da "AURORA" n° 36 (Settembre 1996)

PAGINA

Caleidoscopio estivo

A. De Ambris

È un'estate strana, nella quale sia sul piano atmosferico che su quello politico si sono, con cadenza quotidiana, alternati improvvisi temporali e repentine schiarite. Un'estate in cui, con la abilità del provetto venditore, Umberto Bossi ha conquistato alla Lega Nord le prime pagine dei quotidiani e largo spazio sugli schermi televisivi, abilmente dosando minacce secessioniste e aperture all'odiato centralismo «romano».
Un'estate in cui il freddo vento della recessione economica, imputabile più che al contrarsi delle esportazioni alla stagnazione della domanda interna, si somma ai mali vecchi e nuovi della società nazionale: il debito pubblico, la forte disoccupazione, le lentezze burocratiche, l'evasione fiscale e il perdurare di sacche di corruzione per estirpare le quali anche l'azione, in questo ultimo lustro, apparentemente incisiva della magistratura non sembra bastevole.
Una situazione generale che contrasta con le bonarie assicurazioni di Romano Prodi e le apparenti certezze di una compagine governativa «blindata» dalle contraddizioni e dagli interessi irriducibili del variegato cartello politico che la sostiene.
L'autunno, ormai alle porte, si preannuncia, come non accadeva da un quarto di secolo sovraccarico di tensioni politiche e sociali: la legge finanziaria che imporrà agli italiani una ulteriore razione di sacrifici, in nome di un'Europa nella quale l'egemonia teutonica è sempre più evidente, le tensioni nell'apparato produttivo nel quale le scadenze contrattuali, come quella del settore metalmeccanico, già sono fonte di forti tensioni tra Confindustria e Sindacato, il malessere del Nord del Paese che, nonostante l'evidente ridimensionamento della Lega, rimane intatto e il dramma del Meridione, che da sempre si dibatte tra sottosviluppo, consumismo drogato, clientelismo mafioso e disoccupazione.

 

