da "AURORA" n° 36 (Settembre 1996)

LE IDEE

 

Uomini e Bestie: Ecologia e Tradizione

Wandervögeln

(parte prima)

Francesco Moricca

 


 

«Come rugge il leone, fischia il serpente,
come urla il lupo e come l'orso freme
v'odi e v'odi le trombe, e v'odi il tuono:
tanti e sì fatti suoni esprime un suono»

T. Tasso "Gerusalemme liberata"

 


 

«Merlino il druido è (...) il cinghiale (...),
il re Artù porta un nome derivato da
quello dell'orso, arth; (...) identico a
quello della stella Arcturus

R. Guénon "Simboli della scienza sacra"

 


 

È convinzione diffusa che il culto degli animali sia proprio alla coscienza religiosa del primitivo, il quale, attraverso questo culto, attesterebbe la sua sostanziale appartenenza al mondo animale, il suo essere «animale fra gli animali». Ciò persino nel quadro della filosofia «spiritualista» dell'idealismo, in cui la «natura», spogliata dalle sue connotazioni biologiche, viene presentata speculativamente come puro «indifferenziato», donde, per successive sintesi dialettiche, emergerebbe alla fine lo Spirito come «autocoscienza» assolutamente differenziata, insuscettibile di ricadute nello stato primordiale, nella coscienza religiosa «animistica» che appunto si esprimerebbe nel culto degli animali.
Tuttavia questa teoria appare contraddetta da una serie di fatti già nel suo precursore Jean Jaques Rousseau. Senza diffonderci al riguardo e venendo alla contemporaneità, è curioso che presso l'uomo comune la straordinaria per non dire anormale sensibilità per la condizione degli animali, l'amicizia per essi che tende manifestarsi come propensione alla «zoofilia», la stessa attenzione per le problematiche ecologiche che non di rado trapassa dal piano razionale a quello sentimentale e al limite maniacale, possano in qualche modo interpretarsi come un «ritorno» al culto degli animali secondo l'opinione consolidata e corrente. In un'ottica psico-sociologica, si è notato che l'ideologia ambientalista (più o meno «verde» e più o meno orientata a destra o a sinistra, ovvero non orientata politicamente in quanto si ritiene che nell'era post-industriale la politica coinciderebbe tout court con l'impegno in difesa dell'ambiente) potrebbe essere l'indice più vistoso del «disagio della civiltà», esprimere un bisogno sostanzialmente incontrollato di «ritornare ai primordi». L'amore per gli animali, che un tempo era prerogativa delle persone «sole» e per giunta anziane o molto giovani, sarebbe il risultato della crisi dei rapporti umani; tal che, essendo diventata l'«incomunicabilità» anche sessuale, la norma, non resterebbe che riversare sugli animali l'affettività e la «carica libidica» che non si riesce a indirizzare per vie normali.
A livello psicoanalitico ciò è un valido supporto all'idea per cui, nell'età contemporanea, l'amicizia per gli animali dovrebbe essere tendenzialmente sospetta, quasi che oggi si stia verificando qualcosa di simile a quanto accadde nelle bibliche città di Sodoma e Gomorra.

 

