da "AURORA" n° 35 (Giugno 1996)

LE IDEE

Trasversalità nell'insegnamento:
multidisciplinarità, interdisciplinarità, transdisciplinarità: pedagogia e istituzione scolastica nell'era post-industriale

Francesco Moricca


«Noi non vogliamo (...) rinchiuderci tra le siepi anguste della beghinità sovversiva, dove si biascicano meccanicamente le formule corrispondenti alle preci delle religioni professate, ma siamo uomini vivi, che vogliamo dare il nostro contributo, sia pure modesto, alla creazione della storia»

Benito Mussolini 
("Il Popolo d'Italia", 15/11/14)


«Il vecchio Governatore aveva fatto una brutta fine. Bird gli aveva dato molto pro (...) ma essendo di quella razza che prende facilmente certe malattie, egli cadde in potere del drago e, presa con sé la maggior parte dell'oro, fuggì e morì di fame nel Deserto, abbandonato dai suoi compagni»

J. J. Tolkien
"Lo Hobbit"


Una definizione dei concetti di «multidisciplinarità», «interdisciplinarità» e «transdisciplinarità» è indispensabile perché, mai come oggi, il significato delle parole (e dei concetti corrispondenti) appare vago: affidato, più che all'opinione personale degli individui, che pur nella sua soggettività è comunque relativamente stabile, alle interferenze mediali che rendono l'opinione estremamente cangiante, togliendone di fatto il controllo al soggetto umano che ne è tuttavia portatore. L'alta frequenza con cui si succedono i messaggi mediali e la loro rapida quanto caotica introiezione, provocano notevoli trasformazioni nella psiche dell'uomo contemporaneo, trasformazioni le quali sono considerate «patologiche», dalla psicologia sociale e dalla medicina del lavoro, solo nella misura in cui risultano essere «mal tollerate» dall'organismo umano, ovvero abbassano il livello di ciò che suole definirsi «qualità della vita».
Ogni altra considerazione che concerna il danno derivantene per l'autonomia del soggetto, e dunque per la libertà delle sue volizioni e decisioni (nel che consiste la sostanza etica della democrazia) viene di fatto esclusa, ovvero limitata a mere dichiarazioni di principio e di intenti. Né potrebbe essere diversamente, giacché nelle attuali società «evolute» vige una separazione rigida fra lo Stato e la Chiesa; la quale separazione ha una innegabile validità: epperò laddove allo Stato si riconosca una autonomia etica, sia pure in contrasto con quella etico-religiosa della Chiesa. Ma questa eticità dello Stato è oggi contraddetta dalla tendenza a subordinare le finalità etiche dello Stato alle «ragioni» dell'economia. Il trattato di Maastricht, per esempio, sancisce l'indipendenza, nell'ambito di rilevanti decisioni, della Banca centrale dello Stato dalle autorità politiche dello Stato stesso.
Su questi temi, che hanno importanza fondamentale per la riforma della Scuola italiana, anche per quanto attiene alla questione della scuola privata e dell'assunzione di criteri aziendali nell'amministrazione di quella pubblica, ritorneremo più avanti.
Ora definiamo in maniera precisa i tre concetti che sono oggetto della nostra trattazione.
La «multidisciplinarità» va intesa nel senso che è da ritenersi tendenzialmente indefinito il numero delle discipline il cui studio verrà previsto, nella scuola del futuro, in ragione delle richieste provenienti dal mondo dell'economia, più esattamente, in ragione della ferrea «legge del mercato». Ciò ha come conseguenza che alcune discipline dovranno per forza di cose esser studiate meno di altre e al limite perfino soppresse.
La «interdisciplinarità» è da intendersi come la costruzione di una didattica atta a collegare l'insegnamento delle diverse discipline, acciocché esse contribuiscano a creare la professionalità del discente secondo il particolare indirizzo della scuola. Tale concetto di «interdisciplinarità» dovrebbe avere una duplice valenza: sia squisitamente «tecnica», sia, più in generale, «formativa» della integralità della persona; ed è un concetto, questo, mediato o piuttosto residuo della pedagogia umanistico-rinascimentale, segnata fortemente e nonostante tutto dalla spiritualità cristiana. Tuttavia, data la suaccennata tendenza contemporanea a subordinare l'azione educativa e l'istruzione scolastica alla «superiore legge del mercato», è evidente che la «interdisciplinarità», di fatto, dovrebbe, in un futuro che è già presente, ridursi alla sua mera valenza «tecnica». Peraltro, atteso quanto prima si diceva circa i limiti intrinseci della «multidisciplinarità», la medesima «formazione tecnica» diventa un concetto indefinito se non equivoco, come si è evidenziato presso studiosi di vario orientamento. Infatti la «formazione tecnica», vista in relazione alle problematiche inerenti al criterio economico della «mobilità del lavoro», dovrebbe consistere nell'acquisizione, da parte del discente, di abilità supertecniche, di una sorta di tecnica di tutte le tecnologie. Se quest'ultima è un arduo obiettivo persino a studi universitari ultimati, non lo sarà «a fortiori» nella scuola media ad essi propedeutica? La «sperimentazione» è stata di fatto un fallimento, o comunque ha conseguito risultati divergenti da quelli prefissi, in quanto muoveva da presupposti teorici mal organati, forse adombranti un'insanabile contraddizione concettuale. Così, è significativo che a livello universitario, al titolo tradizionale della «laurea» si sia affiancato quello del «diploma universitario»; il quale, lungi dall'attestare il possesso di abilità supertecniche, attesta al contrario una professionalità ristretta, solo più approfondita di quella che si può conseguire in un normale corso quinquennale di scuola media superiore.
In conclusione, il concetto di «interdisciplinarità» va inteso secondo un'accezione piuttosto elementare: in relazione alla possibilità di instaurare collegamenti utili fra discipline affini e limitatamente all'acquisizione di mere capacità esecutive. Per quanto sia doloroso ammetterlo, bisogna non farsi troppe illusioni sulla possibilità di realizzare l'«interdisciplinarità» nella sua valenza più alta. Ciò non significa però rinunciarvi. Significa piuttosto fidare sul proprio personale lavoro, facendo valere le ragioni dell'esperienza piuttosto che le teorie degli specialisti; che andrebbero viste non come dogmi inattaccabili, ma come spunti di riflessione e di orientamento. Si proceda sempre con massima cautela, per evitare quei danni che è facilissimo provocare quando si è troppo entusiasti; e soprattutto, curiosamente, quando si è animati dalle più nobili intenzioni.
Venendo alla «transdisciplinarità», non dovrebbe essere difficile, dopo quel che si è detto, definirla appunto come quella tecnica di tutte le tecnologie che rappresenta l'«utopia» dell'era post-industriale, di quello che suole definirsi «nuovo Rinascimento» ovvero «terza cultura».
Infine, può essere utile osservare come l'espressione «trasversalità nell'insegnamento» evochi un'altra «trasversalità» di cui spesso si parla nelle cronache politiche. Ciò deve far riflettere sulla «magia delle parole» di cui si diceva, e per sottrarci alla quale abbiamo avvertito la necessità di definire con rigore il significato dei concetti in esame.
La nostra trattazione si svilupperà sui temi della «terza cultura»; della «semeiotica» e della «multimedialità»; delle trasformazioni in atto nelle strutture logiche della mente umana; di alcuni significativi aspetti che il fenomeno comporta nella psiche sotto il profilo medico. Si proporranno, in conclusione alcuni spunti di orientamento operativo.