Bossi: solo una farsa all'italiana

Solo chi ha avuto l'opportunità di seguire da vicino, crediamo, la «tre giorni» leghista sul Po, può avere un quadro oggettivo del fallimento della strategia bossiana. Giornali e televisione, non sono stati in grado di dare l'esatta dimensione della delusione e dello scoramento delle sparute truppe leghiste, convenute sull'argine del «Grande Fiume» per il battesimo della non meglio specificata entità padana, costretti invece a prendere atto che la quasi totalità dei «popoli del Nord» ha cose più serie a cui pensare. Sulle rive del Po, nell'assolato fine settimana di metà settembre, si è consumato il breve ed insano sogno di poche migliaia di piccoli borghesi dai volti rubizzi e l'epa incipiente che hanno festeggiato in tutta solitudine la loro carnevalata in «camicia verde».
L'ipotesi indipendentista della Lega si è rivelata nel momento supremo -tale era il significato che lo stesso Bossi aveva conferito alla manifestazione sul Po- una congettura virtuale, costruita con grande abilità tattica dall'ex-rappresentante di Gemonio che sul concreto malessere degli italiani del Nord ha innestato un disegno separatista rispondente in buona misura ad interessi di circoli extra-nazionali, soprattutto pangermanisti e slavi, rispetto all'azione dei quali la risposta del governo nazionale è stata del tutto inadeguata ("Limes", n° 3/96, Bruno Lavera "L'internazionale regionalista maschera e volto" e Antonio Sema "Leghismo di confine e secessionismo nel Friuli-Venezia Giulia").
Umberto Bossi, fino all'errore capitale di puntare tutto sulla manifestazione del 13-14-15 settembre, non aveva giocato male le sue carte riuscendo, con accorto equilibrismo, ad inibire ogni seria reazione governativa alla provocazione indipendentista, sfruttando abilmente il successo elettorale del 21 aprile, e attribuendo a quei consensi una valenza secessionista che in realtà non avevano.
Col senno del poi, si può dire che il consenso alla Lega Nord fu in quell'occasione determinato dall'allarmismo sociale su cui Bossi aveva fatto leva e in primis dalla insicurezza dei piccoli e medi industriali del Nord-Est coscienti della fragilità del miracolo economico di quelle regioni, a rischio per le sue carenze strutturali, quali lo scarno supporto logistico e finanziario, a fronte del ritorno in forze delle esportazioni tedesche nell'area mitteleuropea che attualmente assorbe oltre il 40% delle esportazioni del Triveneto.
Infatti, fino alle elezioni, il «federalismo» leghista aveva incanalato le sue rivendicazioni sul versante economico-produttivo: le due economie, le due monete, le gabbie salariali, l'eccessivo prelievo fiscale, la necessità dell'autonomia impositiva degli Enti locali ecc, rimarcando quotidianamente lo iato esistente tra l'economia produttiva del Nord e quella assistita e di sussistenza del Sud, nonché l'inettitudine della classe dirigente meridionale, incapace perfino di utilizzare i considerevoli mezzi finanziari che la UE mette a disposizione delle loro regioni per affrancarle dall'arretratezza produttiva.
La strategia politica leghista ha subìto una accelerazione in senso indipendentista nella tarda primavera; la polemica con i cosiddetti federalisti, che ha portato alla espulsione di Irene Pivetti, era l'avvisaglia dell'abbandono della linea gradualista a cui Bossi si era fino a quel momento attenuto.
La spallata decisiva a cui Bossi chiaramente puntava, alzando i toni della polemica economica, con l'arruolamento di massa nelle «camicie verdi» e dando vita al «Comitato di liberazione della Padania», ha mostrato presto la sua inconsistenza. L'ipotesi scissionistica si fondava sul presunto sfruttamento del Nord produttivo, seppure minato dalle carenze strutturali a cui abbiamo sopra accennato, da parte di un Sud assistito.
Tale ipotesi, però, non regge alla più elementare delle analisi economiche.
Una divisione del Paese sarebbe catastrofica anche per l'apparato produttivo del Nord-Est, basato su prodotti tecnologicamente poveri, privo di industrie strategiche e non in grado di competere con economie come quelle tedesca e francese supportate da apparati finanziari e centri di ricerca all'avanguardia. I mercati sui quali i produttori del Nord-Est si sono ritagliati un loro spazio (ben altro discorso va fatto per il Nord-Ovest) sono quelli cosiddetti «di nicchia», vale a dire che essi si limitano a segmenti parziali, ben definiti e ristretti per conquistare i quali la debolezza della Lira è stata condizione determinante.
