da "AURORA" n° 34 (Aprile - Maggio 1996)

LE IDEE

Il «Socialismo militare» di Carlo Pisacane

Francesco Moricca


«Perché, perché? Dov'è la forza antica,
Dove l'armi e il valore e la costanza?
»

Giacomo Leopardi, "All'Italia"


«La nostra cara Patria spezzerà le sue catene quando al culto dell'individuo
succederà il culto delle idee. Quando ogni Cesare troverà il suo Bruto»

Carlo Pisacane, 27 maggio 1852


Il saggio che Nello Rosselli dedicò al Pisacane agli inizi degli anni Trenta -quando «tutto sembrava andar bene al fascismo», come dice Walter Maturi paragonandolo alla "Storia d'Europa" del Croce per il suo significato di testimonianza di fede inconcussa nei valori della «libertà»- è certo, per questa ragione, ragguardevole ben al di là dei suoi pregi storiografici. In Pisacane, vede il Rosselli in qualche modo l'espressione più emblematica, e la più esasperata, delle «contraddizioni» che caratterizzarono il nostro Risorgimento; e che, per un verso, ne fanno un fenomeno europeo fra i più radicali nonostante tutto (Pisacane «quasi precursore» del materialismo storico marxiano e dunque del «socialismo scientifico»); per l'altro, invece, sono premessa della «degenerazione» del nazionalismo italiano nella prima metà del secolo scorso che condurrà al fascismo. Nonostante il Pisacane concepisca la trasformazione rivoluzionaria della società italiana come «un eden per tutti -sostiene il Rosselli- imperniato sulla solidarietà degli interessi (Libertà ed Associazione è la sua formula preferita), il suo temperamento lo costringe nel contempo a conservare l'istintiva visione della vita come aspra continua lotta d'individui e collettività ed a considerare il perfezionamento morale e materiale degli istituti e degli uomini come condizionato appunto al perpetuo rinnovarsi di questa lotta (e cioè della concorrenza)». Donde le «contraddizioni del suo socialismo (principalissima appunto la contraddizione fra il fondamento liberale della rivoluzione sociale e quello illiberale, anti-individualistico, costrittivo che informa la sua concezione del novus ordo post-rivoluzionario). Una «concezione del mondo», dunque, cui si contrappone un «istinto» e che non riesce ad esprimersi «razionalmente» ovverosia integralmente, in quanto non sostanziata da una profonda cultura. Pisacane e infatti per il Rosselli «uomo di media cultura, non nato agli studi, ma (solo) ansioso di contribuire con tutto sé stesso al risorgimento della sua patria (italiana)» (cfr. "Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano", Torino, 1977, p. 166).
Strano che un conoscitore di cose militari quale fu il Generale Pisacane -indiscutibilmente un «intelletto singolare» e un innovatore della polemologia, secondo la ponderata valutazione del Pieri (cfr. "Guerra e politica", Vicenza, '75, p. 205)- sia considerato dal Rosselli privo di profonda cultura. Strano quanto significativo: come dire che l'«istinto», segnalato dal Rosselli quale irrisolto elemento di contraddizione della cultura del Nostro, sia appunto quello proprio al militare; che, come tale, resterebbe sempre estraneo alla vera cultura. Pure il Rosselli, in alcuni luoghi del suo saggio, riconosce al Pisacane doti di incisività letteraria e persino una dolorosa consapevolezza della condizione umana, quasi un pessimismo di tipo leopardiano; che però supera se stesso volontaristicamente e pragmaticamente: cioè attraverso un chiaro rifiuto non della cultura ma dell'intellettualismo borghese. Altro limite del Rosselli consiste nel fatto che egli, nel brano citato, riduce in modo arbitrario la concezione pisacaniana della guerra alla pura e semplice «concorrenza»; come se, parafrasando malamente il Clausewitz, il Pisacane, ovvero Rosselli che lo interpreta, ritenesse che la guerra non è altro che la «prosecuzione dell'economia con altri mezzi». Ciò è perlomeno discutibile, come la tesi molto posteriore di un Binni e di un Gianessi per cui il Leopardi della "Palinodia" e della "Ginestra" sarebbe anche lui un «precursore» del materialismo storico marxiano. Per il Pisacane del Rosselli, e per il Leopardi del Binni, si nota una non casuale convergenza di giudizio circa l'interpretazione di due concezioni del mondo che sono certamente affini quanto sostanzialmente irriducibili a una filosofia come che sia materialistica: per la presenza di una forte componente spiritualistica che in quanto tale non esclude il realismo ma invece soltanto il materialismo, che è ben altra cosa rispetto al realismo. Il quale ammette il pessimismo, ma respinge categoricamente lo scetticismo.
