da "AURORA" n° 35 (Giugno 1996)

LETTERE

Prato, 7 maggio 96

Caro Costa,
vorrei puntualizzare -penso me lo consentirai- alcuni nodi che ritengo legati a quanto "Aurora" sta da tempo proponendo all'attenzione di chi segue il ruolo «controcorrente» anche rispetto a certe «posizioni d'origine».
Sono nodi che forse, in fondo, fissano le differenze fondamentali tra momenti diversi d'una stessa riflessione sul terreno della politica e che fanno percorrere cammini tra loro paralleli o divergenti.
Su questo tema altri si sono intrattenuti prima di noi, ma forse con un gioco un po' troppo interessato sulle parole, intessendo i ragionamenti con la logica della «leadership» ed inquinandoli con un livello intellettuale ovviamente compromesso.
È con il termine «testimonianza», ad esempio, che si è spesso cercato di ridurre lo spessore teoretico di quanti non hanno accettato, nel tempo, la negoziazione elettorale del Fascismo e della cosiddetta «destra radicale». Quasi come se la «testimonianza» non fosse un fattore evocativo profondo di ciò che «sta a monte» ma si restringesse alla sola epigrafia funeraria, al culto retorico e folcloristico di remote gesta eroiche. Continuo a ritenere che questo sia un atteggiamento che non aiuta il confronto -che rimane sempre un'esperienza importante, per chi voglia capire- ma che riflette invece le storture ripetitive e meschine del dibattito culturale nel Paese, dove vige il senso di paura per le «diversità».
La cosa è dimostrata tra l'equivoco interessato che si è stabilito dovesse aleggiare su due termini completamente distanti eppure ipocritamente assimilati: minoranza e minorità. (sic!)
È un fatto comprensibile, se si vuole osservare solo per poco -in profondità- quanto si muove tra le pieghe del potere omologante che tende sempre più a «stabilizzare» la sfera istituzionale sociale. Fa troppo comodo ritrarre chi dissente sotto le vesti rozze del cavernicolo, quasi come se l'elaborazione delle linee appartenesse ai solo «buonisti», a «quelli che contano», all'eterna mediocrità che affolla il centro dello schieramento delle forze in campo.
Ho la sensazione che la distinzione tra i due termini sfugga però, per motivi che avrai sicuramente la possibilità di analizzare nel tuo «laboratorio» editoriale, anche a te.
Seguendoti nelle argomentazioni -credo non superficialmente- ho avuto la possibilità di verificare una tua constatazione che fa da sfondo alle tesi di "Aurora": la fine di quella che chiamavamo «area», di quell'unità politica che senti di dover contestare. In sé la cosa non è certo uno scandalo perché si può vivere lo stesso senza una «originarietà» referenziale ed assoluta. Convince poco, a mio avviso, una sorta di tendenza di pensare alla minoranza (in quanto componente «fisiologica» della politica) come ad un gruppo che deve per forza fare la Rivoluzione, riscattare il Mondo in una nemesi storica per la quale tutti dovremmo schierarci.
Quando una minoranza -nel nostro caso quella degli antagonisti nazional-popolari- non compie alcun passo verso questa mèta essa diverrebbe «incapacitante» ed «imbalsamata». Non è una cosa per la quale bisogna condannarti, né tra l'altro hai usato puntualmente gli stessi termini, ma credo di aver interpretato senza troppe imprecisioni il tuo orientamento.
E siccome, nelle tue analisi dell'economia capitalista, ti richiami ad una specie di «big bang» in prospettiva, quanto più una minoranza si allontanasse da questo trasguardo temporale tanto più sarebbe perdente. Sul merito complessivo e documentale delle cose che sostieni sull'attuale congiuntura economica e produttiva c'è poco da eccepire. A corredo delle tue argomentazioni muovi dei rilievi empirici e fattuali che chi ti legge non può non prendere in considerazione.
Il problema sta nell'interpretazione dei fatti, nelle situazioni che compongono il quadro generale degli eventi e che, personalmente, vedo assai poco racchiudibili in una teoria finalistica. Mentre tu vedi nel capitalismo -mi sembra- una direzione verso qualcosa proiettato nel tempo (una «scadenza», in altre parole) è invece possibile -a mio avviso più corretto- prendere atto di una condizione ontologica della spirale produttivistica che si connette alla dimensione del «congegno», del meccanismo perpetuo che, per sopravvivere ed imporre la propria carica egemonizzante e totale, riesce a mutare, ad adeguarsi ai contorni che emergono nelle varie configurazioni sociali.
Il fatto di rilievo è che il capitalismo -grazie allo sviluppo della tecnica- vive una profonda differenza rispetto al Fascismo: ed è la «dizione» che immette nella storia, la mancanza di una direzione che invece, nelle rivoluzioni nazionali di questo secolo, si è sempre teorizzata tentando di imprimerla seppure con gli esiti che conosciamo. La logica del capitalismo è la logica del «mezzo» che diventa fine a sé stesso, che si inserisce nel circuito della storia nella dimensione plurivocale e senza una visione teologica.
Questa è la sua grande forza, il suo statuto che scardina ogni progetto che voglia piegare questa pulsione entro i confini identitari di una comunità che se ne voglia affrancare.
Nell'ambito di questa sfera concettuale e pragmatica forse apparirà più chiaro che l'«esserci», il linguaggio che chiama in causa forze e sensibilità geneticamente socializzanti e gerarchizzate non ha bisogno di «sfoghi». Pur non paventando alcunché nella «trasversalità» di cui intelligentemente "Aurora" cerca di farsi promotrice, la presenza della «minoranza» nella «struttura del tempo» può benissimo avvalersi di una spinta antropologica che non cerca il successo. Senza rimanere terrorizzato al pensiero di viverne lo spessore in termini contingenti, questo ruolo funzionale è esente da tatticismi o da «esperimenti» strategici con forze decisamente ostili ad una ridiscussione della sfera del politico che non sia quella tipizzata dalle parole d'ordine di una sinistra culturale sovente attestata in un anti-berlusconismo gretto quanto l'antifascismo professato da sempre.
Opporsi alla «globalizzazione» non significa comunque edificare un partito di «heideggeriani» ma, è lecito pensarlo, può ragionevolmente circoscriversi in un lavoro politico, sociale, teorico a tutto campo. Il che vuol dire affermarsi nei termini di un disegno radicale e «radicante» che sappia rendersi «visibile».
In ciò sta il progressivo distacco da un certo modo di esprimere la voglia nostalgica di un «ritorno» e il rifiuto delle commistioni conservatrici e patriottarde: che avevano ed ancora hanno le loro ragioni, ma che stanno esaurendo ogni energia identificante.
Fare i conti con la modernità, con l'avversione secolarizzante delle contraddizioni forti e pregnanti che essa sa esprimerci è il nuovo dovere che diversi individuano nell'Oggi. Senza acquiescenza verso la sindrome della sconfitta o quella, speculare, delle «scommesse per il futuro».

