da "AURORA" n° 35 (Giugno 1996)

POLITICA E SOCIETÀ

Maggioritario, Sinistra e tensioni ideali

Giovanni Mariani

Un'ulteriore analisi del risultato elettorale del 21 aprile ci pare superflua; riteniamo più utile occuparci, in futuro, dell'opera del Governo Prodi concentrando su di essa sia l'attenzione di questo periodico che quella del Movimento. Nell'attesa è interessante fare una valutazione «a freddo» del sistema elettorale maggioritario che, come abbiamo scritto in altre occasioni, costringe di fatto le forze politiche ad annullare le divergenze-differenze ideali e programmatiche per concentrarsi in due soli grandi agglomerati in cui le particolarità e specificità sono costrette ad annullarsi. La Lega Nord è solo l'eccezione che conferma la regola: il partito di Bossi gioca una partita nella quale hanno peso determinate, e particolarissime, suggestioni le quali è escluso possano trovare imitatori. La Lega, infatti, è sopravvissuta al maggioritario, grazie ad un radicamento territoriale («pedemontano» più che «padano») molto forte e che può contare in diverse località su consensi quasi plebiscitari.
Il sistema maggioritario «imperfetto», qual'è quello in vigore nel nostro Paese, ha prodotto due fatti nuovi: in primo luogo sono venuti meno i «contenitori politici», al cui interno trovavano cittadinanza sia la tesi sia l'antitesi mai mediate dalla sintesi. Si è quindi verificata la rottura definitiva della «politica degli equivoci» che aveva caratterizzato il passato cinquantennio. Il secondo fatto nuovo è la fine della subordinazione dell'economia alla politica: di fatto il crollo del Muro di Berlino e la conseguente «fine delle ideologie» ci ha regalato una Sinistra inedita (largamente subordinata al dogma economico capitalista), privata delle sue tensioni ideali quanto di un progetto sociale antagonista.
Due «fatti nuovi» (che fior fiore di commentatori politici si ostinano a non tenere in alcun conto), diretta conseguenza del tracollo dei vecchi equilibri che il sistema maggioritario ha contribuito ad evidenziare.
Lo svuotamento delle organizzazioni politiche tradizionali ha altresì evidenziato le incompatibilità e le contraddizioni presenti, in passato, al loro interno nonché l’assenza di prospettive ideali senza le quali si finisce sempre preda dell'opportunismo più bieco e cinico, sempre spacciato per necessario pragmatismo.
L’esempio solare di ciò è stato il Partito Socialista di Bettino Craxi che dal congresso di Torino del '78 (nel quale si enunciava pomposamente la necessità di accelerare la «transizione verso il Socialismo») ha navigato letteralmente sugli equivoci in quantochè, pur sostenendo di ispirarsi alla tradizione socialista, operava, in ambito governativo, come un partito liberale di massa, nel quale la contiguità e la collusione col capitalismo risultavano del tutto evidenti sin dalla prima metà degli Anni Ottanta. Il Partito che fu di Turati, Mussolini, Andrea Costa e Bombacci si era ridotto a rappresentare, all'interno dei governi centristi, gli interessi neo-corporativi delle burocrazie dominanti. Non è un mistero che la grande maggioranza dell'elettorato socialista non fosse esattamente di «sinistra» in quanto la maggioranza di quanti votavano per il partito craxiano, alla loro scelta attribuivano una specifica funzione anticomunista. E non si ingannavano. Il PSI, nei fatti, osteggiò sempre qualsiasi tentativo di alleanza «a sinistra» accusando l’allora PCI, in evidente evoluzione «socialdemocratica», di essere naturalmente vocato all'egemonia. Di questo contesto è opportuno richiamare alla mente la furiosa polemica divampata nell'ottobre del 1986 sulle colonne de "l'Avanti" incentrata sulla riabilitazione della «rivolta ungherese» del '56 e sulla figura simbolica di Imre Nagy. Voluta e pilotata da Bettino Craxi in persona, essa era finalizzata allo scopo di imporre al PCI, allora guidato da Natta, un'autocritica sul suo passato, certo non salutare in un momento di grande debolezza della leadership interna che ancora risentiva pesantemente della scomparsa di un leader come Berlinguer.