La confusione della fondamentale quanto elementare distinzione fra i concetti di realismo e materialismo è caratteristica del pensiero moderno fin dalle sue origini tardo-medioevali. Essa costituisce sul piano ontologico e necessariamente su quello gnoscologico ciò che accomuna le concezioni del mondo proprie al liberalismo e al marxismo: che le accomuna nell'atto stesso di contrapporle «dialetticamente». Ridotta alla materia, la realtà vi si risolve senza residuo. È il «principium individuationis» ciò che esprime l'essenza ultima della realtà. Ma la vera realtà -che esiste indipendentemente dalla sua rappresentazione- fa comunque il suo corso; e quando risulti incontrollabile secondo gli schemi inventati dall'intelletto (il che si verifica in ultima analisi sempre come ben sanno i fisici nucleari e gli epistemologi), quel pessimismo che è caratteristico del pensiero «pre-scientifico» diventa lo scetticismo del pensiero «scientifico».
Tale constatazione, che con buona pace degli imbonitori della moderna scienza si deve far risalire alla scienza greca e segnatamente a Pirrone e alla sua scuola, conduce per vie anche tortuose, ma sempre orientate in una precisa direzione, verso un individualismo radicale che si esprime nel Settecento con le teorie economiche di Adam Smith e si ripropone oggi in quelle dell'«anarco capitalismo».
Sul fronte opposto del materialismo storico, questo individualismo radicale si afferma nella istanza della soppressione della proprietà privata e nella deduzione più generale di un diritto «di tutti» alla fruizione del «piacere», diritto che «legittimava» la rivoluzione come puro atto distruttivo e «operazione chirurgica», e ne dava una spiegazione «scientifica» a partire da una «critica dell'economia politica» (che come «scienza» non esisteva prima della conquista del potere da parte della borghesia, ovvero esisteva in forma «primitiva», immediata e più o meno rudimentale).
Presso il materialismo storico, la volontà degli individui (che è il vero «principium individuationis», almeno nei termini «umani» nella filosofia) non ha alcuna rilevanza, ma ne acquista una mostruosa nel quadro della rivoluzione, in presenza di una rigida struttura di partito che impedisce che questa volontà sia toccata dallo scetticismo, e la impedisce mediante i noti sistemi.
Ciò non avviene presso il liberalismo. Non per tanto, tuttavia, l'«individuo» vi ha maggior rilievo. La centralità che speciosamente gli si attribuisce ha una valenza esclusivamente economica, ogni altro aspetto della vita individuale viene svuotato di senso e oggettivamente mortificato attraverso un permissivismo al limite e spesso oltre il limite della licenza. L'elemento metafisico della volontà è distrutto già solo per il fatto di essere omologato alla stregua della «uguaglianza giuridica naturale». Quando il borghese «colto» s'avvede di ciò, non può non cadere nel più completo scetticismo, assai più mortifero del pessimismo leopardiano perché uccide la «volontà di potenza», persino la volontà dell'ascesi che è l'ultima espressione della volontà, d'una trascendenza reale perché comunque incarnata. Il borghese «colto» veste allora i panni del rivoluzionario perché non è capace nemmeno di essere un conservatore.
L'odio per qualsiasi «forma» e in genere per tutto ciò che significa decoro, l'odio per qualsiasi disciplina che non sia quella ottusa e bovina «del lavoro» accomuna oggi, dopo la caduta del comunismo sovietico, indistintamente tutti.
Persino negli eserciti si è imposta questa logica, si è voluto sopprimere quanto vi sarebbe di «inumano», di «stupidamente inumano» nella disciplina militare. Sempre più il militare finisce col somigliare a un invertebrato «tecnico dello sterminio». Quanto ancora sopravvive, nell'individuo come nelle istituzioni, che tenda a una vera autonomia, viene perseguito, bandito e crocefisso. È inammissibile solo pensare che libertà possa consistere nel saper disciplinare la ricerca del «piacere», che possa darsi una «scienza» in tale materia. E ciò in quanto verrebbero a urtarsi i «princìpi dell'economia», e una «scienza» che non sia funzionale a questi «princìpi», non è che puro «vaneggiamento».