 

 Nuovo Rinascimento e Terza Cultura

Stupirà, forse, che qui si siano ricondotti dei concetti scientifici al dominio dell'opinione piuttosto che a quello della certezza; e che essi si siano presentati come sottoposti, nell'ambito della stessa opinione dello studioso, all'influenza fortemente condizionatrice dei media, quasi fossero meri prodotti di consumo come le automobili e i detersivi.
In realtà, il problema della scienza, da Platone ed Aristotele fino ad oggi, è stato sempre quello di distinguere fra opinione e certezza; ovvero, paradossalmente, di dare all'opinione veste «sistematica», e cioè apparenza di certezza. Anche i media sono sempre esistiti: dal totem dei primitivi alle piramidi egizie, dai libri alle cattedrali gotiche, che erano «libri scritti con la pietra», concepiti per poter esser compresi anche dagli analfabeti. La differenza fra le culture antiche e le più evolute, consiste notoriamente, non tanto in una pretesa miglior qualità delle seconde rispetto alle prime, ma nel fatto che le culture più evolute sono più «complesse», e sono proprie di gruppi sociali assai più numerosi di quelli antichi. Inoltre -e ciò ci permette di passare alla realtà storica concreta- le culture antiche sono «organiche», a differenza di quelle più evolute o «moderne». Una cultura si dice «organica», quando concepisce la realizzazione dell'individuo entro la società, non fuori e contro di essa. Si è soliti pensare che le società antiche lascino molto poco spazio all'iniziativa personale, che somiglino molto a dei formicai e a degli alveari. Ma è stato rilevato che l'uomo antico era assai più duro a piegarsi, a rinunziare alla sua «libertà naturale», di quanto non sia l'uomo «civilizzato». Questi, ad onta delle istituzioni democratiche, è infinitamente più condizionato e condizionabile, perché è interiormente molto fragile.
Le culture evolute, si è detto, sono più «complesse». Ma anche, in un modo tutto speciale, le antiche dovevano esserlo. Diversamente, nella loro «semplicità», non avrebbero potuto produrre opere che sono ancora mirabili, sebbene sfigurate dal tempo. Si pensi in particolare alla civiltà greca dalla quale traggono origine quasi tutte le problematiche della scienza contemporanea, e che, prima fra tutte, conobbe l'ordinamento democratico e ne studiò a fondo le caratteristiche, ideando esperimenti di «ingegneria sociale» in cui il «modello culturale» e l'istituzione scolastica acquistavano funzioni di primaria importanza, come in Platone, Senofonte, Isocrate. La Sofistica e la democrazia ateniese sono fenomeni strettamente correlati. In particolare, la «complessità» in senso moderno ha una nascita essenzialmente «speculativa» presso la Scuola eleatica, ma è con la Sofistica che si sviluppa sul terreno concreto della società e della storia politica, dando vita all'individualismo e alla democrazia. Le «antinomie» eleatiche, da costruzioni teoretiche atte a indagare «dialetticamente» nelle sue parti costitutive la monolitica e impenetrabile unità dell'Essere parmenideo (siamo già nella logica del «riduzionismo») diventano le «opinioni» dei Sofisti, che si scontrano nei tribunali e nelle assemblee popolari, e il cui criterio di verità e universale certezza è dato solamente dal fatto empirico del successo nella disputa, la cui «potenza» è tutta nella capacità di ridurre al silenzio l'avversario mediante l'illusionismo della «parola-segno»: è una potenza modernamente «mediatica». Nel celebre discorso dei Melii, Tucidide descrive con grande efficacia i risvolti politici dell'«illuminismo greco»: cosa fu realmente la democrazia periclea come effetto del prevalere del ceto mercantile e della sua politica aggressiva e imperialistica. Ai Melii che invocano «giustizia», si risponde che i fatti sono in quanto tali «giustizia», che sono causa e non effetto di «giustizia». Il debole, lo sconfitto non può invocare a sua difesa nessuna giustizia superiore, ma solo la clemenza del vincitore, e niente può obbligare quest'ultimo a concederla che non sia il suo arbitrio.
Ecco dunque una modernissima e radicale affermazione di immanentismo. La pluralità dei fenomeni è riconducibile a un'unità che non è più quella di Parmenide e che sarà poi di Platone. Non è più un'unità reale e trascendente, ma un'unità fittizia e immanente; l'unità del «segno» in funzione di un'azione del soggetto umano incondizionato, il cui valore è dato solamente dal successo. Pertanto, casualità e causalità sono sostanzialmente l'identica cosa, come postula la moderna teoria della «complessità», implicante il «riduzionismo» come quell'insieme di tecnologie teoretico-pratiche atte a studiare la «complessità» col metodo della scomposizione; tecnologie che sono pervenute, con l'informatizzazione, a un grado di perfezione illimitato, e che si devono sviluppare senza riguardo alcuno per la vita dell'uomo, degli aggregati sociali, dell'ambiente naturale.
Nel suo saggio su "La Società aperta e i suoi nemici", Karl Popper coglieva, già agli inizi degli anni Quaranta, il fatto che un «nuovo Rinascimento» non avrebbe potuto verificarsi senza una società «aperta» a qualsiasi trasformazione nel senso degli ideali politici e delle concezioni economiche del liberalismo; e additava, quali principali ostacoli al progressivo attuarsi delle potenzialità della scienza moderna, due modelli di organizzazione sociale, contrapposti fra loro, ma ambedue riconducibili al pensiero «pre-scientifico». Secondo il Popper questi modelli erano stati elaborati dai due massimi nemici della società «aperta», Platone e Marx, e corrispondevano ai regimi instaurati dal fascismo e dal comunismo. Nell'edizione del '59, il Popper concluderà che l'eliminazione del fascismo a seguito della seconda Guerra mondiale, sarà seguita dall'eliminazione del comunismo, preconizzando quasi profeticamente che questa non sarebbe avvenuta per effetto di un conflitto armato, ma per effetto di una «superiorità culturale» dell'Occidente; verrebbe da aggiungere, col senno del poi, per effetto anche della sua capacità di adoperare l'economia capitalistica privata come un'arma più efficace di qualsiasi arma propriamente detta. Sta di fatto, comunque, che il crollo del comunismo ha determinato l'avvento, di un nazionalismo mai prima conosciuto per la sua esasperazione «riduzionistica». Si tratta del nazionalismo a tendenza regressiva e «tribale» che si è espresso nella ex-Jugoslavia e nei Paesi facenti parte dell'ex-Unione sovietica, un «nazionalismo» che si sta affermando, forse irreversibilmente, anche in Occidente e, purtroppo, nella stessa Italia.
Nella fattispecie dell'analisi dei concetti relativi al nostro tema, il «nuovo Rinascimento» consisterebbe nell'elaborazione di una «terza cultura» che risolva l'annosa dicotomia fra cultura «umanistica» e cultura «tecnico-scientifica»; e anzi, più a monte, fra cultura «accademica» (sia «umanistica» che «tecnico-scientifica») e cultura «popolare», da intendersi, quest'ultima, come quella cultura supertecnica o «transdisciplinare» che sia strumento «culturale» della «necessità economica» di rendere attuabile il principio della «mobilità del lavoro». In tal senso si tratterebbe di costruire sistemi pedagogici (più che una pedagogia unitaria) e tecnologie didattiche finalizzati a una «divulgazione scientifica» che non abbia i limiti, o almeno tutti i limiti, della mera «volgarizzazione» del sapere. Il Brockmann, per fare un esempio, plaude alla «attività di quegli scienziati che sanno dire cose nuove e interessanti sul mondo e su noi stessi; che le sanno raccontare a un pubblico vasto, diffondendo la conoscenza oltre i confini angusti dell'accademia».
Ecco dunque una nuova figura di intellettuale, che sottrae tempo alla ricerca propriamente detta e all'insegnamento universitario, per risolvere il problema -davvero non facile- di «far divulgazione». È lecito supporre che questo nuovo intellettuale o non sarà all'altezza dei suoi compiti tradizionali e istituzionali, o non lo sarà per i nuovi: a meno che non si ritenga che lo «scienziato» sia una sorta di Superman... E si mediti sul fatto che non si sia qui usato il termine nietzschiano di «superuomo», con allusione a certe inquietanti ricerche, per lo più segrete, nel campo dell'«ingegneria genetica».
Tornando alla dicotomia fra cultura «umanistica» e cultura «tecnico-scientifica», si potrebbe osservare che Leonardo da Vinci, che pure si definiva polemicamente «homo senza littere», fu tra l'altro scrittore grande ed efficacissimo, benché non sapesse di letteratura latina e greca. Le sue capacità supertecniche sono indiscutibili; e direi quasi irrepetibili, specie se si volesse riprodurle artificialmente e senza ricorrere alla «clonazione» (impossibile nel caso di Leonardo, ma possibile nel caso di presunti «geni» che già vivono o potrebbero venire alla luce domani).
Il riferimento a Leonardo, o a Michelangelo e a qualche altro ingegno «multidisciplinare», dovrebbe farci capire che la dicotomia fra le «due culture» non è per nulla naturale; o lo è, piuttosto, nel senso che è stata creata dagli intelletti mediocri e venali. Diceva Catone il Vecchio: «Rem tene, verba sequentur». Se le «parole» acquistano rispetto ai contenuti una vita propria che suole chiamarsi «qualità estetica» o più semplicemente «bellezza», ciò significa che nelle menti che ragionano così, qualcosa non funziona a dovere. Infatti, come può darsi una bellezza e una perfezione avulse dal contenuto se non in una prospettiva «astratta», epperò nel senso della «metafisica» e della «teologia»? E non è forse questa prospettiva quella che più ripugna ai postulati pragmatistici e materialistici della «terza cultura», visto che per essa tutto principia e si esaurisce nel dominio della natura, persino l'indeterminismo della fisica sub-atomica, o certe curiose scoperte della logica matematica: dalle antinomie eleatiche al problema classico della «quadratura del cerchio», all'antinomia di Burali-Forti? Quanto oziosa fosse la questione delle «due culture» lo videro anche Albert Einstein e Karl Popper (cui spetta comunque il merito universalmente incontestabile di avere enucleato il problema della «falsificazione», non solo in ambito pseudo-scientifico, ma anche in ambito scientifico). Einstein diceva che «i problemi dell'eleganza vanno lasciati al sarto e al calzolaio». Popper, che «elaborare la differenza fra scienza e discipline umanistiche è stato a lungo una moda ed è diventato noioso».