Roberto Platania

 

RISPONDE IL DIRETTORE

 

Caro Roberto,
va detto, innanzitutto, che alla base delle Tue considerazioni vi è un equivoco che, malgrado gli sforzi, noi di "Aurora" non siamo riusciti a dissipare chiarendo a quanti, Tu fra questi, continuano a pensare a Sinistra Nazionale come ad una componente, per certi versi spregiudicata per altri solo velleitaria, di un «ambiente» o, se Ti è più congeniale, di un'«area» con la quale riteniamo di avere, nel corso degli ultimi cinque anni, progressivamente e nettamente troncato qualsivoglia legame.
Va da sé, che partendo da un'ipotesi di comune appartenenza «ideologica», nei fatti insussistente, Tu finisca con lo svolgere non un severo esame delle posizioni di Sinistra Nazionale ma una sorta di auto-analisi, di personale introspezione, propedeutica a giustificare tutta la «paccottiglia» ideologica neo-fascista con la quale il Fascismo, comunque aggettivato, ha ben poco da spartire, fatti salvi i suoi più deleteri nonché marginali aspetti che, per comodità, qui definiamo «staraciani».
Proprio la «testimonianza», intesa nel significato etimologico di «martirio», non ha mai fatto parte del patrimonio comportamentale di quanti non hanno accettato, nel tempo, «la negoziazione elettorale del Fascismo», per il semplice motivo che essa, la «testimonianza», proprio come «fattore evocativo profondo» non può essere limitata alla ripetitività ossessiva sia delle «epigrafie funerarie e dei culti retorici o folcloristici» sia di coordinate ideologiche nelle quali le incrostazioni del tempo appaiono più che evidenti. Di immutabile, nella storia umana, vi sono pochi «Valori» e che questi siano stati parte di una precisa vicenda non autorizza, questo è il mio parere, ad identificarli con essa e solo con essa. Per dirla con chiare parole il Fascismo, come ogni realizzazione umana non è immune da errori ed orrori che è bene rilevare e denunciare proprio per impedire che attraverso l'esaltazione di questi si determinino le «storture ripetitive e meschine» che inquinano il dibattito culturale nel Paese, offuscando quanto di valido e di non transeunte questa circostanza storica ha prodotto.
Non credo che in Italia, più che altrove, sia presente «la paura della diversità», né l'«equivoco interessato» tra «minoranza e minorità» può essere suscitato unicamente dall'inquinante propaganda della «mediocrità che affolla il centro» (che poi tanto mediocre non deve essere vista la sua «egemonia», certo facilitata dalla disponibilità di risorse ma anche ottenuta grazie all'impegno, nel suo ambito, di intelligenze in grado di veicolare le sue tesi e di renderle appetibili alle grandi masse) se a questa non si sommasse il concorso di quelle forze della «diversità» che, in più occasioni della «mediocrità di centro» si sono rivelate preziose alleate. Non mi pare, quindi, possa rilevarsi, se non artatamente, una nostra tendenza a «pensare alla minoranza come ad un gruppo che deve per forza fare la Rivoluzione riscattare il mondo, etc. etc.»; anche perché in queste pagine si è sempre sostenuta una tesi totalmente contraria a quanto asserisci; ossia, l'impossibilità oggettiva non tanto di fare «la Rivoluzione» ma anche solo di essere «visibili» in mancanza di un progetto chiaro e definito o se vuoi di un respiro culturale «altro», comunque antagonista è contrapposto non solo alla mediocrità di «centro», ma anche a quelle di «destra» e «sinistra». E ciò in base all'elementare rilievo che la «mediocrità» è sempre tale e che la collocazione politica non promuove automaticamente il «livello» dei singoli individui né eleva la parte politica di cui essi si dicono partigiani.