Che tali considerazioni «nichilistiche» siano oggi e solo oggi tanto evidenti da risultare scontate, non significa però che non siano state note ed esaustivamente sceverate, senza aspettare la «sensata esperienza», quando il processo storico oggi concluso (si parla di «civiltà post-industriale», di «nuovo Rinascimento») era nella sua fase decisiva: nell'età della Restaurazione che ha termine con le rivoluzioni del 1848. Dette considerazioni erano riducibili al sistema politico di coniugare la rivoluzione nazionale e la rivoluzione sociale, la cui richiesta era stata determinata dal generale e gravissimo impoverimento dei ceti più umili avutosi col passaggio dal capitalismo mercantile a quello industriale: un problema che «attraversa» sia il pensiero della Restaurazione sia il pensiero rivoluzionario, dalle prime manifestazioni del babeufismo, alla Carboneria specialmente napoletana, al socialismo «utopistico», al mazzinianesimo, all'anarchismo, allo stesso socialismo «scientifico». È notevole segnalare che nel contesto di tale problema si inseriva la questione se, conquistata l'indipendenza nazionale, la forma del nuovo Stato dovesse essere federale ovvero unitaria. La questione in Italia era stata risolta nel senso del federalismo sia presso la Carboneria che presso il Gioberti che non poterono non influenzare un Ferdinando II e il suo «alter ego» Carlo Filangieri. Per la soluzione unitaria, per la quale finirà col propendere lo stesso Gioberti dopo il '48, si schierò invece il Mazzini. Da ciò il suo irriducibile contrasto (che segnerà profondamente le sue divergenze col Pisacane e in genere col «partito dei militari» di Genova fra cui primeggiavano, oltre allo stesso Pisacane, altri napoletani come il Cosenz e i due Mezzacapo) coi federalisti democratici: col Cattaneo e col Ferrari, anticipatori del concetto recentissimo di «macro-regione» fatto proprio dalla Fondazione Agnelli, il primo delineando una federazione italiana in cui le regioni del Nord fossero economicamente orientate verso la Mitteleuropa, il secondo verso la Francia. Le tesi del Cattaneo e del Ferrari furono subito abbracciate dal Pisacane e dagli altri napoletani del «partito militare» in quanto le Due Sicilie avrebbero conservato la propria autonomia e realizzato subito, con l'appoggio della federazione italiana, la loro vocazione geopolitica naturale di ponte degli interessi italiani ed europei verso l'Oriente, travagliato da almeno cinquant'anni da un'annosa «questione».
Tuttavia il dissenso dei «militari» dal Maestro, non implicava esclusivamente una diversa opinione di strategie geopolitiche, la quale era peraltro più apparente che sostanziale. Implicava invece un diverso, ma non molto diverso modo di concepire la risposta al problema sociale, cioè la questione del socialismo. Ebbe a scrivere nelle sue "Memorie" assai giustamente lo Herzen che Mazzini «era stato socialista nei giorni precedenti al socialismo, (e che) divenne suo nemico non appena questo da generica tendenza si trasformò in una nuova forza rivoluzionaria» a cui non poteva perdonare di essere sorta fuori dalla sua influenza; ovvero, verrebbe da aggiungere, con connotazioni antiborghesi che egli non poteva accettare (e non lo diciamo, questo, mettendoci dal punto di vista di un Marx; ma lo diciamo da un punto di vista spiritualista integrale: è certamente il Mazzini uno spiritualista, ma comunque entro i limiti della concezione borghese, per giunta di una borghesia ancora troppo legata a certi schematismi giacobini, anche se certamente non condizionata da un gretto feticismo della «proprietà privata»). Il Pisacane ebbe a stigmatizzare tale difetto del Maestro, scrivendo nel '52: «Noi (mazziniani, come italiani) siamo sempre cattolici e papisti, anzi gesuiti; la discussione, la critica sono per gli italiani bestemmia, i nostri apostoli gridano: silenzio ed obbedienza, come i capi d'una compagnia religiosa». Ma vale la pena, per dare comunque al Mazzini tutto il merito che gli spetta in ordine alle sue grandi doti di intelligenza politica oltre che etiche, riportare il seguente brano dei "Ricordi su Pisacane", in cui egli rende onestamente giustizia alle posizioni del Nostro e del «partito militare», intendendo a fondo il nesso esistente fra la concezione della «nazione armata» e la questione della reale emancipazione del popolo non più inteso negli angusti termini della borghesia:
«(Pisacane) ripeteva spesso (...) con me che, o le nostre moltitudini non erano preparate alla lotta suprema, e bisognava educarle con forti fatti, o lo erano, e bisognava guidarle. A questo dilemma non abbiamo mai, né egli né io, trovato risposta chiara da quei che dissentono» (cor. mio).
E qui v'è tutta la grandezza del Mazzini, di quel suo non demordere mai da una intransigenza che alla fine lo renderà spiacente a tutti e lo farà ritenere «superato».
Assai prima, nel 1842, il Mazzini aveva scritto che «non si fondava nazione se non si fondava per tutti, se non si chiamavano tutti (...) a concorrere nei doveri e a partecipare nei diritti che sgorgano dal concetto (socialista) nazionale». E agli operai aveva detto: «avete combattuto finora col programma delle altre classi; date oggi il vostro e annunziate collettivamente che non combatterete se non per quello»: dove è appunto la preminenza dei «doveri» sui «diritti» che segna incontrovertibilmente il superamento della logica borghese, mercantile, tanto borghese quanto proletaria, del «do ut des»; una tacita sintonia con le tesi svolte, in ordine alla questione sociale, dal «reazionario» Gioberti, tanto nel "Primato" che nel "Rinnovamento", e per cui il Mazzini è da considerarsi non solo «condizionato sempre» dalla dottrina sociale della Chiesa -secondo la tesi ufficiale del PCI- ma addirittura un «laico» precursore, quando ancora le medesime concezioni del Gioberti erano tenute per «assai sospette» dal papato.
È in definitiva la fortissima, e non irrazionalistica, connotazione del pensiero mazziniano nel senso di un deciso e generoso volontarismo, ciò che caratterizza l'antimarxismo della sua idea sociale; che è da ritenersi socialista, epperò non in termini «utopistici» né in termini «scientifici». Del che, nell'ambito della critica marxista, l'unico a rendersi conto fu il Gramsci, per il quale «il nucleo solido del mazzinianesimo, il suo contributo reale al Risorgimento (fu) nella continua e permanente predicazione dell'unità», svolta con sommo sprezzo d'ogni «realistica» considerazione, pura sempre perfino dalla tentazione del trasformismo.