Separare il Nord dal Sud, dividendo in due tronconi l'economia italiana e dare corso a due differenti monete esporrebbe l'economia del Nord a gravi contraccolpi. La «Padania», infatti, sarebbe costretta ad una pesante rivalutazione della sua «divisa» (nell'ordine, a detta degli analisti finanziari del 50-60%) che andrebbe ad attestarsi su un valore tra le 400-500 Lire rispetto al Marco tedesco, mentre l'ipotetico Stato meridionale sarebbe costretto a svalutare la propria moneta, rispetto all'attuale valore della Lira di oltre il 50%, vale a dire tra le 2000-2200 Lire rispetto al Marco. Le conseguenze di un simile scenario sono facilmente immaginabili: il mercato del Sud si sarebbe automaticamente chiuso alle merci del Nord, prima che per ragioni di rivalsa politica, per motivi di carattere finanziario e l'economia settentrionale, in una situazione di estrema debolezza si sarebbe dovuta, misurare con il colosso tedesco. Diversi studi su queste ipotesi, divulgati a suo tempo da giornali e riviste economiche, hanno contribuito ad annacquare alquanto gli entusiasmi che settori non marginali della piccola, media e grande industria avevano esternato per la Lega. Ad esempio, la Fondazione Agnelli, che per lungo tempo aveva, a livello teorico supportato le istanze leghiste con una lunga serie di studi e pubblicazioni sulle «macroregioni» prendeva le distanze e lo stesso Gianni Agnelli ostentava platealmente la sua «mediterraneità».
Al diverso atteggiamento degli industriali va attribuita la «svolta etnica» della strategia leghista. Il «dio Po», il «Nord celtico» e il «Sud latino» sono degli ultimi mesi. Sono entrati di forza nella confusa predicazione del leader leghista e fanno parte del tentativo, storicamente inconsistente, di attribuire alla «Padania» peculiarità razziali e culturali il cui estremo paradosso è rappresentato dalla disinvoltura con la quale si pretende di bandire la lingua italiana in favore dei «dialetti padani» e di un maggiore utilizzo del tedesco e dell'inglese, soprassedendo alla più elementare e verificabile delle verità storiche: è stato l'idioma del toscano Dante e del padano Petrarca ad unire, ben prima dell'unità formale della Nazione, il Popolo italiano.
Evidentemente Umberto Bossi e la direzione politica della Lega Nord (nella quale il ruolo dei tanti militanti ex-missini, rispetto alla svolta etnica, è ancora tutto da valutare), si sono resi conto dell'inconsistenza di una strategia volta a spaccare il Paese, tutta imperniata su rivendicazioni economiche, in parte giustificate, ma non in grado da sole di dare la svolta psicologica necessaria a portare la massa di piccoli borghesi -che si era riversata nella Lega dopo la frantumazione della Democrazia Cristiana individuando in essa il soggetto in grado di rappresentarli politicamente- su posizioni estreme, convincendoli dell'esistenza, anche sul piano storico (e metastorico), di una «nazione padana».
La «svolta» -a cui non sono estranei, almeno come apporto culturale, ambienti della «nuova destra» francese (ad esempio, Alain de Benoist) teorizzatori dell'«etno-pluralismo», dei liberal-nazionalisti austriaci (Jorg Haider) e della destra radicale tedesca, soprattutto l'«Intereg» (Istituto internazionale per il diritto dei gruppi etnici e per il regionalismo) bavarese, legato a doppio filo con i Republikaner e nel quale ha militato a lungo Nobert Burger, già condannato all'ergastolo in Italia per gli attentati terroristici in Alto Adige- era volta a sviluppare, seppure artatamente, tra le masse leghiste il senso di appartenenza irrazionale, proprio delle ideologie dell'Ottocento e del primo Novecento, nel quale l'istanza economica e l'interesse particolare si sarebbero fusi con pretese «identitarie» incardinate sul «mito» e, in quanto tali, sottratte ad ogni esame e confutazione critica.
«Ma sul nulla, nulla si costruisce», e alla Lega è mancata la materia prima.
La storia dimostra l'impossibilità di dare vita ex-novo a «miti» tanto complessi come quelli con i quali Bossi ha tentato di dare un'«anima» alla Lega. Motivo per cui il «rito» dell'«ampolla» di Pian del Re è stato recepito per quello che era: una forzatura propagandistica, una farsa. Specie considerando che il «Grande Fiume» per i padani mai ha rappresentato alcunché di «sacro», essendo fino a qualche anno addietro, prima che le accresciute sensibilità ambientali vi ponessero parziale riparo, considerato né più ne meno di una cloaca a cielo aperto sulla quale riversare i rifiuti della civiltà consumistica.