È probabile che il «j'accuse» craxiano lanciato dalle colonne de "l'Avanti" avesse scopi meramente provocatori in quantochè l'unità della sinistra avrebbe potuto realizzarsi solo attraverso l'ammissione, e relativa sconfessione, «del brindisi di Togliatti relativo all'intervento dei carri armati sovietici». È evidente che l'unità della Sinistra non si sarebbe mai realizzata (ed è questo che in realtà Craxi voleva) stante la pregiudiziale storico-ideologica posta dalla segreteria socialista ed è altrettanto evidente che la stessa costituisse un alibi inattaccabile che permetteva a Craxi da un lato di rafforzare la sua posizione all'interno del «Pentapartito» e dall'altro di rimandare all'infinito qualsiasi prospettiva unitaria della Sinistra.
Tangentopoli prima ed il maggioritario poi hanno reso evidente quale fosse la consistenza, all'interno del PSI, dell'elettorato di sinistra, considerando che la stragrande maggioranza dei militanti ed elettori socialisti hanno finito con l'ingrossare l'esercito di Silvio Berlusconi che, del resto, per oltre un decennio era stato la sponda economica della strategia craxiana. Pochi tra i socialisti hanno optato per la Sinistra, con buona pace di Ugo Intini nel cui partito gravitano certamente, va riconosciuto, personaggi meno riprorevoli di quelli che circolavano solo qualche anno fa. Pur non dubitando dell'onestà di quanti nelle pagine di "Critica Sociale" e di "Giovane Italia", si domandano «(...) un presidente dell’IRI Prodi, un presidente di Mediobanca Maccanico, un direttore generale della Banca d’Italia Dini, che Sinistra è mai questa?», è necessario ricordare loro che un'altra Sinistra non esiste e comunque non si può rifondarla emarginandosi dalla realtà e rifugiandosi in un bordighismo fuori dalla cronaca e dalla storia.
Lo stesso discorso può essere fatto a proposito della socialdemocrazia nella quale la componente destrorsa, dichiaratamente antioperaia, atlantista e ferocemente anticomunista era ben più vistosa che nel PSI. La sinistra, minoritaria, del PSDI è andata a sinistra e la destra guidata dal «funambolo» Ferri si è buttata nelle braccia accoglienti di Forza Italia. Persino la Democrazia Cristiana non ha potuto evitare un simile destino; del resto è legittimo domandarsi cosa avessero da spartire Dossetti, La Pira e Mattei con i Pella, i Tambroni e gli Scelba.
Per quanto riguarda il MSI, di cui si è parlato sin troppo, c'è da dire che l'effetto maggioritario si è rivelato quanto meno salutare. Finalmente l'equivoco si è dissolto rivelando l'inconciliabilità delle tre anime del partito che, in tempi più o meno recenti hanno imboccato strade totalmente differenti. L'anima conservatrice e reazionaria ha chiarito a Fiuggi quale sia la sua prospettiva strategica alleandosi con la parte più retriva del capitalismo italiano; l'anima nostalgica, autoritaria e corporativa si è posizionata sui confini del nulla ed appare destinata ad una lenta quanto inesorabile consunzione; l'anima socialisteggiante, anticapitalista e partecipativa pur con alcuni distinguo si è schierata a sinistra, trovando in quest'ambito politico orecchie certo più sensibili alle sue tematiche socializzatrici.
Intini e Rauti hanno scelto, in fondo, la stessa strada. Ma la «terza via», come abbiamo avuto modo di verificare, non produce risultati convincenti. Comunque se sulla «equidistanza dai due poli» predicata da Intini ci si può scommettere su quella di Rauti non si può fare alcun affidamento, considerato che, nonostante le sue filippiche contro i «venticinqueluglisti», si è detto pronto ad un «patto di desistenza» («per salvare il Centrodestra» come ebbe ad affermare in un'intervista su «Corsera») con l'ex-«nemico» Fini. A nostro giudizio il destino dei residui del partito «omnicomprensivo» di almirantiana memoria è segnato; la grande maggioranza rifluirà a destra, qualcuno andrà a sinistra.