Aveva dunque ragione il Pisacane nell'accusare il Maestro d'autoritarismo avvicinandone, in senso buono, la figura a quella di Sant'Ignazio di Lojola? Il suo limite intellettuale consisteva in vero nell'incapacità dottrinaria a concepire l'azione come realizzazione in cui, mediante l'atto e nell'atto, la casualità della contingenza venga inglobata e dominata dal pensiero. Il Mazzini non riusciva a vedere nell'«azione» altro che il suo aspetto dimostrativo ovvero propagandistico. Assolutamente sprovvisto di qualsiasi nozione di scienza militare, non comprendeva il carattere risolutivo dell'azione militare, non comprendeva affatto il nesso inscindibile esistente fra guerra e politica. La sua concezione rifletteva una «forma mentis» naturaliter militare (onde l'accostamento al fondatore della Compagnia di Gesù, però improprio perché questi era effettivamente un militare), ma essa restava su di un piano astratto per cui dovette sempre rivolgersi ad esperti (la sua dipendenza e insieme insofferenza del «partito militare») senza poi essere capace di giudizio autonomo. E da ciò i suoi ripetuti insuccessi, ultimo dei quali fu appunto la Spedizione di Sapri, in cui riuscì a trascinare lo stesso Pisacane; anzi non propriamente, come se fosse riuscito a ottenebrargli la mente.
È significativo che il Mazzini, conosciuto il Pisacane all'epoca della Repubblica romana, ne abbia subito fatto il suo consigliere militare elevandolo al grado di Colonnello dello Stato Maggiore, cercando, quanto meno, di subordinargli Generali come il Rosselli e soprattutto il Garibaldi. I dissidi successivi, anche gravi, si ricomporranno fra i due poco prima della spedizione di Sapri; e la riconciliazione sarà piena e assoluta, senza riserva alcuna dall'una e dall'altra parte, quasi che i due si fossero alla fine resi conto della loro reciproca complementarietà.
In definitiva, come chiarissimamente attesta il citato brano dei "Ricordi", il Mazzini s'era reso conto che il socialismo nazionale, non potendosi costruire sulla base del principio marxiano quanto bakuniniano della «lotta di classe», dovevasi costruire sul principio della lotta di tutto il popolo per la sua indipendenza nazionale (contro l'internazionalismo della «lotta di classe»); che anzi lo spirito militare, nella sua espressione più alta, che non è meramente «tecnica», ma politica ovverosia religiosa, doveva informare di sé qualsiasi aspetto della vita dei cittadini nel nuovo Stato sorto dalla rivoluzione nazionale.
Queste erano le idee sviluppate dal Pisacane nelle sue opere polemologiche. Se egli accettò di compiere un'impresa che sapeva bene «tecnicamente» impossibile, fu proprio perché, accettando in pieno e nell'essenza più profonda e terribile l'insegnamento del Maestro, intendeva suggellare col proprio martirio il superamento della tecnica secondo la profetica visione del nuovo Stato; che era una visione religiosa prima che politica, e non implicava affatto l'elevazione della politica a religione, perché ciò contrastava con la concezione pisacaniana della libertà, tanto che egli aveva accusato il Maestro d'essere un «italiano gesuita».
Questa idea della libertà che era del Discepolo non meno che del Maestro, non poteva essere quella «alta» del liberalismo. Mazzini era un massone ben strano e Pisacane non lo era affatto. Con buona pace di Nello Rosselli, Pisacane non era un «ateo perfetto» (cfr. op. cit., p. 300), perché costui è un perfetto nichilista: Il quale non può concepire l'idea del suicidio e tanto meno quella del martirio. Il nichilista, come oggi si può constatare a ogni pie' sospinto non è che un «porco del gregge di Epicuro».
L'idea alta della libertà, piuttosto, prima che dal Mazzini, il Pisacane la aveva appresa in quel Collegio dell'Annunziatella dove era entrato tredicenne, e poi nel tanto vituperato esercito borbonico. Poco prima della Spedizione di Sapri, nel novembre del '56, il Barone Bentivegna inalberava la bandiera della rivoluzione a Palermo. L'8 dicembre un semplice soldato calabrese, Agesilao Milano, atteggiandosi ad eroe plutarchiano, ferì di baionetta Ferdinando II. Processato e condannato a morte per direttissima, rivolgeva ai giudici la seguente istanza: «(...) vi prego di far giungere ai piedi del Sovrano l'umile preghiera di visitare le sue provincie, per vedere a che son ridotti i suoi sudditi». Ferdinando, che durante e dopo l'attentato si comportò con grande dignità e mostrando di che tempra fosse il suo cattolicesimo, fu peraltro, a detta del De Cesare, profondamente turbato nella coscienza dall'episodio tanto da collegarlo poi all'orribile malattia che, tre anni più tardi, lo avrebbe portato ancor giovane alla tomba fra atroci sofferenze. Nell'estate del '57, colui che era stato paggio alla sua Corte e «quasi un figlio», il Generale Carlo Pisacane dei Duchi di San Giovanni, si trova nei pressi di Sanza, a terra, ferito da una fucilata al fianco sinistro. Gli è addosso una masnada di villici assetata di preda quanto di sangue. Brandiscono roncole, spiedi, falci. Il Generale ha ancora la forza di sussurrare (ma il suo è il ruggito del leone ferito): «Assassini, mi derubate, ed ora mi uccidete: conducetemi alla giustizia». Poi, con mano ferma, estrae la pistola e si dà la morte.
Il 6 febbraio 1850, Leopoldo del Belgio scriveva alla nipote, l'ineffabile Vittoria d'Inghilterra: «I nobili italiani si sono mostrati (nel '48) dei grandi pazzi, operando come hanno fatto ed aprendo così la strada alla rivoluzione sociale». Giudizio freddo e sprezzante da re borghese, che per noi italiani vale un peana.