Multimedialità e Mondialismo

Da quanto si è fin qui detto, vi sono ragioni per essere scettici su ciò che il futuro ci riserva. Per diversi e non trascurabili aspetti, quello che ci si presenta come un «nuovo Rinascimento» somiglierebbe piuttosto a un nuovo Medioevo. Si è menzionata la progressiva frantumazione degli Stati nazionali, che ricorda la medioevale dissoluzione dell'Impero romano-germanico a causa dell'anarchia feudale e dei particolarismi comunali; si è menzionato il prepotere dell'economia e della finanza, che ricorda, in maniera invertita, il prepotere della chiesa medioevale in lotta con le istituzioni dell'ecumenismo ghibellino. Possiamo aggiungere adesso altri fenomeni della contemporaneità più attuale che sembrano evocare un «medioevo prossimo venturo»: il diffondersi a livello di massa di una sensibilità morbosa per il paranormale: dal proliferare di santoni, maghi e guaritori, alle diverse manifestazioni della Vergine Maria e ai culti satanici, con i risvolti che questi culti presentano non solo in termini di reati comuni, ma anche politici in riferimento all'attività della cosiddetta «massoneria deviata»; da aggiungere ancora, con l'afflusso in Europa di ingenti masse di extra-comunitari, lo sfruttamento di manodopera in condizioni servili o semi-servili; e altresì, per effetto della «stretta creditizia» e di una criminalità inseritasi nei grandi come nei piccoli circuiti finanziari, il ritorno alla medioevale pratica dell'usura. Da ciò la ripresa di certe forme medioevali di generico razzismo, ovvero di un antisemitismo ben più virulento, perché privo di un substrato morale e religioso, di quello medioevale. Sul piano dell'alta cultura, poi, si deve rilevare, nelle sottigliezze, della «filosofia» dell'informatica, quasi il riproporsi della medioevale «disputa sugli Universali» dove è già tutta la problematica psicologica e socio-politica della contemporanea semeiotica. Infine, le sofisticatissime tecniche della logica informatica somigliano per molti versi a quelle elaborate dalla medioevale «logica terministica» e, più in generale, dalla teologia tardo-scolastica.
Poiché il «nuovo Rinascimento» e la «terza cultura» potranno affermarsi solo attraverso una riforma radicale della Scuola (la cui «privatizzazione» è solo l'aspetto più esteriore), si dovrebbe essere preoccupati non solo come uomini e cittadini, ma anche come operatori scolastici. Ciò significa essere oltremodo vigili al fine di saper gestire le trasformazioni in atto, piuttosto che essere i passivi esecutori di disposizioni che provengono da settori estranei al mondo della scuola, totalmente incompetenti delle sue specifiche e molto delicate problematiche. Vi sono degli obblighi morali, per la funzione docente, che esulano da quelli propri a qualsiasi altra deontologia professionale. E lo dimostra, paradossalmente, il fatto che la professione dell'insegnante (che anche legalmente ha una configurazione tutta speciale) sia quella peggio retribuita; e non da ieri o dall'altro ieri, quasi che il legislatore da sempre abbia voluto assimilarla a qualcosa di molto simile a una «missione». Chi sceglie l'insegnamento (e non come ripiego o seconda occupazione) sa fin dall'inizio che sarà modestamente retribuito. Per coerenza e per non perdere almeno il rispetto di sé stesso, deve resistere alla tentazione di trasformare il proprio lavoro, come si vorrebbe, in una pura e semplice «attività economica». La «logica del mercato» non dovrebbe mai entrare nella Scuola, se la Scuola vuol essere in grado di veramente contribuire non solo alla riforma di sé stessa, ma alla riforma dello stato sociale resasi ineludibile dopo il crollo del Muro di Berlino.
Dalla Scuola ci si aspetta molto e forse l'impossibile: quand'anche gli stipendi subissero un considerevole aumento, sia pure limitatamente a coloro che si mostrassero disponibili ad «accrescere la propria produttività». È significativo che persino negli Stati Uniti l'«utopia» multimediale delle cosiddette «autostrade informatiche» (cui in Italia, si è ispirato il Consorzio Nettuno), sia stata ridimensionata, tanto che il Presidente Clinton, in un suo recente appello agli industriali, ha invitato a rivedere i programmi di finanziamento pubblico e privato dell'istruzione. Questi finanziamenti -ha sostenuto Clinton- dovrebbero essere dirottati dalle infrastrutture di telecomunicazione ai nuovi tipi di istituzione scolastica; le quali, nella forma degli «stages» aziendali, avrebbero ancora qualcosa in comune con la scuola tradizionale per il fatto di essere delle comunità umane. D'altra parte Umberto Eco ha giustamente rilevato che non serve «insegnare alle persone a leggere (se) l'abbondanza della informazione rischia di distruggere l'informazione stessa». Col che si vuole porre l'accento sul fenomeno della distruzione della personalità che inevitabilmente si associa alla «tele-didattica», e per cui Eco denunciava anche una sorta di «nazismo telematico» di certe pagine elettroniche di storia del Terzo Reich, di chiara ispirazione neo-nazista «sebbene gli autori premettano di non essere nazisti»: osservazione senz'altro esatta, ma che sarebbe veramente ineccepibile ove si denunciasse altresì, orwellianamente, la possibilità di un totalitarismo del computer, nel senso che col computer si può imporre qualsiasi concezione del mondo, non solo quella del nazismo o del comunismo. È vero che Eco avverte la necessità di una «democrazia telematica», e anche suggerisce degli espedienti adeguati per realizzarla. Ma è altrettanto vero che non tiene conto del fatto che le soluzioni proposte, per la natura stessa del mezzo informatico, sono troppo «complesse», ovverosia complicate; che mettono in crisi se non addirittura stravolgono la psiche e le stesse categorie logiche della mente umana. E qui, si badi, si è ben oltre la semplice e irrefutabile constatazione che chi abbia imparato a calcolare con la macchina, non sarà più capace di farlo senza. Eco, dunque, e non è certo il solo, non considera la possibilità che, lungi dall'accrescere le potenzialità del soggetto umano, il computer in quanto strumento didattico generalizzato e di base, piuttosto, o le ottunde, o le sviluppa in una direzione che nessuno può ragionevolmente sapere se sia «super-umana» oppure «sub-umana». A me non risulta che ancora siano stati fatti studi seri sull'incidenza che l'uso del computer (ancora relativamente poco diffuso) può determinare nella patologia di certi comportamenti. Questi studi sono stati fatti riguardo all'abuso della televisione. Ma è da notare che è stato dichiarato «nocivo» (specie per l'infanzia) un certo tipo di programmi di intrattenimento: quindi l'uso edonistico (e anche pubblicitario) della televisione, non l'uso pedagogico-didattico, che è quello di maggior rilevanza economica, dove al termine «economia» va attribuita la più vasta e comprensiva estensione possibile, nel senso in cui la intende il marxismo più avveduto.
Le maggiori trasformazioni che la «civiltà» dell'immagine e del computer induce nell'uomo medio contemporaneo, a parte quelle che minacciano la sua autonomia e di cui si è detto a sufficienza, concernono le facoltà psichiche e logiche. In merito, e in assenza di studi esaurienti, si propone qualche riflessione.
La «cultura» dell'immagine, in generale, ottunde la facoltà della memoria, che tende a diminuire persino nelle fasi dell'età evolutiva da essa naturalmente più caratterizzate. Si è sottovalutato il rapporto che nell'interiorità dell'individuo esiste fra memoria e sistema categoriale dell'intelletto. Si è così tralasciato di soffermarsi sulle ragioni del fenomeno, prima segnalato, della difficoltà se non dell'incapacità di calcolare senza il computer. Di fatto l'uomo contemporaneo sta perdendo progressivamente il senso fisico del numero come quantità reale di cose reali. Ciò non solo per causa del computer, ma di tutte le macchine a sua disposizione. È questo un fenomeno tanto più sorprendente, in quanto la civiltà odierna è piuttosto una civiltà «della quantità» che non «della qualità»: è come se all'uomo contemporaneo venisse a mancare la percezione «qualitativa» della quantità, dopo aver cancellato dalle sue categorie l'idea stessa di qualità relegandola nel «museo degli orrori e delle superstizioni pre-scientifiche».
Le presenti critiche non vanno intese come un drastico quanto velleitario rifiuto della modernità, ma come un invito a rifuggire dal pregiudizio positivistico e neo-positivistico, da ciò che appare come una vera e propria «idolatria della scienza».