Allargando l'orizzonte aldilà degli schieramenti e delle competizioni elettorali ci si trova di fronte a problemi ben più rilevanti ai quali abbiamo inizialmente accennato, concernenti la crisi politica, ideale e prospettica della Sinistra italiana. A nostro giudizio, questa Sinistra, subordinata all'economia di mercato assillata ed assediata da industriali e banchieri, che si proclamano di essa padri spirituali, è zoppa. Sedotta com'è dal mito della vittoria a tutti i costi e per questo costretta ad «aggiungere cerchi di ferro alla botte del capitalismo» (secondo un'efficace battuta di Radek), abbandonando al contempo, la prospettiva socialista che, comunque la si voglia giudicare, non può prescindere da una diversa visione economico-sociale rispetto a quella liberal-capitalista.
Il sistema elettorale maggioritario avrebbe dovuto, a rigor di logica, accelerare la riunificazione delle anime della Sinistra (da quella cattolica a quella comunista, da quella socialista democratica a quella nazionale), dopo decenni di conflitti e demonizzazioni reciproche, per giungere ad una sintesi economica e spirituale; per concretamente rispondere alle esigenze di fine millennio. Ciò non si è verificato, se non superficialmente e parzialmente, tantoché l'ottimismo «storico» della Sinistra a suo tempo indirizzato verso la realizzazione di un modello socio-economico antagonista è palesemente deviato verso forme di generico progressismo capitalista. Si tratta di una ricaduta nel riformismo più becero, ben aldilà del «gradualismo» togliattiano che, almeno nelle intenzioni, procedeva nella direzione di un sistema alternativo al capitalismo. Un riformismo assurdo di per sé in quanto sigla di fatto la rinuncia della Sinistra ad ogni prospettiva strategica di superamento del modello liberista.
Seguendo l’esempio del Partito Laburista inglese che ha guidato questa svolta, depennando dal suo statuto le tesi più «pericolosamente» socialiste, la Sinistra italiana ha finito col fare proprie tesi non molto distanti dal thatcherismo e dal reaganismo. La «sterzata» laburista è ben evidente nella seguente dichiarazione di Chris Smith (responsabile della previdenza sociale del Partito): «(...) Lo Stato sociale così com'è concepito oggi non è più sostenibile. È necessario rivolgersi sempre più spesso alle assicurazioni private per le cure mediche e le pensioni (...). Se noi laburisti andremo al governo ridurremo immediatamente le spese sociali (...)». Quanti all'interno del Partito laburista hanno osato contestare questa linea rilevando che gli stessi concetti e le stesse espressioni furono a suo tempo utilizzate dalla signora Thatcher, sono stati bollati con l'epiteto di «stalinisti» ed emarginati quando non espulsi dal partito.
Il convergere verso ipotesi centriste di gran parte della Sinistra europea ha indotto parte consistente anche di quella italiana a relegare nell'album dei ricordi il Socialismo. Non è un caso che durante la recente campagna elettorale la più dura polemica tra Ulivo e Polo della Libertà sia stata imperniata sulle reciproche accuse di aver l'uno plagiato il programma dell'altro. La Sinistra dopo il crollo del Muro di Berlino è ideologicamente allo sbando: venute meno le «sacre icone» del «socialismo reale» ci si aggrappa disperatamente a tesi dichiaratamente liberiste, ripudiando persino «sinistri» liberali come Keynes e Galbraith, quasi si trattasse di pericolosi bolscevichi. Così i comunisti sono divenuti «perfetti» social-democratici, i socialisti «perfetti» liberali e nessuno di costoro osa mettere in discussione la supremazia del libero mercato tanto da apparire, a volte ben più dei «destri», come i veri vessilliferi di quel sistema che solo qualche anno fa si voleva abbattere a cannonate.
E se il modello capitalista è, dai suoi stessi esegeti, assimilato ad un «edificio pericolante» (crisi del sistema produttivo, disoccupazione, eccessiva finanziarizzazione), la Sinistra non si propone di abbatterlo o almeno ristrutturarlo, ma sembra aver deciso di puntellarlo qua e là per ritardarne il crollo.
