Prato, 7 maggio 96
Caro Costa,
vorrei puntualizzare -penso me lo consentirai- alcuni nodi che
ritengo legati a quanto "Aurora" sta da tempo proponendo
all'attenzione di chi segue il ruolo «controcorrente» anche rispetto
a certe «posizioni d'origine».
Sono nodi che forse, in fondo, fissano le differenze fondamentali
tra momenti diversi d'una stessa riflessione sul terreno della
politica e che fanno percorrere cammini tra loro paralleli o
divergenti.
Su questo tema altri si sono intrattenuti prima di noi, ma forse con
un gioco un po' troppo interessato sulle parole, intessendo i
ragionamenti con la logica della «leadership» ed inquinandoli con un
livello intellettuale ovviamente compromesso.
È con il termine «testimonianza», ad esempio, che si è spesso
cercato di ridurre lo spessore teoretico di quanti non hanno
accettato, nel tempo, la negoziazione elettorale del Fascismo e
della cosiddetta «destra radicale». Quasi come se la «testimonianza»
non fosse un fattore evocativo profondo di ciò che «sta a monte» ma
si restringesse alla sola epigrafia funeraria, al culto retorico e
folcloristico di remote gesta eroiche. Continuo a ritenere che
questo sia un atteggiamento che non aiuta il confronto -che rimane
sempre un'esperienza importante, per chi voglia capire- ma che
riflette invece le storture ripetitive e meschine del dibattito
culturale nel Paese, dove vige il senso di paura per le «diversità».
La cosa è dimostrata tra l'equivoco interessato che si è stabilito
dovesse aleggiare su due termini completamente distanti eppure
ipocritamente assimilati: minoranza e minorità. (sic!)
È un fatto comprensibile, se si vuole osservare solo per poco -in
profondità- quanto si muove tra le pieghe del potere omologante che
tende sempre più a «stabilizzare» la sfera istituzionale sociale. Fa
troppo comodo ritrarre chi dissente sotto le vesti rozze del
cavernicolo, quasi come se l'elaborazione delle linee appartenesse
ai solo «buonisti», a «quelli che contano», all'eterna mediocrità
che affolla il centro dello schieramento delle forze in campo.
Ho la sensazione che la distinzione tra i due termini sfugga però,
per motivi che avrai sicuramente la possibilità di analizzare nel
tuo «laboratorio» editoriale, anche a te.
Seguendoti nelle argomentazioni -credo non superficialmente- ho
avuto la possibilità di verificare una tua constatazione che fa da
sfondo alle tesi di "Aurora": la fine di quella che chiamavamo
«area», di quell'unità politica che senti di dover contestare. In sé
la cosa non è certo uno scandalo perché si può vivere lo stesso
senza una «originarietà» referenziale ed assoluta. Convince poco, a
mio avviso, una sorta di tendenza di pensare alla minoranza (in
quanto componente «fisiologica» della politica) come ad un gruppo
che deve per forza fare la Rivoluzione, riscattare il Mondo in una
nemesi storica per la quale tutti dovremmo schierarci.
Quando una minoranza -nel nostro caso quella degli antagonisti
nazional-popolari- non compie alcun passo verso questa mèta essa
diverrebbe «incapacitante» ed «imbalsamata». Non è una cosa per la
quale bisogna condannarti, né tra l'altro hai usato puntualmente gli
stessi termini, ma credo di aver interpretato senza troppe
imprecisioni il tuo orientamento.
E siccome, nelle tue analisi dell'economia capitalista, ti richiami
ad una specie di «big bang» in prospettiva, quanto più una minoranza
si allontanasse da questo trasguardo temporale tanto più sarebbe
perdente. Sul merito complessivo e documentale delle cose che
sostieni sull'attuale congiuntura economica e produttiva c'è poco da
eccepire. A corredo delle tue argomentazioni muovi dei rilievi
empirici e fattuali che chi ti legge non può non prendere in
considerazione.