Questo, nel contesto pedagogico-didattico, significa che nelle scuole elementari e nelle medie inferiori dovrebbe escludersi non solo l'uso del computer (non quello degli audiovisivi), ma anche un insegnamento della matematica ad esso propedeutico, nel senso di dare alla «teoria degli insiemi» un orientamento troppo tecnico, laddove essa, invece, potrebbe servire ad evitare il limite dell'approccio tradizionale alle matematiche, che era meramente mnemonico e meccanico, forse poco funzionale alla capacità di comprensione della logica e del pensiero astratto proprie all'età evolutiva del discente.
Solo così sarebbe possibile ridurre gli effetti negativi di una pedagogia e di una didattica che riflettono necessità epocali ineludibili.
Il quadro delle influenze che avrà nel mondo della Scuola il processo di mondializzazione dell'economia, va ora verificato con dei richiami alle direttive che il trattato di Maastricht ha stabilito in materia pedagogico-didattica, e per ottemperare alle quali si è costituita in ambito europeo un'apposita Commissione di studio. Di questa Commissione Edith Cresson è l'esponente che meglio esprime la visione di Maastricht, ed è pertanto qualificata per la verifica cui ci accingiamo. Nei suoi interventi -che Silvia Matta riassume in un articolo apparso sul numero di marzo '96 della rivista "Le Scienze"- la Cresson non ha mai mancato di sottolineare «gli imperativi economici, ai quali l'adeguamento della formazione dovrà rispondere prevedendo l'evoluzione dei contenuti spendibili nel mondo del lavoro. Si tratta di realizzare un'adeguata fusione tra le conoscenze fondamentali e il sapere tecnico, una fusione che può nascere solo dal rapporto tra scuola, formazione professionale e impresa, dando nuovo spazio alle attitudini sociali nell'apprendimento continuo, fra memoria del passato e istruzione del futuro».
Il passo è fin troppo eloquente, specie ove si sottolinei il riferimento alla «memoria del passato», che, nella sua genericità, o è da intendersi come una formula retorica e quasi un equivoco omaggio alla moda del nuovo «nazionalismo riduzionistico», o come aura e semplice memoria della tecnologia del passato, null'altro che la riproposizione del solito pragmatismo americano alla Dewey. Va detto che esiste anche un pragmatismo europeo a cui degli Europei avrebbero potuto e dovuto ispirarsi!
Le indicazioni della Cresson sono state recepite dal Ministro della ricerca Salvini, secondo il quale in Italia «c'è sul mercato un'offerta di lavoro» intellettuale, che dovrebbe essere la nostra maggiore ricchezza, ma che è tuttavia «minore di quanto occorrerebbe per soddisfare tutti». Nel rapporto cogli altri Paesi, la situazione italiana rischia di essere quella di una società «povera di lavoro» a fronte di altre società «ricche di lavoro».
Mentre la Comunità europea negli ultimi venti anni ha registrato un incremento della produzione industriale pari all'80%, l'occupazione è cresciuta solo del 9%, con una disoccupazione dell'11%, con punte del 20% per quella giovanile. Lo squilibrio notevolissimo fra aumento della produzione e aumento dell'occupazione, non è determinato solo da una crisi «congiunturale» e magari «ciclica»; ma essenzialmente, da un fenomeno strutturale del sistema capitalistico nell'attuale fase «post-industriale», e che consiste nella continua ed inarrestabile, e pertanto incontrollabile, innovazione tecnologica: essa espelle sia la manodopera meno qualificata che quella più qualificata. Il venir meno della potenza geopolitica dell'URSS, ha aggravato la crisi del capitalismo, perché gli ha improvvisamente conferito opportunità di egemonia planetaria a cui non era affatto preparato; senza contare le conflittualità che nel suo ambito esistevano già fra i Paesi occidentali propriamente detti e i Paesi dell'Estremo Oriente; conflittualità che in un futuro non lontano non potranno non acuirsi, specie dopo l'entrata della Cina nel circuito dei grandi mercati e la molto probabile creazione di un «asse» Pechino-Tokio, in un primo momento solo economico, poi suscettibile, secondo le circostanze, di diventare anche politico.
Europa ed Italia, in questo scenario, devono vincere la «sfida tecnologica» per sostenere la concorrenza coi Paesi estremo-orientali, Paesi che hanno il grande vantaggio di disporre di una manodopera, anche di livello medio-alto, a prezzo di gran lunga inferiore a paragone dei Paesi occidentali. Questi ultimi devono pertanto ridurre il costo della manodopera; e ciò si ottiene «creando disoccupazione», introducendo nei processi di produzione industriale macchinari tecnologicamente sempre più perfezionati e «robotizati», ma anche favorendo al loro interno l'immigrazione dai Paesi sottosviluppati, che è un ulteriore fattore di incremento della disoccupazione. Il problema della riforma dello stato sociale è un aspetto del problema economico di ridurre i costi della manodopera, ma è anche soprattutto, un problema politico: quello di garantire la coesione sociale senza la quale il sistema capitalistico, come ogni altro sistema economico, non può funzionare. Lo stato sociale fu accettato dal capitalismo, nel periodo fra le due Guerre mondiali e successivamente fino alla caduta del Muro di Berlino, per contrastare la pressione del comunismo. Venuto meno il comunismo, la tendenza del capitalismo è quella di ritornare alle sue origini («neo-liberismo, anarco-capitalismo»), mentre la sua corrente «ecumenica», fautrice a suo tempo dello stato sociale, sottolinea piuttosto l'esigenza politica di garantire comunque la coesione sociale, senza la quale il capitalismo finirebbe per «implodere» come è già accaduto al cosiddetto «socialismo reale». Se il «pericolo comunista» non esiste più, esiste tuttavia il pericolo costituito dalla pressione demografica dei Paesi del Terzo e Quarto Mondo. Sembrano essersi riprodotte, «mutatis mutandis», condizioni analoghe a quelle che portarono alla caduta dell'Impero romano. Ma ancora il capitalismo dell'era post-industriale non ha deciso se rivedere soltanto la sua concezione «ecumenica», oppure cedere alle «suggestioni romantiche» di ritornare al liberismo puro delle sue origini settecentesche.
Il problema del capitalismo è dunque oggi quello di «gestire nel migliore dei modi la disoccupazione». Poiché la disoccupazione è prevalentemente giovanile e destinata con ogni probabilità, ad aumentare, è prevedibile o che la Scuola ridiventi rigidamente selettiva, o che, in quanto ancora «scuola pubblica», si trasformi in una gigantesca «area di parcheggio», anzi, con recentissima e pregnante definizione, in un gigantesco «luogo di accoglienza». L'innalzamento della scuola dell'obbligo a 16 anni (inderogabile e urgentissimo per il Ministro Lombardi), sembra inverare la seconda ipotesi. L'istituzione di scuole private di alto livello come la Luiss, riservate alla futura classe dirigente, ma quasi del tutto chiuse ai giovani meritevoli e di bassa estrazione sociale, sembra invece inverare la prima ipotesi. La «privatizzazione» della scuola pubblica, ha poi tutta l'apparenza di un tentativo di conciliare le due ipotesi, ed è un tentativo sulla cui riuscita potrebbero scommettere soltanto gli inguaribili ottimisti. Riguardo alle scuole private di alto livello, e con eccezione di quelle religiose, è da segnalare, ancora una volta, una predominanza del modello americano, quando invece si sarebbe potuto scegliere quello inglese, affine all'americano e perciò «moderno», ma qualitativamente migliore.
A fronte di una situazione così complessa e che ha messo in forse il futuro dei «contratti di formazione» si sono avanzate delle proposte di un certo interesse da parte del Ministro del lavoro Treu; per il quale, facendo un'indagine preliminare sulle competenze che saranno richieste dal mercato, è possibile programmare la misura e la qualità degli «investimenti formativi», sempre che -bisogna aggiungere- si possano reperire i fondi necessari. Il Ministro ha anche insistito sulla opportunità di alternare formazione e lavoro attraverso l'apprendistato. È anche allo studio un disegno di legge che rilanci i «contratti formativi» e preveda delle pene per le imprese che ostacolano l'apprendistato.
Sono queste, iniziative che riguardano il settore professionale della scuola. Manca un piano di riforma generale dell'Istruzione, perché manca una visione culturale d'insieme e non si sa far altro che baloccarsi ancora con la «sperimentazione», ignari che essa sia già stata abbandonata in Francia, e persino negli Stati Uniti. Del resto, sono trascorsi diversi decenni senza che il Ministero dell'istruzione venisse affidato a intellettuali di chiara fama, ad esperti dell'educazione, a «tecnici» nel senso più proprio del termine. 

