da "AURORA" n° 35 (Giugno 1996)

EDITORIALE

Nonostante tutto... qualcosa si muove

Luigi Costa

Le recenti elezioni amministrative hanno prodotto risultati sui quali è bene meditare. Il rinnovo dell'Assemblea Regionale siciliana, ad esempio, ha evidenziato (anche se il forte astensionismo ha in parte falsato i dati definitivi), un forte radicamento territoriale dei partiti nati dalla frantumazione della Democrazia Cristiana. La crescita in consensi e seggi di CDU, CCD, PPI è stata di portata tale da autorizzare gli eredi di Forlani e Andreotti a porre una questione di leadership nel Polo delle libertà, essendo Forza Italia, unitamente ad Alleanza Nazionale, uscita malconcia da un confronto elettorale nel quale a perso oltre la metà dei consensi.
Il rafforzamento dei centristi lascia supporre scenari prossimi venturi tutt'altro che tranquillizzanti, assodato che il potere di condizionamento dei moderati, Dini compreso, è già considerevole tanto che fin d'ora si può ipotizzare che nessun governo presente e futuro, di destra o sinistra, potrà sottrarsi alla tutela dei residui politici della Balena Bianca.
L'altro importante dato è quello proveniente dalle urne di alcune importanti città del Nord, impegnate nel rinnovo delle Amministrazioni comunali. Umberto Bossi è stato qui pesantemente ridimensionato da un risultato elettorale dal quale si evince che la maggioranza dei Settentrionali non condivide affatto le sue tesi secessioniste. Il parlamento del Nord e le altre eclatanti iniziative del leader leghista e la pessima prova fornita dagli amministratori targati Carroccio, hanno ridotto Bossi all'angolo. Ciò costringerà la Lega ad alzare ulteriormente i toni della polemica contro il «centralismo romano» e, presumibilmente, spingerà la classe dirigente leghista, in debito di visibilità, ad accelerare i tempi in tema di secessione nella speranza di arrivare ad un accomodamento vantaggioso col potere romano. Certo è che il colpo subito dalla Lega, ridotta al lumicino persino nella pretesa capitale del Nord-nazione, Mantova, è di quelli difficilmente assorbibili, essendo ormai evidente che il «delirio» leghista gode di marginali quanto spurii consensi.
Il quadro politico generale non ha risentito dei risultati delle elezioni amministrative, perché la sinistra è risultata in forte crescita in tutta Italia, Sicilia esclusa; vi è comunque da rilevare che il bilancio dei Governo Prodi è al momento tutt'altro che entusiasmante. Il centrosinistra, infatti, assorbito dal varo di ben due manovre finanziarie, è stato parco di iniziative proprio nei settori in cui, durante la lunga campagna elettorale prodiana, più urgente veniva indicato l'intervento dello Stato. La crescita, pur minima della disoccupazione e la politica dei redditi che ancora una volta penalizza i ceti produttivi non depongono a favore di una coalizione governativa nella quale il peso dei vari Ciampi, Di Pietro, Dini e Maccanico si rivela ogni giorno più consistente.
Il PDS, in questo frangente politico, non ci pare in grado, anche in considerazione delle difficoltà della Segreteria, impegnata a stoppare la deriva «democratica» di Walter Veltroni, di pressare l'esecutivo perché si muova con maggiore cautele ed equità in campo sociale. La manovra finanziaria per il '97 è sottoposta a dura critica sia dalle parti sociali che dall'ala sinistra della coalizione governativa. Il rispetto dei tempi imposti dal trattato di Maastricht non possono indurre il governo, in cui il concorso delle Forze popolari è determinante e preponderante, ad una politica economica che penalizza i bassi redditi e dilata ulteriormente l'area della disoccupazione e delle nuove povertà. Tutto questo Massimo D'Alema dovrebbe ogni tanto ricordarlo a Romano Prodi, Presidente del Consiglio grazie ai voti della Sinistra.
Lo scontro interno al PDS, con da una parte i fautori del «partito democratico» all'americana, capeggiati da Veltroni, e dall'altra i sostenitori della «svolta» socialista, è di quelli destinati a monopolizzare per mesi l'attenzione del mondo politico. La prospettiva di cui si fa portavoce D'Alema è abbastanza nitida; egli, infatti, non si limita a proporre, in alternativa al partito democratico veltroniano, un partito socialista di «tipo europeo»; ossia modellato sulle grandi social-democrazie, ma si spinge oltre, fino a recuperare e rivalutare alcuni aspetti che erano alla base della strategia craxiana. Sostiene, infatti, il Segretario pidiessino, in una sua recente intervista: «L'esperienza craxiana non è una bella pagina del socialismo italiano, ha segnato un declino ed una degenerazione. Detto questo, io non ho mai negato due cose. Primo, che il craxismo allo stato nascente muovesse (...) dall'esigenza di una modernizzazione. In questo, indubbiamente, alla fine degli anni '70, il PSI  ha intuito meglio e prima di noi l'esigenza di una rottura (...). E l'altro tema che Craxi aveva visto giustamente (...) è quello dell'unità socialista una volta esaurita la vicenda comunista». E ancora: «Vorrei un grande partito al quale possano far riferimento sia la Fondazione Gramsci che quella Nenni».
Vogliamo sperare che alla strategia unitaria del Segretario, non siano estranee le parole pronunciate dal Presidente della Camera, Luciano Violante, nel suo discorso di insediamento (: «... la necessità di capire le ragioni dei vinti ...»), in quantochè, un politico accorto come Massimo D'Alema non può ignorare l'esistenza nella storia d'Italia di un sinistra diversa da quelle socialista ed ex-comunista; ossia quella partecipazionista e socializzatrice.
Se la «riflessione» dalemiana non osasse spingersi fino in fondo, lo stesso coagularsi di un'entità unitaria della sinistra perderebbe gran parte della sua capacità di attrazione, in quanto essa, non disponendo di un progetto di ampio respiro strategico, dovrebbe ridursi al ruolo subalterno di contrappeso della montante deriva liberista. Ed è di un progetto, la «Terza via» di belingueriana memoria, che la sinistra ha bisogno, venuti meno i miti del socialismo reale ed annullatesi, nel fallito tentativo di «umanizzare» il capitalismo, le istanze sociali delle quali erano portatrici le grandi social-democrazie, non resta alla sinistra per darsi un «punto di coagulo vitale» che incarnare le istanze partecipative e socializzatrici che, pur appartenendo alla migliore tradizione socialista, sono state demonizzate in virtù del loro essere state l'asse portante della legislazione della Repubblica Sociale Italiana.
E sarebbe assurdo, dal momento che il PDS ha normalizzato i rapporti con Alleanza Nazionale, che ancora ci si ostinasse ad escludere un dialogo con i cosiddetti «fascisti di sinistra», nei confronti dei quali persino Palmiro Togliatti rivolse, a suo tempo, particolari attenzioni.
Pidiessini e socialisti hanno di che meditare, specie se non cadono nell'errore di sottovalutare il «ritorno del centro». Ritorno che per mesi era aleggiato nell'aria, ma che il risultato siciliano ripropone in tutta la sua concreta pericolosità.
 

Luigi Costa

 

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