da "AURORA" n° 34 (Aprile - Maggio 1996)

L'OPINIONE

Giudicare la giustizia

Agos Presciuttini

Dunque il presidente Scalfaro, intervenuto tempo fa al congresso di una delle private associazioni degli operatori della Giustizia, ha tuonato pubblicamente contro la ventilata divisione della carriera dei magistrati, che mira a separare il ruolo organico dei giudici veri e propri dal ruolo delle ben diverse mansioni inquirenti. Se e quanto ci sia da ridire sulla estemporanea esternazione (pronunciata da libero opinionista o da Presidente istituzionalmente vincolato?) e se sia soltanto un fatto di stile o addirittura di lesione dell'ufficio ricoperto, è questione non del tutto priva di rilievo, ma nemmeno lontanamente paragonabile, per importanza, alle ragioni del dilemma «separazione» si o no. D'altra parte, un merito alla esternazione va riconosciuto senza esitazione: quello di avere attirato nuovamente l'attenzione dei mezzi di informazione e dell'opinione pubblica sulla complessa problematica inerente al funzionamento della nostra Giustizia.
Di nodi da sciogliere, il Parlamento non ha soltanto quello della carriera unica o separata. L'argomento carriera comporta anche il riesame del vigente sistema di avanzamento, basato come è sulla mera anzianità di servizio; non anche sul merito e subordinatamente alla disponibilità dei posti, come necessariamente e giustamente è per tutte le altre categorie di personale retribuito a carico del bilancio statale, comprese le magistrature amministrativa (TAR e Consiglio di Stato) e contabile (Corte dei Conti). Parrà incredibile, ma se applicato per esempio nelle Forze Armate, l'automatismo delle promozioni a scadenza temporale comporterebbe che ogni Sottotenente diventerebbe Generale senza riguardo alla progressione selettiva delle funzioni e delle responsabilità; e si finirebbe per avere Comandanti di Compagnia col grado, e naturalmente con lo stipendio, di Generale. Non basta: il magistrato che voglia entrare nell'agone politico e ottenga l'elezione a Deputato o Senatore, continua a progredire nella carriera giudiziaria per tutto il tempo del mandato parlamentare (caso più noto, quello dell'ex-magistrato Oscar Luigi Scalfaro) e, se non rieletto, torna a fare il giudice o l'inquirente, pur nella chiaramente acquisita qualificazione ideologico-partitica, non certo chiaramente compatibile ed opportuna per chi è dotato di prerogative, poteri e doveri derivanti dall'esercizio della giurisdizione.
A parte questioni siffatte, situazioni da riesaminare tenendo oculatamente conto della specificità della funzione giudiziaria, ce n'è persino di ancor più rilevanti: dall'ammodernamento delle strutture e strumentazioni materiali alla riduzione dei tempi, insopportabilmente lunghi, vigenti sia nel processo penale che in quello civile. Per non parlare della spaventosa frequenza, recentemente segnalata da statistiche paurose, dei casi di condanne patite da cittadini poi risultati e riconosciuti innocenti (chi non ricorda la vicenda Tortora?).
Dovrebbero essere anche rivisti i meccanismi relativi alla determinazione del trattamento economico, congegnandoli in modo che non possa ripetersi un fatto avvenuto una ventina di anni fa, e che vale la pena di ricordare, perché passò inosservato al pubblico. Fino al 1951 la progressione dei magistrati in carriera e stipendio era disciplinata dalla normativa comune a tutte le categorie di personale dello Stato. Con la legge 392/1951 le magistrature ottennero un trattamento economico e giuridico particolare, «sganciato» da quello generale e notevolmente più favorevole. L'esempio fu seguito da altre categorie, col risultato che venne definito «giungla retributiva». Allo scopo di rimettere ordine il Governo fu delegato, con le leggi 249/1968 e 775/1970, a riformare carriere e retribuzioni sia degli impiegati che dei magistrati, sulla base della equiparazione retributiva delle qualifiche di Consigliere di Cassazione e Direttore generale di ministero; gli stipendi delle altre qualifiche di magistratura dovevano essere stabiliti nel rispetto della speciale scala di progressione vigente dal 1951. La delega al Governo fu tradotta in pratica nel DPR 748/1972.