Il problema sta nell'interpretazione dei fatti, nelle situazioni che
compongono il quadro generale degli eventi e che, personalmente,
vedo assai poco racchiudibili in una teoria finalistica. Mentre tu
vedi nel capitalismo -mi sembra- una direzione verso qualcosa
proiettato nel tempo (una «scadenza», in altre parole) è invece
possibile -a mio avviso più corretto- prendere atto di una
condizione ontologica della spirale produttivistica che si connette
alla dimensione del «congegno», del meccanismo perpetuo che, per
sopravvivere ed imporre la propria carica egemonizzante e totale,
riesce a mutare, ad adeguarsi ai contorni che emergono nelle varie
configurazioni sociali.
Il fatto di rilievo è che il capitalismo -grazie allo sviluppo della
tecnica- vive una profonda differenza rispetto al Fascismo: ed è la
«dizione» che immette nella storia, la mancanza di una direzione che
invece, nelle rivoluzioni nazionali di questo secolo, si è sempre
teorizzata tentando di imprimerla seppure con gli esiti che
conosciamo. La logica del capitalismo è la logica del «mezzo» che
diventa fine a sé stesso, che si inserisce nel circuito della storia
nella dimensione plurivocale e senza una visione teologica.
Questa è la sua grande forza, il suo statuto che scardina ogni
progetto che voglia piegare questa pulsione entro i confini
identitari di una comunità che se ne voglia affrancare.
Nell'ambito di questa sfera concettuale e pragmatica forse apparirà
più chiaro che l'«esserci», il linguaggio che chiama in causa forze
e sensibilità geneticamente socializzanti e gerarchizzate non ha
bisogno di «sfoghi». Pur non paventando alcunché nella
«trasversalità» di cui intelligentemente "Aurora" cerca di farsi
promotrice, la presenza della «minoranza» nella «struttura del
tempo» può benissimo avvalersi di una spinta antropologica che non
cerca il successo. Senza rimanere terrorizzato al pensiero di
viverne lo spessore in termini contingenti, questo ruolo funzionale
è esente da tatticismi o da «esperimenti» strategici con forze
decisamente ostili ad una ridiscussione della sfera del politico che
non sia quella tipizzata dalle parole d'ordine di una sinistra
culturale sovente attestata in un anti-berlusconismo gretto quanto
l'antifascismo professato da sempre.
Opporsi alla «globalizzazione» non significa comunque edificare un
partito di «heideggeriani» ma, è lecito pensarlo, può
ragionevolmente circoscriversi in un lavoro politico, sociale,
teorico a tutto campo. Il che vuol dire affermarsi nei termini di un
disegno radicale e «radicante» che sappia rendersi «visibile».
In ciò sta il progressivo distacco da un certo modo di esprimere la
voglia nostalgica di un «ritorno» e il rifiuto delle commistioni
conservatrici e patriottarde: che avevano ed ancora hanno le loro
ragioni, ma che stanno esaurendo ogni energia identificante.
Fare i conti con la modernità, con l'avversione secolarizzante delle
contraddizioni forti e pregnanti che essa sa esprimerci è il nuovo
dovere che diversi individuano nell'Oggi. Senza acquiescenza verso
la sindrome della sconfitta o quella, speculare, delle «scommesse
per il futuro».
Roberto Platania
Caro Roberto,
va detto, innanzitutto, che alla base delle Tue considerazioni vi è
un equivoco che, malgrado gli sforzi, noi di "Aurora" non siamo
riusciti a dissipare chiarendo a quanti, Tu fra questi, continuano a
pensare a Sinistra Nazionale come ad una componente, per certi versi
spregiudicata per altri solo velleitaria, di un «ambiente» o, se Ti
è più congeniale, di un'«area» con la quale riteniamo di avere, nel
corso degli ultimi cinque anni, progressivamente e nettamente
troncato qualsivoglia legame.