Virtualità e patologia

Il «nuovo Rinascimento», così, somiglia a quello propriamente detto, solo in quanto la sua concezione di un «infinito in cui non è dato distinguere né centro né circonferenza», è stata «attualizzata» mediante il computer, è stata resa esperibile come realtà virtuale. Il «nuovo Rinascimento» non ha tuttavia idea alcuna della «centralità dell'uomo nell'infinito» nel senso in cui la si trova nel Quattrocento e nel Cinquecento: nessuna concezione della potenza dell'uomo come soggetto, responsabile «artefice del suo proprio destino». L'intellettuale odierno -lo si è rilevato già- non è in possesso di una cultura onnilaterale e unitaria quale si converrebbe al «cibernetico»: è un semplice specialista in un ramo del sapere. L'intellettuale del Rinascimento, «mago» e «alchimista», non intendeva signoreggiare solo la «materia», ma anche lo «spirito». L'intellettuale del «nuovo Rinascimento» ignora cosa sia lo «spirito» e si accontenta di «signoreggiare la materia», Per lui «spirito» è solo la «virtualità della materia»; ovvero, come direbbe Lenin, una «diavoleria kantiana». Egli subisce la fascinazione di questa «diavoleria», ma non è affatto in grado di stringere un «patto con Mefistofele» nel segreto intendimento di ingannare lo stesso Mefistofele. Il «nuovo Faust», assai modestamente e prosaicamente, si accontenta dello «sterco del demonio»; non desidera di «giacere con Elena» né può trovare fra le femministe una Margherita che lo redima.
Dunque la condizione dell'uomo del «nuovo Rinascimento» è quella di una radicale impotenza che si riflette, si «somatizza» persino nella sfera della sessualità con l'aumento dei casi naturali di ermafroditismo, indipendentemente da fattori di «stress» determinati dalla febbrile e caotica vita moderna, che pure ne sono un'aggravante. La patologia dell'uomo contemporaneo è una patologia virtuale: egli, parafrasando Molière, non è il «malato immaginario»; è piuttosto il malato dell'immaginario. Questa malattia è nata nell'Ottocento col Romanticismo, ma si è compiutamente manifestata nella sua sintomatologia solo con l'avvento del computer.
Poc'anzi si è osservato che il computer e la «civiltà dell'immagine» distruggono la memoria, e non solo nel senso che la memoria artificiale rende inutile quella naturale. Ora è da aggiungere che «fra colpa e destino, fra eredità e personalità, fra condizione sociale e problema organico, fra finzione e dolore, si situa il campo della malattia psichiatrica»; che la scienza medica ha addirittura tracciato un quadro di «malattie simboliche». Nell'arte (e la medicina ha fatto proprie le osservazioni e le intuizioni degli artisti a partire da Freud e Jung) le malattie vengono tutte ridotte al fattore psicosomatico, nel senso che «il loro significato si ritrova in una narrazione che è diagnosi sulla personalità, giudizio morale, costruzione di senso»: così la «nausea» di Sartre, il «nanismo trascendentale» di Grass, l'«asma» di Proust, il «male oscuro» di Berto. Anche fuori dal quadro di una medicina spiritualisteggiante, e cioè per la medicina «positiva», il fattore nervoso gioca un suo ruolo, visto che, ove la patologia non abbia riscontro in alterazioni organiche, si è costretti a invocare generici «disturbi neurodistonici». Sicché, per la medicina «positiva», si possono classificare fra le malattie psicosomatiche le ulcerazioni da causa ignota, le trasformazioni misteriose del soma, condizioni anomale come il vampirismo e la licantropia (cfr: «Normale e patologico», in "Sfera", n° 55, '93, pp. 97-98). Vampirismo e licantropia acquistano rilievo di «malattie simboliche» dell'era industriale, fra la seconda metà dell'Ottocento e la prima metà del Novecento: il Dottor Jeckill è l'inquietante Faust dell'epoca che segna il trionfo del positivismo e della macchina; Dracula e il Lupo Mannaro, oscurando la prospettiva psichiatrica dello «sdoppiamento della personalità», diventano l'ipostasi e il «mito» popolare del solo Mister Heyde, sono la radice inconscia dei casi di criminalità orrenda che sono diventati assai frequenti ai giorni nostri, quando ha termine l'era industriale e inizia quella post-industriale caratterizzata dal computer.
Adesso appare una nuova malattia simbolica, cui si potrebbero avvicinare delle malattie psicosomatiche come l'anoressia e la bulimia: la potremmo definire autismo informatico, volendo indicare la tendenza a «isolarsi», a «evadere» nel regno della virtualità, l'uso edonistico del computer (introdotto anche nei circuiti delle cosiddette «chat lines»). Questa nuova malattia è espressione di disagio sociale, non determinato, in quanto preesisteva nell'era industriale, ma acuito dall'uso e dall'abuso del computer. Mentre nell'era industriale la virtualità veniva visualizzata, esperita e fruita tramite assunzione di sostanze stupefacenti e in ambienti sociali piuttosto ristretti, si assiste oggi a una sua diffusione di massa, mediante lo sviluppo elefantiaco del mercato della droga, e mediante lo sviluppo di quello legato al perfezionamento delle tecnologie informatiche, che esso stesso si prospetta, parimenti elefantiaco, e senza che da nessuna parte, credo neanche da parte della Chiesa, se ne denuncino i pericoli.