Non è paradossale affermare che la Sinistra negli ultimi trent'anni ha tanto parlato di democratizzazione della società, guardandosi bene però di dare consistenza operativa a queste enunciazioni verbali. In Italia non è stata certo democratizzata la politica (non si può certo sostenere che sotto l'aspetto della «partecipazione popolare» il sistema maggioritario sia una conquista) né l'economia (visto e considerato che i meccanismi economici rimangono severamente interdetti ai lavoratori), ciò in parte è dovuto alla mentalità grettamente «riformista» dei partiti popolari che si sono sempre limitati a proporre correttivi e mai riforme veramente radicali del sistema economico. Questo detto, va ricordato che una differenza tra questa quasi sinistra e la vera destra esiste ancora e, a scanso di equivoci, ribadiamo che la nostra rimane una critica di sinistra alla Sinistra.
Il problema, comunque, non è solo di natura economica e politica, aldilà della vittoria del 21 aprile (a nostro giudizio troppo condizionata dalla componente centrista e destrorsa dell'Ulivo); aldilà della pericolosità intrinseca della componente «democristiana», vi sono ragioni di allarme più profonde. Non basta «fermare le destre», come sostenuto in campagna elettorale da Rifondazione Comunista, ma occorrono risposte globali e totali all'egemonia totalitaria del «libero» mercato. Su ciò non vi sono abbozzi di risposta nel momento in cui la globalizzazione e la finanziarizzazione dell'economia mettono in dubbio perfino l'utilità materiale dell'individuo quale singola componente attiva del corpo sociale e il crollo della concezione essenzialmente economica del marxismo ha trascinato con sé anche quella componente idealistica che sognava un Uomo Nuovo inserito in un contesto sociale purgato dalle ingiustizie. «Del doman non v'è certezza», appunto perché è venuta meno la speranza. L'individualismo di massa si è diffuso anche a sinistra, specie nelle frange giovani già efficacemente lobotomizzate dai miti del consumismo made in USA. La concezione individualistica ed edonistica, è bene che la Sinistra ne prenda celermente coscienza, non è da considerarsi peculiare al Polo delle Libertà, ma è un preoccupante fenomeno trasversale.
In tal senso è inevitabile che, in particolare, Rifondazione Comunista sia costretta a sostituire il vuoto prodotto dal crollo dei miti e dei valori precedenti con il più banale e vuoto antifascismo ed un'agiografia della Resistenza a volte persino comica. Nel cuore e nel cervello di Bertinotti l'ottimismo comunista è stato da tempo sostituito da un pessimismo cosmico in cui il vuoto progettuale si salda con la predicazione apocalittica di future rivoluzioni mondiali. Nessuno pretende che Cossutta e Bertinotti ritornino agli insegnamenti che V. Karpinsky ha codificato in "Struttura sociale e statale dell’URSS" (i cui risultati sono stati tutt'altro che invidiabili visto e considerato che la «democrazia sovietica non era né politica né economica», ma solo gerarchismo burocratico, che la propaganda definiva «centralismo democratico») ma almeno la smettano di dare dignità rivoluzionaria agli scarti del più becero radicalismo USA.
Per quanto riguarda il PDS, invece, osserviamo con interesse il dibattito in atto che ci appare come un serio tentativo di dare un nuovo assetto a quella componente della Sinistra. Così come prendiamo atto della volontà del vertice di Botteghe Oscure di superare la fase di pressapochismo economico, sperando che la riflessione non imbocchi il tunnel clintoniano o bairiano, ossia non si trasformi in resa «a discrezione» della politica all'economia. Ci illudiamo che il vertice e la base della Quercia vogliano recuperare, come affermato da D'Alema; i Valori del socialismo. Di tutto il socialismo. Da quello utopistico a quello marxista a quello nazionale. La veloce corsa verso il centro va interrotta. La subordinazione ai vecchi arnesi del centrismo clericale può rivelarsi, in tempi brevi, micidiale per tutta la Sinistra.

Giovanni Mariani

 

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