Il culto degli animali: verità e mistificazione

Riflettendo su ciò sono stato indotto a osservare il comportamento degli animali, per rendermi conto se quelle che mi sembravano aberrazioni dello «spirito» contemporaneo dipendessero dall'uomo, oppure se in esse si potesse ravvisare una sorta di «fascinazione» che proviene dal mondo animale, quasi che il comportamento degli animali fosse il risultato di un loro essere profondo, l'effetto distinto di una causa distinta.
Questa è una prospettiva chiaramente anti-etologica. Ma ha una sua validità, in quanto permette di non mitizzare l'essere degli animali, giacché si respinge l'idea che esso si identifichi con il loro comportamento naturale ovvero con le loro «funzioni». Si è così al riparo dal pericolo di cadere in una forma moderna di quello che sarebbe stato il «primitivo culto degli animali»: non ci si può «confondere» con l'animale se si presuppone metodologicamente la sua essenza sempre al di là di quanto può dedursi dal puro e semplice comportamento. In un certo senso si capovolge il «primum» darwiniano, immaginando non l'uomo come un animale, ma l'animale come un uomo misterioso. Ciò implica un modo diverso di approccio alla realtà: non osservare l'animale cercando di non farsi vedere, ma osservarlo ostentando la propria presenza e anzi cercando di guardarlo negli occhi. Ecco: lo sguardo degli animali, dei più nobili, è misterioso. Gli altri hanno espressioni più o meno simili a quelle che si riscontrano nell'uomo medio: di indifferenza, oppure di attenzione unidirezionale, chiusa completamente entro l'orizzonte dell'«hic et nunc». Peccato che non si possano guardare negli occhi le api, le formiche o le mosche... Ma torniamo allo sguardo misterioso degli animali nobili. Questo «mistero» che ci sta di fronte è forse una proiezione del nostro io incapace di cogliere l'«anima» della bestia totalmente altra rispetto alla nostra? O è la bestia che vuole apparire «misteriosa», per difendersi o magari per offendere? La prima ipotesi sembra da scartarsi perché non conduce da nessuna parte. Rimane la seconda, e non si riesce a trovarne altre che non si possano ricondurre alle prime due. La seconda ipotesi ha inoltre qualcosa in comune col darwinismo presupponendo a suo modo una continuità «naturale» fra la bestia e l'uomo, continuità che non è da vedersi tanto nelle somiglianze esteriori e anatomiche, ma in un elemento pre-esistente di reciproca contraddizione o conflittualità, sia che l'uomo cerchi l'impossibile approccio al «mistero della bestia», sia che l'uno e l'altra cerchino di apparire «misteriosi» per ostentare la propria «potenza». Allora la continuità fra l'animale e l'uomo non è da vedersi secondo il principio della «lotta per la sopravvivenza»: in funzione della «selezione naturale» e della legge dell'«evoluzione» per cui l'uomo è in definitiva un «animale che incessantemente evolve», ma pur sempre un «animale», un essere cui spettano gli stessi attributi che per la scienza spettano all'animale. Né, d'altra parte, questa continuità può idealisticamente negarsi presentando la condizione primordiale (quella in cui viveva l'umanità nel cosiddetto «stato di natura») come alcunché di «indifferenziato» da cui l'uomo sia uscito per mai più ritornare.
Se invece si suppone fra l'uomo e la bestia l'esistenza di una contraddizione e conflittualità radicali, che si esprimono nella formula metafisica-teologica del mistero e si manifestano fisicamente e storicamente in una lotta in cui la «volontà di potenza» dell'uomo e della bestia è centrale e assai più rilevante delle forze fisiche e di intelligenza che l'uomo e la bestia mettono in campo, allora non solo essi non appariranno più come esseri meramente «naturali», come sostiene il darwinismo, ma gli stessi primordi (lo «stato di natura») non si potranno più considerare idealisticamente come una condizione «indifferenziata», né in termini relativi né forse, a ben guardare, in termini assoluti.