Una pedagogia e una scuola alternative

Ciò che si suole definire con formula asettica «disagio della civiltà», ha il suo corrispettivo, per quanto riguarda il nostro tema, nel cosiddetto «disagio giovanile»: disagio di coloro che non possono non subire il «disagio» degli adulti; che è parimenti «disagio» dei genitori prima ancora che dei docenti; che è anzi il disagio proprio alla condizione del disoccupato, di chi potrebbe definirsi come colui che è costretto a vivere in un eterno stato di minorità.
Chi è in stato di minorità, deve prima di tutto convincersi di esserlo, se si vuole che non diventi un elemento perturbatore dell'ordine sociale: peggio, di un criminale, un «sovversivo». Per un altro verso, il criminale va trattato come una «vittima» dell'«imperfezione» ovvero dell'«ingiustizia» del sistema. Egli è quindi un «irresponsabile» e lo si deve «correggere» di conseguenza, senza la durezza che sarebbe richiesta ove invece lo si considerasse comunque un essere umano, pertanto libero e responsabile indipendentemente da qualsiasi condizionamento esterno. Se il criminale è recidivo, l'inasprimento della «pena» non deve avere un carattere «punitivo», ma piuttosto quello di una più intensiva «terapia». Questo, ovviamente, negli intenti, secondo una «filosofia» che si collega a illustri esponenti dell'illuminismo settecentesco, da Voltaire, a Verri, a Beccaria. La realtà carceraria, non solo italiana, è ben diversa da quella che dovrebbe essere la realtà di un luogo di «rieducazione» e riabilitazione. È curioso che nelle carceri, benché il lavoro sia previsto, non sia di fatto praticabile come efficace mezzo di redenzione morale, e che pertanto anche la condizione del detenuto tenda di fatto a coincidere con quella di un disoccupato, sebbene appartenente a una ben definita tipologia.
Poiché nella scienza dell'educazione corrente si concepisce il giova ne come un «irresponsabile» (donde l'accusa di esercitare su di lui una «tolleranza repressiva», mossa a suo tempo dal Marcuse a certe «modernissime» concezioni pedagogiche sessantottesche), nel cosiddetto «permissivismo» è da vedersi non soltanto il concreto disinteresse dell'attuale società per la formazione del futuro uomo-cittadino, assai simile al disinteresse per la «rieducazione» del criminale, ma quasi una inconsapevole quanto perversa intenzione di mettere il giovane sullo stesso piano del criminale: non nel senso che, ovviamente, ogni giovane, come ogni adulto, è un potenziale criminale e bisogna fare in modo che non lo diventi, ma nel senso che egli, in quanto destinato a restare, come disoccupato, in perenne stato di minorità, è già un «criminale», un «emarginato», una «bocca da sfamare»; e deve rendersene conto, non deve nutrire eccessive pretese.
Si è notato che la riforma della Scuola italiana, peraltro incompiuta dopo più di venti anni (e ciò non può ragionevolmente ascriversi solo a insipienza e a colpevole incuria), abbia determinato uno scadimento innegabile della preparazione dei giovani. Lo si è notato da parte di analisti del più vario orientamento; e, quel che è più rimarchevole, da parte di coloro che furono i più caldi sostenitori della modernizzazione della Scuola durante la Contestazione sessantottesca.
Fra questo scadimento del livello culturale dei diplomati e laureati, e la necessità per cui il capitalismo dell'era post-industriale deve «creare disoccupazione» e nel contempo impedire che i disoccupati turbino il regolare funzionamento del sistema, è possibile vedere un rapporto di causa ed effetto.
La scarsa preparazione culturale è garanzia, infatti, che il disoccupato sia facilmente condizionabile e controllabile. Nel peggiore dei casi egli diventerà un criminale (e oggi la criminalità organizzata è funzionale agli interessi della finanza internazionale), ma non potrà giammai diventare un sovversivo, un «criminale politico».
La decadenza degli studi «umanistici» (ovvero la loro stretta finalizzazione a professioni gradite al sistema e ben retribuite come quella del giornalista, del pubblicitario, dell'uomo di spettacolo), nonché la professionalizzazione e settorializzazione degli studi tecnico-scientifici (ai quali si può accedere con qualsiasi diploma e non con diplomi ben determinati, con preferenza di quelli liceali), sono da ricondursi alla tendenza generale di spoliticizzare la cultura, quasi di «svirilizzarla», di conservare in stato di minorità permanente non solo il disoccupato, ma anche chi riesce a trovare un impiego essendo in possesso di un titolo di studio medio-alto.
Quand'anche tale tesi risultasse «eccessiva» parzialmente infondata, comunque servirebbe a evidenziare l'importanza che la riforma della Scuola ha nel contesto della trasformazione in atto nella società, importanza che appunto è rilevabile dall'attenzione che il trattato di Maastricht riserva alla riforma della Scuola europea, nonché dai danni che la Scuola ha già subito e che si aggravano dopo le precipitose decisioni degli ultimi tempi, decisioni che sono state ispirate da una medesima logica e vanno nella stessa direzione, sia che le abbia prese il governo Berlusconi o quello Dini appoggiato dal centrosinistra.
Sembra dunque che la difesa della Scuola (come ente propulsore di una cultura tanto profondamente inserita nella tradizione italiana ed europea quanto fattivamente impegnata nella costruzione del futuro) dipenda esclusivamente dall'opera degli insegnanti. Essi non possono contare sull'aiuto dei politici, perché essi, oggi più che mai, sono condizionati dagli intoccabili interessi dell'economia: dell'economia neo-liberista, di un'economia che per produrre ricchezza non crea occupazione ma disoccupazione.
L'abolizione progressiva di tutti gli strumenti legali che consentivano a Presidi e Docenti di garantire la disciplina necessaria alla serietà degli studi; l'affastellarsi di attività le più svariate che susciterebbero l'«interesse» del giovane rendendogli «piacevole» la permanenza a scuola ; infine l'introduzione di personale medico e paramedico costituito da psicologi e assistenti sociali dipendenti dalla locale USL: tutto ciò dà una impressione estremamente penosa a chi conservi ancora un minimo di buon senso. Dire che la Scuola somiglia a un luogo di accoglienza per minorati psichici non è, purtroppo, un paradosso. Infatti, questi psicologi e medici e assistenti sociali quale funzione dovrebbero avere se non quella di «sostenere» chi è debole psichicamente, di offrire ulteriore «aiuto» a giovani a cui non basta più il rapporto educativo col docente e che non sarebbero precisamente la minoranza dei veri e propri «sub-normali»? Perché, se i nostri giovani sono fortunatamente meno «malati» di quanto lascino intendere e si vuole fare intendere, non si riesce a interessarli allo studio? Forse che lo studio non può essere di per sé interessante, indipendentemente dalla sua «utilità economica»? Perché si insiste ad istillare nella mente del giovane, fin da bambino, la mentalità mercantile, l'insicurezza e l'astuta schizofrenia propria di questa mentalità? Perché bisogna turbare e corrompere il naturale equilibrio e la naturale felicità della giovinezza trasformandoli in puro e semplice edonismo? Perché è diventato così importante vivere nel contingente e ricercare il piacere effimero piuttosto che una felicità moderata e continua, fatta di poco ma tanto più intensa quando viene dopo la fatica del lavoro, nella coscienza di aver lavorato per qualcosa che ci faccia evadere dalla prigione dell'io? Questa scuola somiglia sempre più a una prigione metafisica. Le sue sbarre sono quelle di un permissivismo assoluto il cui contraltare continua ad essere la pastoia burocratica, tanto più insopportabile perché inutile alla necessaria disciplina del lavoro e anzi controproducente. Si respira nella scuola un'aria da eterno asilo infantile, una «giocondità» del tutto inconsapevole che una vita fatta solo di piaceri, quand'anche fosse realizzabile, sarebbe alla fine insensata e terribilmente noiosa.