La grandezza del Pisacane sta nell'avere egli compreso a fondo le ragioni del contrasto esistente fra il Mazzini da un lato e il Cattaneo e il Ferrari dall'altro: che è quanto dire fra unitarismo e federalismo in ciò che essi, in ordine al piano delle istituzioni, riflettono un contrasto fra le «idee» di autorità e libertà, di causalità e casualità, di determinismo e indeterminismo; un contrasto che secondo il Pisacane non può essere superato se non nell'azione determinata dalla volontà in un contesto di immediata contingenza: nell'azione militare intesa come atto supremo e risolutivo delle contraddizioni politiche. Da ciò la sua adesione alle tesi federalistiche, la quale va ben oltre il suo significato geopolitico, avendo una valenza tutta speciale che investe l'ancora irrisolto problema della «scienza moderna»: quello di trovare una «teoria» che formalizzi la disomogeneità radicale di «res cogitans» e «res extensa» postulata da Cartesio. Tale problema «epistemologico» ovvero «axiologico» (derivato dai presupposti materialistici e infine nichilistici della «scienza moderna») viene giudicato dal Pisacane come un «falso problema» (paralogismo), secondo l'impostazione realistica della «filosofia» che è sua non meno che del Mazzini, sebbene nel Mazzini si trovi solo come formulazione astratta. Il Pisacane, in altri termini, appropriandosi dell'anarchismo proudhoniano e adattandolo al proprio ragionamento, introduce, nel mazzinianesimo e nella sua dottrina dell'«azione» dei germi attualistici che precorrono il Gentile (il che spiega anche il grande interesse che il Pisacane suscitò in Bakunin e nei suoi discepoli italiani, il pugliese Cafiero e l'emiliano Costa; per i quali, ovviamente, non potevano contar nulla, gli elementi di mazzinianesimo mai rinnegati dal Nostro, in cui videro soltanto l'antimazziniano e il compagno malauguratamente Generale).
Il pensiero del Pisacane, dunque, si trova nelle sue opere polemologiche e non può non trovarsi che in esse. Quand'anche egli avesse avuto il tempo per scrivere un'opera «filosofica», certamente non la avrebbe scritta.
Come polemologo egli non è soltanto un «intelletto singolare», come afferma il Pieri; o lo è piuttosto, nel senso che, avendo in realtà enucleato i presupposti politici (nell'accezione letterale e traslata del termine) della polemologia, mostra quanto meno d'aver «fiutato nell'aria» la lezione del Clausewitz. Il Pieri sostiene -e in verità con argomenti non di poco conto- che il Pisacane non avrebbe letto il "Vom Krieg". Ma si potrebbe obiettare che «almeno qualcosa» della sostanza del libro, in perfetta linea con l'intonazione spiritualistica del pensiero della Restaurazione, doveva necessariamente averla appresa fin dai tempi della Nunziatella e negli otto anni in cui prestò effettivo servizio nell'esercito borbonico.
Nel '47 il Pisacane diserta per fuggire con Enrichetta di Lorenzo maritata Lazzari. Con questa scandalosa fuga esplode in forma eversiva una silenziosa riflessione sulle problematiche proprie alla «rivoluzione restauratrice» di Ferdinando II; verso il quale -è documentato- egli avvertì in un primo momento un irresistibile trasporto, trasformatosi poi alla fine in un giudizio scevro da ogni preconcetto. Allorquando con l'appoggio del Cavour si ventilò la possibilità di una restaurazione murattiana nelle Due Sicilie, onde riscattare esse e l'Italia tutta dall'obbrobrio d'avere un sovrano definito nell'Europa borghese «negazione di Dio», il Cosenz (legato al Pisacane da un'amicizia che risaliva