 

La crisi continua

Il ridimensionamento del pericolo leghista, sembra aver ridato fiato all'esecutivo guidato da Romano Prodi, nel momento in cui la situazione interna e quella internazionale costringono il Governo a metter mano al groviglio di problemi che non è più possibile eludere.
La «legge finanziaria» è già oggetto di contrapposte valutazioni.
Giustamente, a nostro modo di vedere, Rifondazione Comunista pone l'accento sulla drammatica situazione occupazionale e i Sindacati, una volta tanto, sembrano decisi a far rispettare agli imprenditori gli accordi sul costo del lavoro. È assurdo, infatti, che intere categorie come, ad esempio, quella dei metalmeccanici, continuino ad essere penalizzate da un calo del potere d'acquisto dei salari, conseguente all'inflazione, quando l'accordo stipulato tra Governo, Sindacato e Confindustria nel '93 prevede un adeguamento delle retribuzioni al tasso di inflazione. Che la Confindustria si rifiuti di rispettare gli impegni assunti nonostante il lievitare degli utili nel biennio 1994-95 non può essere tollerato dal Governo visto che questi, a suo tempo, garantì il reciproco rispetto degli accordi.
Certo è, che la componente moderata dell'Esecutivo e la Confindustria sono da mesi impegnati a pressare Prodi affinché questi renda più incisiva la manovra finanziaria, nell'intento di bruciare i tempi di riallineamento dell'economia nazionale ai parametri imposti dal Trattato di Maastricht, consentendo così al nostro Paese di rientrare tra quelli della sedicente fascia «A» che per primi opereranno l'unificazione monetaria. Nonostante gli sforzi delle componenti più socialmente sensibili dell'Ulivo è scontato che parte considerevole delle risorse necessarie a riequilibrare i conti dello Stato sarà ancora una volta prelevata direttamente o indirettamente da quelle fasce sociali sulle quali da un lustro grava gran parte del peso del risanamento. Appare chiaro che, nonostante gli sforzi e l'ottimismo di Prodi e Ciampi, la nuova legge finanziaria non basterà a spianarci la strada dell'Europa e il costo in termini sociali di questa manovra, e delle altre che, nonostante le assicurazioni certamente seguiranno, non può essere sopportato da un'economia in fase recessiva com'è quella italiana. Né si può pensare che manovre di tipo monetaristico, quale un significativo calo dei tassi di sconto, bastino a colmare i ritardi rispetto alle economie degli altri partners europei come, ad esempio, la Germania, la cui economia, sia pure lentamente, riprende fiato e dove lo spazio per manovre di tipo finanziario è ben più ampio di quello italiano, essendo il «welfare state» tedesco rimasto pressoché intatto e non ridotto al lumicino da un quinquennio di continui «tagli».
La solenne dichiarazione di Prodi: «Voglio portare in Europa un Paese vivo» è a nostro parere solo una boutade senza agganci con la realtà oggettiva di un Paese sottoposto a salassi continui che ne hanno fiaccato gran parte delle potenzialità e costretto vasti strati sociali ad un livello di vita di pura sussistenza.
In quest'ottica la richiesta di Rifondazione di una revisione del Trattato di Maastricht ha una sua stringente logica. La stessa logica per cui Cesare Romiti ha ribaltato la sua precedente posizione entrando nel novero degli euro-scettici, tanto che i mass media hanno parlato di asse Fiat-Bertinotti. E pur ascrivendo la sortita dell'amministratore delegato della Fiat al calo della domanda interna nel settore automobilistico, che ha ridotto considerevolmente gli utili dell'azienda torinese nel primo trimestre del '96, quindi ad interessi particolari e circoscritti, è illusorio ritenere che il calo dei consumi non abbia immediate ripercussioni sulla già critica situazione occupazionale. Va aggiunto che in siffatta situazione il tanto celebrato calo della inflazione altro non è che la spia evidente della stasi del sistema produttivo, e che non può essere certo attribuibile alla politica illuminata del governo Prodi.
In ultima analisi si può tranquillamente affermare, come avevamo a suo tempo già paventato, che la componente dell'Ulivo più legata agli interessi della grande finanza, supportata dai clintoniani alla Veltroni, rischia di condurre il Paese non in Europa, ma nel vicolo cieco del degrado sociale e civile, senza che i D'Alema, a parole sostenitori delle tradizioni popolari della Sinistra, ci mettano lingua.