Va da sé, che partendo da un'ipotesi di comune appartenenza
«ideologica», nei fatti insussistente, Tu finisca con lo svolgere
non un severo esame delle posizioni di Sinistra Nazionale ma una
sorta di auto-analisi, di personale introspezione, propedeutica a
giustificare tutta la «paccottiglia» ideologica neo-fascista con la
quale il Fascismo, comunque aggettivato, ha ben poco da spartire,
fatti salvi i suoi più deleteri nonché marginali aspetti che, per
comodità, qui definiamo «staraciani».
Proprio la «testimonianza», intesa nel significato etimologico di
«martirio», non ha mai fatto parte del patrimonio comportamentale di
quanti non hanno accettato, nel tempo, «la negoziazione elettorale
del Fascismo», per il semplice motivo che essa, la «testimonianza»,
proprio come «fattore evocativo profondo» non può essere limitata
alla ripetitività ossessiva sia delle «epigrafie funerarie e dei
culti retorici o folcloristici» sia di coordinate ideologiche nelle
quali le incrostazioni del tempo appaiono più che evidenti. Di
immutabile, nella storia umana, vi sono pochi «Valori» e che questi
siano stati parte di una precisa vicenda non autorizza, questo è il
mio parere, ad identificarli con essa e solo con essa. Per dirla con
chiare parole il Fascismo, come ogni realizzazione umana non è
immune da errori ed orrori che è bene rilevare e denunciare proprio
per impedire che attraverso l'esaltazione di questi si determinino
le «storture ripetitive e meschine» che inquinano il dibattito
culturale nel Paese, offuscando quanto di valido e di non transeunte
questa circostanza storica ha prodotto.
Non credo che in Italia, più che altrove, sia presente «la paura
della diversità», né l'«equivoco interessato» tra «minoranza e
minorità» può essere suscitato unicamente dall'inquinante propaganda
della «mediocrità che affolla il centro» (che poi tanto mediocre non
deve essere vista la sua «egemonia», certo facilitata dalla
disponibilità di risorse ma anche ottenuta grazie all'impegno, nel
suo ambito, di intelligenze in grado di veicolare le sue tesi e di
renderle appetibili alle grandi masse) se a questa non si sommasse
il concorso di quelle forze della «diversità» che, in più occasioni
della «mediocrità di centro» si sono rivelate preziose alleate. Non
mi pare, quindi, possa rilevarsi, se non artatamente, una nostra
tendenza a «pensare alla minoranza come ad un gruppo che deve per
forza fare la Rivoluzione riscattare il mondo, etc. etc.»; anche
perché in queste pagine si è sempre sostenuta una tesi totalmente
contraria a quanto asserisci; ossia, l'impossibilità oggettiva non
tanto di fare «la Rivoluzione» ma anche solo di essere «visibili» in
mancanza di un progetto chiaro e definito o se vuoi di un respiro
culturale «altro», comunque antagonista è contrapposto non solo alla
mediocrità di «centro», ma anche a quelle di «destra» e «sinistra».
E ciò in base all'elementare rilievo che la «mediocrità» è sempre
tale e che la collocazione politica non promuove automaticamente il
«livello» dei singoli individui né eleva la parte politica di cui
essi si dicono partigiani.
Quindi nessuna attesa millenaristica ha mai dominato in queste
pagine, né abbiamo mai aspirato a «riscattare il Mondo» anche se, va
detto, ci sforziamo di portare il nostro esiguo contributo affinché
le storture e le ingiustizie siano, almeno in parte, lenite. Né
credo sia presuntuosa eresia l'affermare che questa nostra
esperienza, qualunque sia il risultato, non sarà inutile; servirà a
quanti, in futuro, meno «mediocri» dei collaboratori di questo
periodico e dei militanti di Sinistra Nazionale, vorranno esplorare
le pieghe della storia alla ricerca di possibili risposte alla crisi
che travaglia ed attanaglia il mondo moderno.
Per questo, io credo, che le «assoluzioni» e le «condanne» che Ti
arroghi il diritto di dispensare siano il frutto esacerbato
derivante da uno stato di «minorità», ossia si «inferiorità»
politica, suscitato da una situazione ideologica «imbalsamata»,
quindi incapacitante nella quale Ti dibatti per attribuirla, in una
sorta di lapsus freudiano, a quanti, come noi, da tempo hanno
chiaramente detto e altrettanto chiaramente operano in una direzione
ben definita che può essere in vari modi qualificata e stroncata,
escluso però quello di essere accusata di «culto della minoranza».