ai tempi della Nunziatella e che non fu incrinata nemmeno dall'infatuazione -ricambiata- del Cosenz per Enrichetta) dichiarò: «in caso d'invasione della Francia (...) avrebbero rimesso (lui e il «partito militare») sul loro petto il giglio dei Borboni e si sarebbero battuti contro i francesi». Ciò fu testualmente riferito dal Console siciliano in Genova al Ministro degli Esteri di Ferdinando, poco prima della Spedizione di Sapri. D'altra parte, nel corso di quest'ultima, il Re in persona intervenne per sostituire, al comando del contingente inviato ad affrontare i rivoltosi il Colonnello Filippo Pisacane, fratello maggiore del Nostro, col Colonnello Ghio, affinché il fratello non avesse ad uccidere il fratello.
Riguardo ai motivi che spinsero il Pisacane alla «folle» impresa di Sapri il Macchi, che cercò in ogni modo di impedirla, scrisse poi: «Tempo non è ancora di rimuovere dinanzi al pubblico il velo dell'infausto mistero» (cfr. N. Rosselli, op. cit., pp. 307-308).
Vi è poi un altro «mistero» sul quale -a quanto ne so- si è preferito tacere. Come fu possibile che il Pisacane, che ancora nel '47 militava nell'esercito borbonico, nel '48, fosse già socialista e tanto politicamente maturo da suscitare l'interesse del Cattaneo, che lo incontrò fugacemente a Milano, prima che il Pisacane partisse per il fronte, e lo incoraggiò a scrivere la prima delle sue opere polemologiche, "Sul momentaneo ordinamento dell'Esercito lombardo nell'aprile del 1848"?
La risposta non può essere che questa: il Pisacane conobbe il socialismo alla Nunziatella, e lo conobbe perché glielo insegnò il Generale Filangieri consenziente Ferdinando II.
Allora la «rivolta» contro il suo re equivale in Pisacane alla «rivolta» contro il Mazzini, che si manifesta appunto nel suo interesse, non solo geopolitico, per l'anarchismo del Proudhon e per il federalismo democratico-rivoluzionario del Cattaneo e del Ferrari. Anarchismo e federalismo diventano tutt'uno in funzione di un'idea della libertà che si afferma nell'azione militare e politica come sintesi dialettica di causalità (come ordinamento e disciplina dell'esercito e come arte della guerra in generale) e di casualità (come particolare situazione contingente che costituisce problema tattico-strategico).
Ciò non significa affatto che per il Pisacane l'istanza politica dell'anarchismo e del federalismo valgano indipendentemente e talmente da condizionare la condotta della guerra rivoluzionaria, perché essa è in realtà l'atto politico supremo.
È vero piuttosto il contrario.
Sicché federalismo o unitarismo, anarchia o al contrario dittatura militare saranno per se stessi validi, di volta in volta, secondo le finalità che si propone la politica; epperò una politica che concepisca la guerra come sua «prosecuzione con altri mezzi».
Mi si consenta ai esemplificare con un riferimento alla scottante contemporaneità. Laddove le tesi della Lega in ordine al federalismo, ovvero le tesi della Sinistra Nazionale in ordine all'economia partecipativa in ciò che esse possono ricondurci tanto al socialismo «utopistico» quanto all'anarchismo proudhoniano, non siano in conflitto o semplicemente non rischino di entrare in conflitto con l'unità della Nazione, possono senz'altro essere discusse in vista di una fattuale realizzazione. Ove esse invece costituissero un rischio non ipotetico ma concreto, allora non solo non dovrebbero prendersi in alcuna considerazione, ma sarebbe necessario procedere con la massima determinazione contro chi se ne facesse assertore.

