercati centro-Europei.
Un miracolo fragile. Fragile come l'apparato produttivo che l'ha determinato. Fragile perché la situazione economica tedesca è in costante evoluzione e Bonn non tarderà a rimettere in funzione la macchina produttiva rispolverando, dopo l'avvenuto risanamento dei Land dell'Est, il suo tradizionale modello economico imperniato sulla forza trainante delle esportazioni con conseguente deprezzamento del Marco per rendere concorrenziali le merci tedesche. Fragile (ed è questa una delle ragioni «serie» del malessere), perché il Nord-Est è privo di un sistema viario adeguato e delle sovrastrutture essenziali in grado di sostenere la repentina crescita dell'economia, di un sistema creditizio adeguato per far fronte, almeno parzialmente al «ritorno» sui mercati della competitività tedesca.
Il rimedio proposto da Bossi è lo stesso dell'apprendista stregone (non per nulla il leader della Lega Nord per anni si è spacciato per medico senza essersi mai laureato) intento a trafficare con materiale del quale non suppone nemmeno i micidiali effetti. Dividere l'Italia servirebbe ad aggravare l'eventuale crisi del Nord-Est in particolare e tutto l'apparato produttivo del Nord in generale. Tra il Nord ed il Sud esiste un'interdipendenza (a danno, va detto delle regioni meridionali) ineliminabile senza contraccolpi micidiali per l'economia del Settentrione. Gran parte della produzione del Nord, infatti, viene smaltita al Sud, dove gli operatori settentrionali operano in condizioni estremamente favorevoli, quasi da mercato monopolistico interno e se per le regioni del Nord-Est (diversa è la condizione strutturale delle economie emiliana, piemontese e lombarda; è significativo che la Lega abbia sfondato elettoralmente, oltreché nel Nord-Est, in zone a prevalente produzione agricola come, tanto per fare un esempio, nella provincia di Cuneo) venisse meno, oltre a quello centro-europeo, lo sbocco meridionale, la loro economia rifluirebbe nelle posizioni degli Anni Sessanta e Settanta quando Piemontesi, Liguri, Lombardi definivano con feroce sarcasmo il Veneto ed il Friuli degli emigranti e dei frontalieri la «Marocconia del Nord».
Ben altro spessore di quelle leghiste hanno le proposte del sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, il quale da almeno un paio d'anni va sostenendo la necessità del decentramento amministrativo dello Stato ed in quest'ottica si è mosso pressando il governo di Roma e raccogliendo attorno al suo progetto di autonomie locali la grande maggioranza dei sindacati del Triveneto.

Stabilità politica e crisi economica

Il centrosinistra ha vinto. Una vittoria di stretta misura ottenuta, più che per merito dei voti raccolti dalla coalizione dell'Ulivo, in virtù del successo, aldilà di ogni previsione, della Lega al Nord e della Fiamma Tricolore di Pino Rauti al Sud che con il 0,9% dei voti è costata, al Polo delle Libertà, la perdita di 54 parlamentari.
Il compito del nuovo governo, come già si accennava più sopra, non è dei più agevoli. Già il primo atto significativo a cui Prodi è chiamato consiste nella cosiddetta manovrina, ereditata dalla gestione Dini, per portare in pareggio il bilancio del '96, mentre all'orizzonte si profila già, in tutta la sua drammatica consistenza, la nuova legge finanziaria che, viste le mutate condizioni dello scenario economico internazionale, sarà giocoforza più consistente di quella prevista in 40 mila miliardi. L'economia italiana già dall'ultimo trimestre del '95 è in fase recessiva ed il calo della produzione industriale è stato più consistente di quanto gli economisti avessero paventato. Ciò è stato determinato, come già si diceva, dalla ripresa produttiva tedesca che in parte ha chiuso la valvola delle esportazioni nonché dall'apprezzamento della Lira che guadagnando qualche punto ha reso meno concorrenziali le nostre merci sul mercato europeo. Alla contrazione delle esportazioni va sommato il calo, altrettanto significativo della domanda interna. L'autunno si preannuncia durissimo. La recessione economica che investe già l'Europa sarà in misura maggiore sopportata da paesi come l'Italia e la Francia le cui economie sono più deboli ed il progressivo deprezzamento del Marco rispetto a Franco, Lira e Sterlina aumenterà ulteriormente i costi che i paesi pagheranno sull'altare delle convergenze di Maastricht. Questo quadro, già plumbeo, rischia di essere ancora più pesante per il nostro Paese se, a quanto si può intuire dalle dichiarazioni di Bertinotti, Rifondazione Comunista costringerà l'Esecutivo ad un difficile equilibrismo quotidiano nel governo dell'economia.
Certo Bertinotti ha le sue ragioni, e noi siamo d'accordo con lui, quando contesta la politica di totale acquiescenza alle «necessità di mercato» prospettata da Prodi, ma va anche detto che certe dichiarazioni pubbliche del segretario di Rifondazione sono intempestive quanto pericolose specie quando non tengono conto dei rapporti di forza; economici, politici e diplomatici intercorrenti tra le diverse entità statuali e l'estrema debolezza della Nazione italiana. Non sappiamo quantificare quanto vi sia di strumentale e di demagogico nella pretesa di porre, prima dell'insediamento del nuovo governo, la questione della permanenza dell'Italia nell'Alleanza Atlantica e quello della ridiscussione dei criteri di Maastricht. Abbiamo l'impressione, speriamo infondata, di un Bertinotti incapace di affrancarsi dal ruolo antagonistico finora espletato, con una certa maestria, per contribuire a risolvere concretamente i problemi più urgenti del Paese. L'uscita dalla Nato è un progetto di portata strategica, sul quale siamo da sempre consenzienti; utilizzarlo per mettere in difficoltà il Governo Prodi, ancora prima del suo insediamento, è prova di infantilismo politico nonché della incapacità, propria ai massimalisti parolai, di fare i conti con la realtà.