Il riaggancio della retribuzione del personale di magistratura a quella dei funzionari statali, benché limitato al solo livello citato, non piacque ai magistrati, che cercarono di indurre, in vari modi, il potere politico a ripristinare la dissociazione, fino al diniego di registrare, e cioè di rendere esecutivo, il decreto 748, opposto dai magistrati della Corte dei Conti; tanto che il governo risolse, per non lasciar vanificata la sudata e annosa riforma, di applicare -forse per la prima volta nella nostra storia istituzionale- la norma che consente di ottenere la registrazione d'autorità, salvo ratifica del Parlamento.
Entrati dunque in vigore i nuovi stipendi, fu però esperito un ulteriore «rimedio». Diversi appartenenti alle varie magistrature interpretarono il disposto legislativo in maniera difforme dalla lettura che ne dava l'amministrazione pagatrice e, contro l'applicazione operata da quest'ultima, fecero ricorso al Consiglio di Stato. I Magistrati della Corte dei Conti ricorsero alla Corte stessa, avvalendosi della «giurisdizione domestica», ossia della facoltà di risolvere le proprie controversie nell'ambito dell'organo di appartenenza. In ambedue le sedi i ricorrenti sostenevano che spettava ai Consiglieri di Cassazione e qualifiche equiparate, non lo stipendio attribuito alla qualifica (tipica) di Dirigente generale di ministero (ex-grado IV, comprendente alcune centinaia di funzionari) bensì il superiore stipendio della qualifica (atipica) di Dirigente generale di livello B (ex-grado III, comprendente una cinquantina di funzionari, tra Prefetti di prima classe, Capo della polizia, Ragioniere generale dello Stato, Capi delle aziende autonome statali).
L'accoglimento della tesi non avrebbe ristabilito l'ambita dissociazione; avrebbe però comportato, per effetto anche della vigente scala di progressione, l'attribuzione a tutti i Magistrati, a partire dalla qualifica iniziale, dello stipendio del livello superiore: una specie di collettiva promozione di grado. Per sostenere la tesi i ricorrenti affermavano un «principio» di preminenza delle magistrature sulle altre categorie di stipendiati statali.
I Giudici del Consiglio di Stato e della Corte dei Conti considerarono mera controversia amministrativa quella che in concreto rivendicava un salto di stipendio per l'intera categoria; e non dubitarono di essere legittimati a decidere i ricorsi. C'è da aggiungere che gli Avvocati dello Stato, cui incombe il compito di difendere le ragioni dell'erario, fruiscono dello stesso trattamento dei Magistrati. Quello fu dunque uno strano procedimento giudiziario, perché ricorrenti, resistenti e giudici avevano tutti l'identico interesse personale ad una soluzione determinata, quella stessa per cui il procedimento era stato attivato. È un fatto che gli avvocati erariali non opposero la questione giudiziale dell'imparzialità del giudice. La esaminarono invece i giudici stessi, prima per rilevare che non era stata sollevata, poi per concludere che, sebbene personalmente interessati nel giudizio, i magistrati giudicanti non potevano esimersi dal rendere giustizia ai ricorrenti.
Così la resero (*) e contestualmente le presero, avvalendosi di strumenti loro affidati non certo per deliberare sugli stipendi della categoria di appartenenza (pensare un po', se analogamente si procedesse per esempio nei corpi militari, cui sono affidati ben altri strumenti). Trattandosi della retribuzione di interi organi dello Stato e non di vertenze amministrative individuali, sarebbe stato sacrosanto ritenere che spettava al potere legislativo, semmai, il compito di rendere incontestabilmente legittimo il proprio intento normativo; e qualche deputato si espresse in tal senso. Ma evidentemente i partiti preferirono lasciare andar le cose per quel verso, che consentiva di scansare responsabilità scomode (e che favoriva gli stessi Parlamentari, essendo le loro indennità automaticamente legata alle variazioni del trattamento economico delle magistrature).
Viviamo un'epoca nella quale da decenni non si fa che parlare, a singhiozzo, di rifare l'architettura costituzionale. Chissà che la fase attuale non sia la volta buona del singhiozzo risolutivo. In primo luogo per ammodernare le massime istituzioni. Ma anche a proposito degli argomenti qui accennati.
Agos Presciuttini

(*) - Decisione del Consiglio di Stato, Sezione IV, 19 novembre 1974 e decisione della Corte dei Conti, Sezioni riunite in sede giurisdizionale, n° 59/B del 14 marzo - 28 maggio 1975.

Agos Presciuttini

 

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