Limite proprio ad altri ambiti ed «ambienti», sicuramente più
prossimi alle Tue tesi e sui quali preferisco, anche perché
perfettamente inutile occuparsene, sorvolare.
Veniamo ora alle «analisi dell'economia capitalista» nelle quali, a
Tuo dire, mi richiamerei ad una specie di «big bang» di
«prospettiva». Questa Tua asserzione mi lascia parecchio interdetto;
voglio dire che comprendo, pur non condividendola, la «tirata»
ideologica della prima parte delle lettera, ma attribuire alla mia
persona o ad altri redattori di "Aurora" una propensione al
«catastrofismo evoliano» nell'analisi del sistema capitalista, è
roba da chiodi; gli articoli economici pubblicati su "Aurora" sono
stati sì di spietata critica e di più o meno precisa ed acuta
analisi del sistema capitalista, ma mai, ripeto mai, mi è passata
nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea di una implosione
repentina di un sistema economico che ha dimostrato, in due secoli
di storia, una sorprendente capacità di adattamento.
Non è che io possa pensare, e spero in questo di essere in buona
compagnia, che il capitalismo, come tutte le esperienze umane, non
abbia un inizio e una fine; ma in queste pagine non si è mai
sostenuta la morte prossima ventura dell'economia capitalistica:
certo si sono analizzate le sue ricorrenti crisi, si sono
evidenziate contraddizioni e limiti, si è rilevata l'inadeguatezza
di una organizzazione produttiva che marginalizza l'uomo, ma si è
anche indicata l'ineluttabilità della mondializzazione dell'economia
(che è cosa diversa dal «mondialismo» inteso come complotto di uno o
più «grandi vecchi») almeno in questa fase storica. Ciò non vuol
dire, lo sottolineo a scanso di ulteriori equivoci, che noi di
"Aurora", così come alcuni settori dello stesso capitalismo (che è
molto meno compatto di quanto tante frettolose analisi lascino
intendere), non avversiamo questa tendenza, ne prendiamo solo atto.
Che poi, dibattere di «capitalismo ecumenico» e «anarco
capitalismo», rilevare divergenze, differenze e conflitti al suo
interno, appalesare la fragilità dei meccanismi finanziari
tecnologizzati che regolano i mercati venga interpretato nel senso
di una precisa «scadenza» del sistema questo è una Tua opinione,
sicuramente non è la mia. Anche se ho dei dubbi, come dicevo poc'anzi,
sulla «tenuta perpetua» del «meccanismo» che proprio in quanto
«congegno», e nonostante le sue capacità di adattamento
«produttivistico», è anch'esso sottoposto al logorio del tempo. Ciò
anche in considerazione dell'estendersi della cultura di massa,
anche se «solo» tecnica, in quanto questa offre ad una base sempre
più larga di «produttori», che sono poi anche uomini pensanti, la
possibilità di addentrarsi in meccanismi che in passato erano
patrimonio del sapere di pochi.
E sono, altresì convinto dell'ineluttabilità di una crisi del
cosiddetto Occidente. Crisi già evidente, la fase ascendente della
quale può giungere all'apice tra un anno o un secolo, poco importa,
noi abbiamo tempo, come sosteneva su queste pagine F. Moricca, tutto
il tempo che vogliamo.