Nei "Saggi", contro ogni autoritarismo, egli condanna (come non vedervi una trasparente allusione al suo Re come al Mazzini): «coloro che sotto il dispotismo pretendono che il popolo si educhi a libertà per poi esserne degno; tanto vale dire ad un uomo legato: prima di scioglierti è d'uopo che impari a correre» (III, 140). Parimenti ridicolizza l'opinione filistea di quanti ritengono disgrazia creare condizioni di libertà di pensiero e d'intrapresa economica che arricchiscano «l'Italia di tanti diversi concetti per quanti uomini pensanti essa conta» (ivi, 116). «Come in una nazione non può costituirsi il nuovo patto fra i cittadini, se ognuno di essi non acquisti piena ed intera la sua individualità, così non vi sarà fratellanza, o meglio associazione di popoli, se prima ogni popolo non ottenga la sua completa autonomia (...); il primo passo che dobbiamo fare noi Italiani (...) è quello di sentirci e di costituirci esclusivamente italiani» (ivi, 1186; cor. miei).
Dunque, sì al federalismo di Cattaneo e Ferrari; e sì ancora a un'economia fondata sull'assunzione più radicale del principio dell'associazionismo e della partecipazione (quello espresso dal Proudhon); e nella misura in cui federalismo ed economia partecipativa sono reciprocamente collegati come nel concetto di «funzione matematica», dove la «funzione» è appunto l'unità nazionale, garantita da un organismo sovraordinato con compiti di Governo degli affari comuni degli enti federati, organismo i cui componenti sono sindacabili e revocabili dal popolo, ma che possiede comunque il compito etico di esercitare una vera e propria dittatura ove si renda necessario, se ne è capace e fatto salvo legalmente il «diritto di resistenza» dei cittadini.
In ciò la distanza incolmabile del Pisacane dal Bakunin. Quanto al Marx, se egli accetta il principio della dittatura, non lo accetta solo per la fase transitoria del «socialismo», perché non crede affatto nella possibilità di una società come quella prefigurata dal «comunismo» marxiano. Se nell'ambito di una nazione, è possibile superare i conflitti economici fra gli «individui» e le «classi», non è tuttavia possibile, secondo il Pisacane, superare quelli fra i popoli in quanto, diremmo oggi, «etnie». L'etnia, in quanto si eleva al rango di nazione, fa nascere il sentimento di reciproco rispetto e di comune «fratellanza» fra le nazioni. Ma poiché l'etnia si trasforma in nazione attraverso l'assunzione di uno stile di vita militare e attraverso la guerra, il principio della guerra, fra le nazioni, nel suo significato etico, diventa un imperativo religioso. La guerra, fuori da ogni riduzione ai fatti economici, diventa alcunché di elementare e assolutamente «originario». Lo stesso Rosselli riconosce che: «da buon socialista, Pisacane non ha che parole di sdegno e di irrisione per il liberismo dottrina economica, e il liberalismo dottrina politica»; per cui vi sarebbe una piena contraddizione fra il «di lui innato prepotente individualismo libertario» e il suo «socialismo autoritario» (op. cit., p. 306).
Ma in realtà il Rosselli mostra di non essere in grado di comprendere la concezione pisacaniana della libertà con le categorie del suo proprio liberalismo. Pisacane non si può definire «libertario». La sua idea di dittatura non è quella giusnaturalistica di «dittatura commissaria». Il «dittatore» di Pisacane si arroga tale titolo arbitrariamente epperò riconoscendo, e sancendo per legge, ai cittadini il «diritto di resistenza». Egli non ha bisogno del «permesso degli oppressi» per esercitare su di loro «legalmente» l'oppressione: il che spiega i pessimistici e profetici giudizi («contraddittori» ovviamente per il Rosselli) che egli formula sul «popolo» nel "Testamento politico".
Più che un «precursore» del marxismo-leninismo (e se vogliamo del trotskismo ove si scorga analogia fra la concezione pisacaniana della «guerra» e quella trotskiana della «rivoluzione permanente»), il Pisacane va ritenuto a pieno titolo un precursore del Sorel e del sindacalismo rivoluzionario. Cosa che ha visto con impareggiabile chiarezza il Rosselli nel suo libro (cfr. op. cit., pp. 219-224), e che ne costituisce il nucleo centrale, implicando una spassionata riflessione (audacissima per un liberale che si richiamava ai valori dell'ottocentesco Partito d'Azione) sulle origini risorgimentali del fascismo, e per cui esso, contro il parere autorevolissimo del Croce, non poteva ritenersi una «malattia» transitoria della democrazia liberale.