I docenti dovrebbero quindi prendere apertamente posizione contro la «riforma» che si vuole imporre. Il sindacalismo nella Scuola ha oggi una opportunità unica: conquistare quell'identità culturale e politica che non ha mai avuto, e che continuerà a non avere fino a quando persisterà sulla linea delle mere rivendicazioni economiche. Occorre che il sindacalismo «autonomo» della Scuola assuma quel ruolo di antagonismo politico nei confronti dei «poteri forti» che un tempo era prerogativa dei «chierici»: degli intellettuali nel senso etico-religioso che il termine ebbe nel medioevo; i quali hanno oggi «tradito» passando dalla parte del nemico tradizionale, come a suo tempo ebbe a denunziare senza mezzi termini Julien Benda. Quei «chierici», che non erano «uomini di scuola», o non lo erano del tutto, sono oggi diventati ricchi e schiavi della ricchezza prima che dei loro padroni, che li disprezzano profondamente e non sempre tacitamente, come si conviene a schiavi del «nuovo Medioevo».
Noi insegnanti siamo rimasti «poveri» e dobbiamo far valere la dignità della povertà, che non può essere, ovviamente, la «nostra» povertà, la quale in effetti esiste solo relativamente, in ragione del confronto che siamo soliti fare con l'agiatezza altrui e che sarebbe bene non fare. Quel che è più grave, è che siamo stati discreditati e perfino accusati di ignoranza. Posto che sia vero, diplomi e lauree «facili» ci sono stati conferiti e avrebbero potuto non esserlo, se coloro che ce li hanno «concessi» non avessero voluto. Si dice che li «abbiamo conquistati» nel Sessantotto con la «violenza rivoluzionaria». Ma a questa «violenza» si è saputo resistere, quando conveniva. Se si è «lasciato fare» nell'ambito della Scuola, è perché ciò rientrava in preciso disegno, che i «contestatori» di allora ignoravano, e che ora non ignorano, non possono più ignorare. Questa è la verità sul Sessantotto e sugli «anni di piombo» che seguirono. Tutto il resto, compresa la «mitologia» e la lacrimevole «nostalgia» alla Mario Capanna, è menzogna: vile e interessata menzogna. Anche i sindacati confederali hanno contribuito a gettare il discredito su noi insegnanti, pur presentandoci come «avanguardia intellettuale del proletariato». Intanto la loro ideologia, marxista e non, insegnava al «proletariato», e confermava presso la borghesia affaristica del Paese, che noi eravamo un «ceto improduttivo» e quindi «parassitario». È stata anche colpa nostra, della nostra mentalità piccolo-borghese, meschina finanche nelle pretese egoistiche, se una simile opinione sul corpo docente ha potuto così profondamente radicarsi, tanto che è quasi impossibile auspicare un'inversione di tendenza
La Scuola non ha affatto bisogno di una «riforma» ha bisogno di una rinascita. Rinascerà soltanto per opera dei docenti, o morirà. Non una Scuola si prospetta per il futuro, e neanche una istituzione a cui venga assegnato il compito di istruire ma non di educare. Essa sarà soltanto un insieme di luoghi in cui si impartisce un particolare addestramento professionale, quasi si avesse a che fare con animali da ammaestrare per i ludi circensi e non invece con uomini e futuri cittadini.
Il domani dell'Italia dipende anche dalla Scuola, e non credo di esagerare dicendo che dipende soprattutto dalla Scuola. L'Italia tornerà ad essere «espressione geografica», se la coscienza di essere nazione verrà meno. Questa coscienza la può formare soltanto la Scuola, una scuola in cui si torni ad insegnare la Storia. È il caso di rammentare che da almeno vent'anni la Storia si studia sempre meno, persino nei Licei e negli Istituti magistrali, e soprattutto è la storia del nostro Risorgimento quella che si studia di meno. Un Ministro dell'istruzione, non molto tempo fa, ha proposto di abolire lo studio della storia antica perché sarebbe «inattuale». Forse per quel Ministro la storia del Risorgimento italiano ed europeo rientrava essa stessa nella «storia antica». Ugo Foscolo, agli inizi dell'Ottocento, esortava gli italiani alle storie.
Egli non era un nazionalista in senso deteriore. Uomini della sua generazione, come George Byron, Santorre di Santarosa, Michele Morelli, erano disposti a morire anche per la patria greca, e non pochi stranieri, nel '48 e fino al '60, vennero a combattere per la patria italiana. Una cosa è questo «nazionalismo sovranazionale», ben altra un certo «internazionalismo proletario» che ha distrutto le nazioni, o comunque subordinato i loro interessi a quelli dell'Unione Sovietica che in effetti coincideva con la nazione russa. Caduto il comunismo, non ha più senso parlare di «internazionalismo proletario». Un altro internazionalismo ben altrimenti pericoloso è rimasto oggi incontrastato padrone del campo: il mondialismo, il dominio veramente planetario della finanza, della banca, dell'usura legalizzata. Esso non può dirsi che si identifichi con gli interessi degli Stati Uniti, che ne sono il «braccio secolare» e che pagano tuttavia alla dittatura finanziaria uno scotto non inferiore a quello degli altri Paesi. Se ne era reso conto il Presidente Jefferson agli inizi dell'Ottocento, volle dimenticarsene il Presidente F. D. Roosevelt, non se ne dimenticò il poeta americano Ezra Pound.
Ma non solo lo studio della Storia serve a formare una sana coscienza nazionale. Serve in egual misura un corretto studio della lingua italiana. Come già osservarono i nostri maggiori autori dell'Ottocento in aperta polemica con l'«ideologia tedesca», è dal parlare una lingua comune e il più possibile uniforme che può formarsi in un popolo un senso della nazione che sia immune da connotazioni biologistiche e razzistiche (il che vuol dire anche particolaristiche, municipalistiche, regionalistiche).
No, dunque, alla colonizzazione linguistica dell'Inglese. Sì, allo studio serio della lingua italiana, fatto su basi logico-grammaticali, a partire dalla conoscenza del Latino, il cui studio dovrebbe essere reintrodotto nelle prime tre classi della scuola media dell'obbligo. Si faciliterebbe così uno studio appropriato delle lingue straniere, che oggi invece si studiano col metodo «pratico», cioè meccanicamente e «papagallescamente». Si fornirebbe altresì agli Europei (che devono quasi tutto alla cultura latina, compresi i Tedeschi), un più solido cemento di identità nazionale europea, e anche uno strumento di comunicazione linguistica, senza ricorrere a una lingua come l'Esperanto, che essendo artificiale vale assai meno di una lingua morta, È da notare infine che lo studio del Latino, assieme a quello delle matematiche, aiuterebbe a formare le facoltà logiche e il senso critico, e quindi costituirebbe il migliore antidoto contro le storture e le obiettive menomazioni cui la mente e la psiche del giovane uomo sono sottoposte dalle tendenze in atto nell'era post-industriale.
Questa è una proposta di didattica generale che è sensata e attuabile. Venendo a questioni che riguardano il «punto critico» che segna il legame della pedagogia con la politica, è da dire che, attesa la ineluttabilità della «privatizzazione» della scuola pubblica, si può e si deve evitare che essa si realizzi secondo gli intendimenti più o meno dichiarati dal trattato di Maastricht. Niente vieta che esso possa essere ridiscusso, corretto e migliorato anche per quanto attiene la materia del sistema educativo. L'Italia potrebbe promuovere al riguardo delle iniziative che certo gioverebbero non poco alla sua immagine fra le nazioni europee.