All'antico culto degli animali non è dunque corretto attribuire un significato «primitivo». Né tantomeno è corretto porre sullo stesso piano questo culto con quello praticato presso i nostri contemporanei aborigeni dell'Australia, dell'Africa e dell'America Meridionale, secondo la metodologia pseudo-scientifica dell'antropologia culturale. Non è per nulla dimostrato, infatti che i contemporanei aborigeni siano effettivamente rimasti allo stadio primitivo di sviluppo della civiltà e non siano invece gli eredi imbarbariti di precedenti e molto sviluppate culture. Senza addentrarci in argomenti specialistici per i quali si rimanda alla evoliana "Rivolta contro il mondo moderno" (Ed. Mediterranee, Roma, 1980), ricordiamo che, limitatamente agli aborigeni amerindi del Sud, è fin troppo facile sostenere che essi siano epigoni degenerati delle culture pre-colombiane, che a loro volta discendono, come gli egizi, dai superstiti della per niente «mitica» Antartide. L'antico culto degli animali, peraltro, ha caratteristiche decisamente «solari» presso gli Egizi dei tempi più remoti, ma sempre «telluriche» presso le culture dell'area medio-orientale babilonese, anche nella saga del «solare» Gilgamesh e nel racconto biblico della cacciata dal Paradiso terrestre, sebbene il Guénon ponga in relazione i «Caldei» con i druidi «celti» sulla base di osservazioni etimologiche e veda anche presso il tellurismo medio-orientale una traccia della «Tradizione primordiale» iperborea (cfr. Evola, op. cit., pp. 282 e seg.; Guénon, "Simboli della scienza sacra", Adelphi, '89, p. 150, n° 17).
Il culto degli animali va dunque interpretato simbolicamente e non antropologicamente, perché solo così è possibile distinguerne le forme degradate da quelle superiori, queste essendo inassimilabili sia a una concezione «animistica» sia a tendenze «animalistiche» che si riscontrano invece nelle civiltà «evolute» in dissoluzione. Sarà altresì possibile intendere il carattere non romanticamente «popolare» ma dotto dei bestiari medioevali, nel quadro della retorica e del complesso allegorismo medioevali, in tutti i suoi nessi con una teologia fin troppo anti-naturalistica, rigidamente monoteista, indubbiamente non «animistica».
Dice il Guénon che «non basta considerare il simbolismo dal lato umano» e come pura e semplice opposizione dello scientismo razionalistico: «conviene, per penetrarne tutta la portata, esaminarlo anche dal lato divino, se è lecito esprimersi così. Già se si constata che il simbolismo trova il suo fondamento nella natura stessa degli esseri e delle cose, che esso è in perfetta conformità con le leggi di questa natura, e se si riflette che le leggi naturali non sono, in fondo, che un'espressione e come un'esteriorizzazione della Volontà divina, tutto ciò non autorizza forse ad affermare che il simbolismo è di origine non umana, (...), che il suo principio risale più lontano e più in alto dell'umanità? (...). La creazione è l'opera del verbo (...), la sua manifestazione, la sua affermazione esteriore (...). Il filosofo Berkeley non aveva dunque torto quando diceva che il mondo è il linguaggio che lo spirito infinito parla agli spiriti finiti; ma aveva torto a credere che tale linguaggio sia solo un insieme di segni arbitrari (simboli), mentre in realtà non c'è niente di arbitrario neppure nel linguaggio umano, dovendo ogni significazione avere all'origine il suo fondamento in qualche convenienza o armonia naturale fra il segno e la cosa significata» (op. cit., pp. 21-22).
Tanto basti a sostenere la validità della logica simbolica, se non ad affermarne decisamente la superiorità rispetto alla logica che presiede alle costruzioni teoriche della scienza moderna più raffinata e astratta: astratta anche nel senso di non avere addentellati concreti e organici con la guénoniana «armonia naturale», e per questo anche responsabile dei danni che la tecnologia ha recato negli equilibri ecologici.
Per quanto attiene in specie all'argomento della visione tradizionale dell'ecologia, si hanno ora elementi sufficienti per fissare dei punti di riferimento generali.
1) L'«ambiente» (la natura tutta, dalle sostanze inorganiche agli organismi superiori, l'uomo compreso in quanto ente in parte corporeo) è una manifestazione, e non solo l'unica esistente o potenzialmente esistente, di una realtà spirituale assoluta trascendente, di ciò che il Vangelo giovanneo chiama Verbo; tal che non solo la natura di questo sistema solare, ma tutti i «Caeli enarrant gloriam Dei» (Salmi, XII, 2).