Altro punto della Tua lettera dal quale dissento radicalmente e
l'asserzione della mancanza di «direzione» del Fascismo. La
questione, a mio modo di vedere, è più complessa: non ritengo il
fascismo, quello almeno al quale il sottoscritto e l'ambiente umano
di "Aurora" si riferisce in positivo, una semplice «Rivoluzione
Nazionale», benché in esso, nel suo inverarsi storico, fossero ben
presenti motivi ispiratori legati al Risorgimento e al ruolo di
potenza mediterranea al quale aspirava l'intellighentia della
Penisola. Epperò, il Fascismo, va innanzitutto analizzato nel suo
aspetto di «rivoluzione sociale»; ossia come un tentativo «da
sinistra» di rispondere ad esigenze reali presenti nella società
civile. L'azione politica di Mussolini, infatti, e parlo degli anni
che vanno dal 1914 al 1921, imboccò una direzione precisa nella
quale il mito della «vittoria tradita» è marginale rispetto
all'ampiezza del progetto sociale, dichiaratamente socialista, del
quale il suo movimento si fece portavoce.
In questa parte della Tua lettera emerge evidente una pericolosa
sudditanza psicologica verso le strumentali ricostruzioni storiche
dei vincitori. Una resa senza condizioni agli inganni della storia
«altrui». Una «storia» scritta da chi, vittorioso sui campi di
battaglia, non si è accontentato di schiacciare il nemico, ma ha
impiegato altrettante energie per dare alle idee e alle azioni di
questi i foschi di una luciferina pazzia. In questo senso sostenere
l'assenza di una «direzione» di marcia della prospettiva
socialista-nazionale mussoliniana convalida quanto sostenuto da
Benedetto Croce, per il quale il fascismo era assimilabile
all'«irruzione dei barbari» nella storia patria; e non è diverso da
quanto pontificato, a suo tempo, dalla Terza Internazionale che
spacciava il fascismo come l'estrema reazione del capitalismo. Si
trattava, invece, e la «Storia» oggi lo riconosce (basti pensare
all'opera di un De Felice), di una motivata «minoranza» formatasi
nella temperie delle lotte sociali di inizio secolo che incarnava le
aspettative, che minoritarie non erano, di una cultura partecipativa
e socializzatrice, quindi anti-collettivista e anti-capitalista,
teorizzata dai grandi pensatori dell'Ottocento: da Proudhon ai
populisti russi, da Lassalle ai socialisti utopisti. Non si
trattava, a mio avviso, unicamente, anche se ciò è importante, di
affrancare una società piegando il «capitalismo» ad interessi
«identitari», ossia nazionali, ma di dare corpo alla «Terza via», la
stessa, anche se il paragone può dispiacere, che la sinistra in
crisi, da Berlinguer e D'Alema si affannava, e si affanna, di
identificare un giorno sbandando al centro e l'altro richiamandosi
orgogliosamente all'identità socialista.
Non credo alle forze geneticamente socializzanti e la gerarchia è
spesso una imposizione, una cappa oppressiva dei poteri costituiti,
né penso che le analisi possano essere maldestramente e
sbrigativamente confuse con gli «sfoghi» da chi, forse ritenendosi
parte integrante di non meglio identificate «élite spirituali», non
è in grado -per «ignoranza» degli argomenti trattati- di capire a
fondo le altrui scelte e quindi discetta per supposizioni la cui
gratuità, in questo caso, è persino smaccata.
Noi siamo uomini d'oggi, viviamo il nostro tempo, non abbiamo remore
ad ammettere che «scommettiamo per il futuro», il che è umano, anche
se alla «speranza» di miracolosi «ritorni» preferiamo il duro
pragmatismo dell'azione (anche quando questa è condotta con
un'esiguità di mezzi disarmante) e il confronto con il «presunto»
nemico di ieri con il quale si scoprono inaspettate convergenze. In
tutto questo non vi è nulle di «tattico» o di «sperimentale» (ad
ulteriore dimostrazione che quando si da aria alla bocca bisogna
proteggerla dalle mosche), la scelta è senza ritorno, strategica,
definitiva. Noi siamo abituati a guardare diritto davanti a noi, a
non piegare la schiena. E se riteniamo la nostalgia un sentimento
rispettabile quando è parte del sentire individuale non diamo ad
essa spazio e valenza politica. La nostalgia è cosa diversa
dell'esperienza storica: la prima attiene alla sfera individuale
mentre la seconda a quella collettiva. Ma questo è un altro discorso
che ci porterebbe lontano.
Luigi Costa
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