Il concetto di «privatizzazione» -si è detto- è un concetto con cui si vorrebbe metter insieme i vantaggi della scuola pubblica come «servizio sociale», e quelli della scuola privata, in funzione di una maggiore «efficienza». Ma la scuola privata, come scuola delle future «classi dirigenti», sarebbe la sola a guadagnarci. Per un verso non solo avrebbe maggiore autonomia «imprenditoriale» essendo svincolata dal controllo dello Stato, avrebbe altresì facoltà di conferire titoli aventi valore legale e assai più prestigiosi di quelli rilasciati dall'istituzione pubblica. Per un altro verso continuerebbe ad essere sovvenzionata a spese dell'erario. La scuola pubblica diventerebbe «scuola per poveri», anzi «luogo di accoglienza» e di controllo sostanzialmente repressivo dei giovani disoccupati; in cui la figura del docente, svuotata della sua funzione educatrice per la presenza dei suoi «coadiutori» medici e paramedici, sarebbe quella di «intrattenimento» e di «animazione culturale», qualcosa fra il «clown» e il «giullare». I docenti «più preparati» fuggirebbero nella scuola privata, quelli che rimarrebbero nella pubblica verrebbero «incentivati» a seconda della «qualità del servizio», che è quello di «far divertire» i giovani, di «tenerli buoni» a ogni costo, soprattutto di promuoverli (per esempio, l'abolizione degli esami di riparazione potrebbe essere interpretata come un espediente per semplificare la promozione e per favorire in pari tempo l'industria delle vacanze).
La «privatizzazione» -si dice- favorirebbe nella scuola pubblica il rapporto scuola-società, oltreché lo «spirito di iniziativa». L'autonomia di organizzazione, anche dei piani di studio, risponderebbe puntualmente alle richieste dell'economia locale e del «mercato». Ciò è vero. Però è anche vero che, ove tenda ad azzerarsi la supervisione e il controllo ministeriali sulle modalità con cui l'autonomia viene gestita, potrebbero essere sempre più frequenti i casi di malcostume in generale e quelli di concussione in particolare. E sarebbe un argomento irrilevante e anzi pedagogicamente assai deleterio, quello che, per simili eventualità, vi sarebbe comunque la Magistratura a vigilare.
Inoltre, se è chiarissimo cosa si intenda per «privatizzazione», non solo nel settore scuola, sono del tutto poco chiari i limiti entro i quali va intesa l «autonomia». Poiché «privatizzazione» e «autonomia» sono strettamente correlate, se i limiti dell'autonomia restano vaghi, la privatizzazione finisce col distruggere la funzione sociale dell'iniziativa privata.
Si deve quindi pretendere che la scuola privata rinunci a qualsiasi forma di sussidio economico da parte dello stato, consentendole come contropartita la massima autonomia gestionale e concorrenziale, coi soli limiti previsti dal Codice civile e da quello penale. I titoli da essa rilasciati, salvo il dottorato in teologia e i titoli equipollenti, non dovrebbero avere valore se non confermati da un esame di stato. Ciò è imprescindibile proprio per garantire la corretta applicazione della «libera concorrenza». Venendo alla scuola pubblica, i limiti della sua autonomia dovrebbero essere stabiliti in generale dal Parlamento, in particolare dal programma di sviluppo dell'economia nazionale, elaborato dai Ministeri economici in intesa con quelli della ricerca scientifica e dell'istruzione. Questa è la sola garanzia che le attività dell'«educazione» e dell'«istruzione» non si polverizzino secondo una visione «riduzionistica», troppo municipale del rapporto scuola-società.
Affinché questo fondamentale rapporto sia inteso correttamente, sarebbe auspicabile che le varie scuole operanti sul territorio fossero concepite come unità educative di lavoro, in cui si apprende qualsiasi tipo di lavoro e si è in grado di produrre e di immettere sul «mercato», autonomamente e in regime di «libera concorrenza», il prodotto del lavoro (prodotti agro-alimentari e consulenze tecniche per le scuole agrarie; lavori di ricerca di vario argomento, traduzioni, consulenze per i Licei e Istituti magistrali; indagini di mercato, calcoli, lavori di progettazione e di esecuzione di oggetti non in commercio o difficilmente reperibili per gli Istituti tecnici e per le scuole d'arte). Si tratterebbe di applicare nella scuola odierna il principio di funzionamento delle botteghe artigiane del Medioevo e del Rinascimento, da cui uscirono i maggiori artisti-scienziati di quell'epoca.
Il modello dell'unità educativa di lavoro si applicherebbe a partire dal quinquennio della scuola media superiore e sarebbe propedeutico agli studi universitari, che dovrebbero conservare la funzione di studi di alta cultura (con esclusione, dunque, dei cosiddetti «diplomi universitari») In previsione dell'innalzamento dell'età dell'obbligo scolastico, tutti avrebbero la possibilità di frequentare per due anni la scuola di «nuovo modello». La scuola elementare e la media inferiore, dovrebbero invece tornare ad essere quelle che erano un tempo: dovrebbero fornire seriamente, senza, cedimento alcuno alle suggestioni «moderne», i rudimenti del sapere, anche con gli «antiquati» ma sperimentati metodi «nozionistici e mnemonici» di una volta, ove non si riesca a trovarne altri altrettanto e più efficaci. La scuola di «nuovo modello» è così una scuola del fare, però supportata da robuste conoscenze teoriche acquisite nelle Elementari e nelle Medie inferiori. Non sarà viziata all'origine, come la scuola «riformata e sperimentale», della casualità di un uso generalizzato di Metodologie «ludiche», «attivistiche», «pragmatistiche». Il suo biennio non avrà funzione «di collegamento» ma approderà a un vero e proprio diploma professionale, distinto da quello di Licenza Media inferiore che attesterebbe l'acquisizione della «cultura generale». Essendo legata al contesto economico locale, regionale e nazionale, ed essendo anche un impresa che produce beni materiali di consumo per il mercato, la scuola di «nuovo modello» concepisce il «fare» e l'«apprendere per fare» nel modo più giusto, con tutto l'impegno e la serietà del lavoro. Le richieste del «mercato», o piuttosto della «necessità naturale» che determina ogni sana economia, escludono appunto la casualità del «fare», ogni diseducativa dimensione «ludica» dall'orizzonte mentale e psicologico del discente. L'immissione nel mercato dei beni materiali prodotti, sarà una fonte di autofinanziamento per la scuola, non necessariamente consistente, ma comunque tale da dare un senso reale all'«autogestione», perché, a rigore, amministrare in proprio i fondi stanziati dallo Stato non è ancora vera autogestione, questa implicando in qualche modo l'indipendenza economica.
Multidisciplinarità, interdisciplinarità, transdisciplinarità, non sarebbero allora, come sono, vuote espressioni del gergo «specialistico», ma acquisirebbero quel senso reale che ebbero sempre nella storia dell'umanità, quando non si risolvevano i problemi limitandosi all'invenzione di nuove parole, ma piuttosto li si risolveva positivamente, e poi, in un secondo momento, in una «parola» o in una «formula» si racchiudeva il senso dell'esperienza, del problema e della sua soluzione.
Si dovrebbe smetterla con l'«inganno delle parole», con questa «semasiomania» di cui la semantica e la stessa informatica potrebbero anche considerarsi meri epifenomeni, e per cui si ritiene che la condizione di un cieco muti in qualcosa e a suo vantaggio, solo definendolo «non vedente».

Francesco Moricca

 

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