2) La natura e in particolare le bestie partecipano della potenza e della bontà del Verbo nella misura in cui il loro essere più alto e spirituale (più «evoluto»), che è l'uomo, rimane in contatto col Verbo e «parla con Lui a tu per tu», come si dice facesse Adamo nell'Eden, e come sarà ancora dopo, nonostante la «caduta» e il fratricidio di Caino, per mezzo di Seth, terzogenito dei Progenitori.
3) La natura e le bestie non sono malvagie in sé, ma per mezzo dell'uomo, visto che per mezzo dell'uomo possono anche essere e furono buone. Non ha dunque senso affermare che la natura è «madre» ovvero, alla maniera di uno Schopenhauer, di un Leopardi e di un Marx, che è «matrigna». Il che è possibile sostenere ove si presupponga il Verbo di genere femminile (come presso il tellurismo), ma ha tanto poco senso quanto ne ha presupporre il contrario in relazione alla pura e semplice facoltà di generare. In realtà il Verbo è al di sopra dell'atto generativo perché nulla Lo obbliga alla «creazione»; e anzi, a rigore, la Sua essenza «uranico-solare» dovrebbe in termini umani e per approssimazione identificarsi proprio nell'atto di rifiutarsi alla generazione (ma ciò, appunto, in termini umani: perché, se nulla obbliga il Verbo a generare, nulla nemmeno può obbligarlo a non generare.
4) La natura, le bestie e l'uomo sono enti differenziati sin dal momento della loro «creazione». Proprio perché differenziati possiedono delle «potenze» o «spiriti», che se non rettamente governati si rivoltano contro l'uomo, il quale nella sua componente incorporea e «dialogante» col Verbo, è «signore del creato», e fino a un certo punto può «governarlo» interrompendo il «dialogo» col Verbo e persino negando l'esistenza del Verbo: sicché il demonio può «entrare» nel corpo di un uomo o di una bestia (per esempio come «scimmia di Dio» nel culto degradato degli animali, ovvero l'Anticristo è presentato nell'Apocalisse giovannea come la Bestia per antonomasia simboleggiata dal numero 666.
5) Il culto degli animali, rettamente inteso, presuppone la conoscenza delle «potenze» buone e cattive che sono proprie agli animali e che essi simboleggiano, incarnando virtù e vizi dell'uomo come presso i bestiari medioevali: idea tutt'altro che ingenua ove si ricordi quanto detto sulla «continuità» esistente fra l'uomo e la bestia. Questa conoscenza imprescindibile fa sì che il culto degli animali si riduca a un rito magico in cui l'animale oggetto di «culto» è mero supporto della operazione rituale, operazione che è assolutamente interiore ed ha il fine di realizzare una «trasmutazione», un elevamento più etico che morale dell'officiante come dei fedeli. Si esclude pertanto qualsiasi promiscuità con l'animale, persino solo affettiva e sentimentale, ciò essendo garantito dalla sacralità e intangibilità dell'animale «venerato».
6) La natura, in quanto simbolo di qualcosa di ben più alto del suo essere pure «ambiente dell'uomo» (luogo delle sue «funzioni interattive»), non deve mitizzarsi roussonianamente o alla stregua del naturalismo pseudo-matematizzante e pseudo-pitagorico d'uno Spinoza, il quale tanta parte costituisce ancora, «teoreticamente e teologicamente», nel contemporaneo «culto degli animali». Così, secondo la concezione tradizionale, la natura è sacra e intangibile non nel senso che non si dovrebbe «manipolarla e utilizzarla», ma nel senso che ogni operazione condotta su di essa (dal campo della sperimentazione sul nucleare a quello della genetica per finalità «eugenetiche») dovrebbe tener conto dell'alterità o eccezionalità dell'uomo nel contesto naturale, del suo essere comunque in stretta relazione con un ordine superiore già solo per il fatto di possedere una certa autonomia dal determinismo istintuale; dovrebbe tener conto del fatto che quest'ordine superiore non può, senza manifesta contraddizione, esser violato per scopi di mera «utilità» umana: l'idea di «utilità» essendo ancora e solo quella di «funzione naturale», anzi l'ipostasi teologica della funzione naturale, secondo la «religione della scienza».