Quindi nessuna attesa millenaristica ha mai dominato in queste pagine, né abbiamo mai aspirato a «riscattare il Mondo» anche se, va detto, ci sforziamo di portare il nostro esiguo contributo affinché le storture e le ingiustizie siano, almeno in parte, lenite. Né credo sia presuntuosa eresia l'affermare che questa nostra esperienza, qualunque sia il risultato, non sarà inutile; servirà a quanti, in futuro, meno «mediocri» dei collaboratori di questo periodico e dei militanti di Sinistra Nazionale, vorranno esplorare le pieghe della storia alla ricerca di possibili risposte alla crisi che travaglia ed attanaglia il mondo moderno.
Per questo, io credo, che le «assoluzioni» e le «condanne» che Ti arroghi il diritto di dispensare siano il frutto esacerbato derivante da uno stato di «minorità», ossia si «inferiorità» politica, suscitato da una situazione ideologica «imbalsamata», quindi incapacitante nella quale Ti dibatti per attribuirla, in una sorta di lapsus freudiano, a quanti, come noi, da tempo hanno chiaramente detto e altrettanto chiaramente operano in una direzione ben definita che può essere in vari modi qualificata e stroncata, escluso però quello di essere accusata di «culto della minoranza». Limite proprio ad altri ambiti ed «ambienti», sicuramente più prossimi alle Tue tesi e sui quali preferisco, anche perché perfettamente inutile occuparsene, sorvolare.
Veniamo ora alle «analisi dell'economia capitalista» nelle quali, a Tuo dire, mi richiamerei ad una specie di «big bang» di «prospettiva». Questa Tua asserzione mi lascia parecchio interdetto; voglio dire che comprendo, pur non condividendola, la «tirata» ideologica della prima parte delle lettera, ma attribuire alla mia persona o ad altri redattori di "Aurora" una propensione al «catastrofismo evoliano» nell'analisi del sistema capitalista, è roba da chiodi; gli articoli economici pubblicati su "Aurora" sono stati sì di spietata critica e di più o meno precisa ed acuta analisi del sistema capitalista, ma mai, ripeto mai, mi è passata nemmeno per l'anticamera del cervello l'idea di una implosione repentina di un sistema economico che ha dimostrato, in due secoli di storia, una sorprendente capacità di adattamento.
Non è che io possa pensare, e spero in questo di essere in buona compagnia, che il capitalismo, come tutte le esperienze umane, non abbia un inizio e una fine; ma in queste pagine non si è mai sostenuta la morte prossima ventura dell'economia capitalistica: certo si sono analizzate le sue ricorrenti crisi, si sono evidenziate contraddizioni e limiti, si è rilevata l'inadeguatezza di una organizzazione produttiva che marginalizza l'uomo, ma si è anche indicata l'ineluttabilità della mondializzazione dell'economia (che è cosa diversa dal «mondialismo» inteso come complotto di uno o più «grandi vecchi») almeno in questa fase storica. Ciò non vuol dire, lo sottolineo a scanso di ulteriori equivoci, che noi di "Aurora", così come alcuni settori dello stesso capitalismo (che è molto meno compatto di quanto tante frettolose analisi lascino intendere), non avversiamo questa tendenza, ne prendiamo solo atto. Che poi, dibattere di «capitalismo ecumenico» e «anarco capitalismo», rilevare divergenze, differenze e conflitti al suo interno, appalesare la fragilità dei meccanismi finanziari tecnologizzati che regolano i mercati venga interpretato nel senso di una precisa «scadenza» del sistema questo è una Tua opinione, sicuramente non è la mia. Anche se ho dei dubbi, come dicevo poc'anzi, sulla «tenuta perpetua» del «meccanismo» che proprio in quanto «congegno», e nonostante le sue capacità di adattamento «produttivistico», è anch'esso sottoposto al logorio del tempo. Ciò anche in considerazione dell'estendersi della cultura di massa, anche se «solo» tecnica, in quanto questa offre ad una base sempre più larga di «produttori», che sono poi anche uomini pensanti, la possibilità di addentrarsi in meccanismi che in passato erano patrimonio del sapere di pochi.