 

La sindrome dello struzzo

Raramente, quando si tenta di capire quali siano i mali che affliggono il Paese si prende in esame il ruolo dei mass media. E ciò nonostante sia ben radicata la convinzione che una società post-industriale sia ben più esposta al potere di condizionamento degli apparati informativi di una comunità contadina come, ad esempio, quella italiana dei primi del secolo.
Non intendiamo qui negare o sottovalutare il ruolo determinate che i mezzi d'informazione hanno avuto nella gestione del potere politico ed economico nel XX secolo. Anzi va sottolineato che non sono stati rari i casi in cui il controllo anche solo di una parte della stampa si è rivelato determinante per la gestione o la conquista del potere (: basti qui ricordare quello che ha significato per i liberali giolittiani il controllo del "Corriere della Sera", e per Benito Mussolini quello del "Popolo d'Italia"). Ma se in passato il controllo di un quotidiano permetteva di propagandare le proprie idee ed opinioni, non si può certo dire che il loro potere di condizionamento sia comparabile a quello che oggi ha una rete televisiva o radiofonica. Senza tralasciare il fatto che la carta stampata lascia maggiori spazi alla capacità critica degli individui, mentre l'informazione radiotelevisiva, a detta degli esperti di comunicazione, ha maggiori poteri condizionanti, grazie alla sua immediatezza.
In Italia, a differenza degli altri Paesi occidentali (nei quali è quanto meno formalmente garantita la separazione tra potere politico e mezzi d'informazione di massa da regole alquanto rigide, anche se non sempre e in tutto osservate), sia le televisioni pubbliche che quelle dei maggiori gruppi privati sono controllate direttamente dai politici. Infatti, la RAI è in pratica controllata dai Presidenti delle due Camere che ne nominano il Consiglio d'Amministrazione e da una Commissione di Vigilanza parlamentare che permette ai diversi partiti di controllare le assunzioni e gli investimenti.
Il gruppo Mediaset, già Fininvest, è proprietà personale di un leader politico che proprio sfruttando i suoi mezzi televisivi è riuscito, in poco più di tre mesi, a creare il più consistente soggetto politico italiano e a farsi eleggere Presidente del Consiglia.
Il gruppo di TeleMontecarlo è a sua volta controllato da Vittorio Cecchi Gori, senatore del PPI.
Un formidabile intreccio di interessi, economici e politici, ha permesso che una situazione siffatta si incancrenisse negli anni. Furono a suo tempo democristiani e socialisti, prima che le inchieste della magistratura travolgessero i loro partiti, a consentire la nascita di questi monopoli. Ma è una delle responsabilità del Governo Prodi acconsentire, con il decreto di proroga delle frequenze, il procastinarsi di una situazione monopolistica in un campo così delicato.
Evidentemente gli accordi raggiunti sono tali da soddisfare tutti i soggetti interessati. Solo così sono spiegabili i silenzi dei tanti opinionisti che per anni hanno, dalle colonne della carta stampata, scritto parole di fuoco contro il monopolio berlusconiano e l'occupazione della TV pubblica da parte del Polo di destra. Il compromesso raggiunto dopo le elezioni del di aprile sembra aver soddisfatto tutti: Berlusconi conserva intatto il suo impero televisivo ed editoriale, mentre i partiti si dividono, con PDS e Alleanza Nazionale che fanno la parte del leone, le zone di influenza all'interno della RAI.
I primi cento giorni del centrosinistra che avrebbero dovuto dare una svolta radicale al Paese non si sono, alla prova dei fatti, rivelati né migliori né peggiori dei primi tre mesi del governo Berlusconi, specie per quanto concerne la pluralità dell'informazione. Ma lo spessore della nostra classe politica è tale -come tutti abbiamo avuto modo di constatare- che tra tanta mediocrità persino un nanerottolo come Bossi può assumere le dimensioni del gigante.

A. De Ambris

 

Indice n° 36 articolo successivo