La polemologia del Pisacane è contenuta nei "Saggi" II e IV, ed è tutta incentrata sul concetto di «nazione armata», un concetto che si ritrovava già in Machiavelli. Da lui egli trae la teoria -discutibile- del «primato» militare degli Italiani in quanto «discendenti» dai Romani. Per una esposizione ordinata e criticamente ragionata della teoria pisacaniana nella condotta della guerra, si rimanda alla citata opera del Pieri. Sostenitori del concetto di «nazione armata» furono tra gli altri il Generale Allemandi (cfr. "Il soldato cittadino", 1850 e "Del sistema militare svizzero applicabile al popolo italiano", 1850), nonché il Generale Mariano D'Ayala (cfr. "Degli eserciti nazionali", 1850).
«L'ordinamento militare come il civile sorgeranno dalle viscere stesse della nazione»: «una terra, un borgo che insorga non ha bisogno d'attender gli ordini e l'impulso della capitale (...), potrà sempre comporre un battaglione, una compagnia, un pelotone (sic), una squadra (...), eleggere i capi corrispondenti ed inviarli ove appuntasi di far massa» (IV, 154; cor. miei). Tuttavia, secondo l'esperienza storica più recente, l'insurrezione deve partire dalla città, e avere parecchi focolai onde impedire la concentrazione delle truppe inviate a reprimerla. Il principio tattico del «far massa» e agire per «manovre interne» è mediato dalla lezione napoleonica e trasferito alla guerriglia urbana. Dal Machiavelli -e solo da lui- viene l'idea che la combattività del soldato dipenda dalla sua certezza di combattere per la difesa dei propri interessi materiali, per la «giustizia sociale» che è l'unico mezzo per introdurlo alla comprensione della più alta idea di «nazione». Questo giustifica il principio dell'elezione degli Ufficiali (in sé tecnicamente improponibile), come anche l'altro secondo cui nell'edificazione del futuro Stato sorto dalla rivoluzione «bisogna che tutto vi proceda dal basso all'alto» IV; 153).
Per queste idee il Pisacane devesi ritenere il primo studioso della guerriglia: di una tradizione tutta latina che teorizzò l'esperienza dei guerriglieri spagnoli e italiani impegnati ai primi dell'Ottocento contro l'occupazione francese, una tradizione che conduce direttamente agli scritti militari del Guevara. Ma egli fu anche un critico assai lucido dei limiti propri alla «guerra per bande», il che è dimostrato dai suoi dissidi col Garibaldi. Egli avrebbe infatti voluto organizzare le bande come un vero e proprio esercito regolare (cosa in cui riusciranno poi il Trotsky e Fidel Castro e meglio ancora, mi sembra, il Generale Giap e Mao Tse Tung).
Un giudizio assai severo sul Pisacane teorico della guerra lo si trova nel citato libro del Pieri, di cui riportiamo i passi salienti.
«L'arte militare sua rimane in sostanza, anche nell'espressione più caratteristica e originale della nazione armata, il prodotto spirituale di un ufficiale vissuto nell'orbita dell'esercito di caserma, il quale, mentre ne denuncia con profonda spregiudicatezza i grandi difetti, non riesce a concepirne un altro tecnicamente migliore: entro questi limiti, la concezione del teorico napoletano rappresenta il massimo e più originale sforzo di ricavare da un'arte militare già invecchiata e anchilosata, e destinata di lì a tre lustri a segnare il proprio definitivo tracollo, le estreme possibilità. Non direi nemmeno infatti che essa rappresenti il ponte di passaggio fra l'arte militare napoleonica, intesa nel suo più ampio significato, e quella delle due grandi guerre mondiali della prima metà del secolo XX. Il ponte di passaggio è al riguardo segnato dalla guerra di masse umane (non ancora masse di materiale) del periodo moltkiano. Nel Pisacane non c'è nulla della mentalità tedesca: il suo mondo militare è quello francese, quando non cerca di legarsi disperatamente a una tradizione militare italiana» (cfr. op. cit., p. 204).
«Manca nella nazione armata dall'ufficiale napoletano, nella nazione cioè che esprime da ogni sua fibra tutto quanto sia imperiosamente richiesto da un supremo sforzo guerresco, il concetto della guerra assoluta, che porta seco anche quello della guerra totale, concetto già più che intravisto venticinque anni prima dal Clausewitz (...). Il grande teorico della guerra notava infatti come prima del 1793, l'attività diplomatico-militare dei governi si fondasse sopra forze militari limitatissime; ma in quell'anno se n'era sprigionata in Francia una, di cui non si era avuta in precedenza la minima idea: improvvisamente la guerra era divenuta una guerra di popolo» (cfr. op. cit., p, 203; cor. miei).
Ma è pur vero che nel 1893 in Francia, a differenza che nel '48 e fino al '59 in Italia, il potere era saldamente nelle mani delle forze rivoluzionarie. Allora la concezione della «guerra assoluta» era praticabile solo nella versione mazziniano-pisacaniana dell'insurrezione continua, con una originalissima concezione del «far massa»; la quale, si è visto, veniva applicata alle formazioni di insorti nella guerriglia urbana, in azioni coordinate di contingenti di volontari non numerosi epperò tecnicamente preparati e ideologicamente motivati. Inoltre, la «guerra assoluta» pisacaniana esorbita dal puro fatto militare. Pisacane la estende allo stato post-rivoluzionario, come mobilitazione permanente in ogni settore della vita nazionale. In questo senso egli è addirittura un «precussore» del nazionalsocialismo germanico (che è più radicale del «socialismo prussiano»), nonché del nazionalbolscevismo staliniano.

Francesco Moricca

 

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