E sono, altresì convinto dell'ineluttabilità di una crisi del cosiddetto Occidente. Crisi già evidente, la fase ascendente della quale può giungere all'apice tra un anno o un secolo, poco importa, noi abbiamo tempo, come sosteneva su queste pagine F. Moricca, tutto il tempo che vogliamo.
Altro punto della Tua lettera dal quale dissento radicalmente e l'asserzione della mancanza di «direzione» del Fascismo. La questione, a mio modo di vedere, è più complessa: non ritengo il fascismo, quello almeno al quale il sottoscritto e l'ambiente umano di "Aurora" si riferisce in positivo, una semplice «Rivoluzione Nazionale», benché in esso, nel suo inverarsi storico, fossero ben presenti motivi ispiratori legati al Risorgimento e al ruolo di potenza mediterranea al quale aspirava l'intellighentia della Penisola. Epperò, il Fascismo, va innanzitutto analizzato nel suo aspetto di «rivoluzione sociale»; ossia come un tentativo «da sinistra» di rispondere ad esigenze reali presenti nella società civile. L'azione politica di Mussolini, infatti, e parlo degli anni che vanno dal 1914 al 1921, imboccò una direzione precisa nella quale il mito della «vittoria tradita» è marginale rispetto all'ampiezza del progetto sociale, dichiaratamente socialista, del quale il suo movimento si fece portavoce.
In questa parte della Tua lettera emerge evidente una pericolosa sudditanza psicologica verso le strumentali ricostruzioni storiche dei vincitori. Una resa senza condizioni agli inganni della storia «altrui». Una «storia» scritta da chi, vittorioso sui campi di battaglia, non si è accontentato di schiacciare il nemico, ma ha impiegato altrettante energie per dare alle idee e alle azioni di questi i foschi di una luciferina pazzia. In questo senso sostenere l'assenza di una «direzione» di marcia della prospettiva socialista-nazionale mussoliniana convalida quanto sostenuto da Benedetto Croce, per il quale il fascismo era assimilabile all'«irruzione dei barbari» nella storia patria; e non è diverso da quanto pontificato, a suo tempo, dalla Terza Internazionale che spacciava il fascismo come l'estrema reazione del capitalismo. Si trattava, invece, e la «Storia» oggi lo riconosce (basti pensare all'opera di un De Felice), di una motivata «minoranza» formatasi nella temperie delle lotte sociali di inizio secolo che incarnava le aspettative, che minoritarie non erano, di una cultura partecipativa e socializzatrice, quindi anti-collettivista e anti-capitalista, teorizzata dai grandi pensatori dell'Ottocento: da Proudhon ai populisti russi, da Lassalle ai socialisti utopisti. Non si trattava, a mio avviso, unicamente, anche se ciò è importante, di affrancare una società piegando il «capitalismo» ad interessi «identitari», ossia nazionali, ma di dare corpo alla «Terza via», la stessa, anche se il paragone può dispiacere, che la sinistra in crisi, da Berlinguer e D'Alema si affannava, e si affanna, di identificare un giorno sbandando al centro e l'altro richiamandosi orgogliosamente all'identità socialista.