Al termine della Notte

Del loro massimalismo fuori tempo e fuori luogo, Cossutta e Bertinotti hanno dato ampia dimostrazione criticando aspramente il discorso pronunciato in occasione del suo insediamento dal neo-eletto Presidente della Camera, Luciano Violante.
E se l'irritata reazione del vecchio trombone stalinista è da attribuire alla senilità ormai incipiente, quella di Fausto Bertinotti è certo più «politica», funzionale all'esigenza di mantenere intatta la favoletta dei «repubblichini brutti, sporchi e cattivi» («Favoletta» alla quale non ci pare attribuisse soverchia importanza qualche anno addietro, ai tempi «gloriosi» di «Fare Sindacato»...) perché l'antifascismo in termini elettorali paga ancora.
Quello pronunciato dal Presidente della Camera, anche in considerazione della sua storia personale, è stato un discorso coraggioso, un atto che se non rende giustizia alle centinaia di migliaia di italiani «che si schierarono dalla parte sbagliata» (e che da quello stesso scranno furono definiti, nel '46, da un Presidente del Consiglio «Scimmie urlanti che ancora parlano di patria»), e che combattendo «dalla parte sbagliata» (sbagliata perché ha perso!) sacrificarono la loro vita, riconosce loro l'aver agito in perfetta buonafede.
Il discorso del Presidente della Camera non è un episodio isolato. Sono sempre più frequenti i segnali che è in atto, sulla «questione Fascismo», una profonda riflessione. Basti qui ricordare quanto affermato nel suo intervento al TG1 delle Venti, la vigilia di Pasqua, dall'editorialista della RAI ed ex-partigiano Igor Man a premessa del suo commento sulla crisi bosniaca: «Voglio in questa occasione rendere omaggio ai morti di tutte le guerre ed in particolare ai miei compagni partigiani ed ai volontari della RSI che si batterono ad Anzio e Nettuno contro gli Alleati».
Ed è significativo che la «Patria», la stessa per la quale si batterono quelli che «scelsero la parte sbagliata, quando tutto era perduto» («per l'Onore d'Italia», era il loro motto), alquanto demodè solo pochi mesi orsono, torni ad echeggiare non più solo nelle sempre roboanti, e spesso vuote e insulse concioni, del Presidente della Repubblica, ma anche nei convegni e nelle manifestazioni della sinistra pidiessina. A dimostrazione di come l'identità e la coesione nazionale siano questioni estremamente serie, il valore delle quali viene in luce specie nei momenti in cui si rischia di perderle.
«La Patria non si nega, si conquista». Una verità assoluta, soprattutto quando la difesa della propria Patria è anche difesa dei diritti delle patrie e delle altrui culture.
Dalla Sinistra istituzionale è venuta una prima, positiva risposta alla sfida che noi lanciammo da queste colonne indicando di votare per i partiti della sinistra.
Ne aspettiamo delle altre, più impegnative. Nella speranza che alla componente centrista dell'Ulivo non venga permesso di dettare le linee della politica economica e sociale dei prossimi mesi.

A. De Ambris

 

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