Non credo alle forze geneticamente socializzanti e la gerarchia è spesso una imposizione, una cappa oppressiva dei poteri costituiti, né penso che le analisi possano essere maldestramente e sbrigativamente confuse con gli «sfoghi» da chi, forse ritenendosi parte integrante di non meglio identificate «élite spirituali», non è in grado -per «ignoranza» degli argomenti trattati- di capire a fondo le altrui scelte e quindi discetta per supposizioni la cui gratuità, in questo caso, è persino smaccata.
Noi siamo uomini d'oggi, viviamo il nostro tempo, non abbiamo remore ad ammettere che «scommettiamo per il futuro», il che è umano, anche se alla «speranza» di miracolosi «ritorni» preferiamo il duro pragmatismo dell'azione (anche quando questa è condotta con un'esiguità di mezzi disarmante) e il confronto con il «presunto» nemico di ieri con il quale si scoprono inaspettate convergenze. In tutto questo non vi è nulle di «tattico» o di «sperimentale» (ad ulteriore dimostrazione che quando si da aria alla bocca bisogna proteggerla dalle mosche), la scelta è senza ritorno, strategica, definitiva. Noi siamo abituati a guardare diritto davanti a noi, a non piegare la schiena. E se riteniamo la nostalgia un sentimento rispettabile quando è parte del sentire individuale non diamo ad essa spazio e valenza politica. La nostalgia è cosa diversa dell'esperienza storica: la prima attiene alla sfera individuale mentre la seconda a quella collettiva. Ma questo è un altro discorso che ci porterebbe lontano.

Luigi Costa

 

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