 

Il simbolo dell'orso

Trovando i significati simbolici, che le tradizioni attribuiscono agli animali, corrispondenze di ordine «astrologico» e «alchimistico» con la scienza tradizionale (la guénoniana «Scienza sacra»), non solo questi significati simbolici non possono ritenersi «invenzioni poetiche» ovvero, alla maniera dello Jung, «archetipi ancestrali» d'un preteso «inconscio collettivo», ma risultano non essere in contraddizione con le caratteristiche naturali e comportamentali degli animali stessi, caratteristiche rilevabili col metodo sperimentale moderno e descritto minutamente nei testi di zoologia. Ove una simile verifica venga compiuta sull'orso, di cui qui si tratterà riprendendo le indicazioni della citata opera di Guénon, si apprenderà che questo nobile animale, il quale ha avuto emblematicamente lo stesso destino di progressiva «estinzione» delle idee e degli uomini da esso simboleggiati, ha un comportamento che sembra attestare la «consapevolezza» del simbolo, anzi la «pre-cognizione» del destino, se si considera che la sua natura non ha subito relativamente alcuna «evoluzione» in rapporto all'incommensurabilità dei tempi dell'evoluzione naturale e di quella storica.
L'orso ha un significato simbolico inscindibile da quello del cinghiale presso Celti e Indù. L'orso rappresenta i guerrieri (Cavalieri, Kshatriya), il cinghiale i sacerdoti (Druidi, Brahamani). Nei Veda, l'attuale ciclo storico è designato come «ciclo del cinghiale bianco», e Varahi, «Terra del cinghiale», è detto l'originario paese degli Iperborei delle fonti greche, il centro spirituale dei Primordi: Tula, o anche Siria da intendersi come «terra del Sole» senza preciso riferimento geografico. «Il cinghiale -dice Guénon- rappresentava anticamente la costellazione divenuta più tardi dell'Orsa Maggiore. Vi è, in questa sostituzione di nomi, un segno di ciò che i Celti simboleggiavano precisamente con la lotta del cinghiale e dell'orso, cioè la rivolta dei rappresentanti del potere temporale (i Cavalieri) contro la supremazia dell'autorità spirituale (incarnata dai Druidi). Per questo il nome «bor» si è potuto trasferire dal cinghiale all'orso (in inglese bear, in tedesco bär da cui i nomi delle città di Berlino e Berna nel cui emblema figura l'orso), e la stessa Borea (Tula o Siria) -la Terra del cinghiale- è potuta in seguito diventare la Terra dell'orso, durante un periodo di predominio degli Kshatriya (...). Presso i Greci, la rivolta degli Kshatriya era raffigurata dalla caccia al cinghiale calidonio (che secondo Ateneo) era bianco, (...) e Caledonia, antico nome della Scozia (...), al di fuori di ogni questione di localizzazione particolare, è propriamente il paese dei Kaldes o Celti; (mentre) la foresta di Calidone non si distingue in realtà da quella di Brocelandia (il prefisso del cui nome, bro ovvero bor, è il) nome stesso del cinghiale».
Si può aggiungere che il nome dell'orso (in celtico arth, in greco arktos, in latino ursus) compare nella denominazione del mare attorno al Polo Nord (il «Mediterraneo» della Sede polare primordiale secondo L. G. B. Tilak), detto appunto Mare glaciale artico (cfr. Tilak; "La dimora artica nei Veda", Genova 1986). Nelle terre bagnate da questo mare troviamo l'orso bianco: bianco, curiosamente come il cinghiale che definisce l'attuale ciclo o «Manvantara», e bianco come il cinghiale calidonio del mito greco nella versione riportata da Ateneo.
Riprendiamo il testo guénoniano. Vi si legge: «I due simboli del cinghiale e dell'orso non appaiono sempre necessariamente in opposizione o in lotta, ma, in certi casi, possono anche rappresentare l'autorità spirituale e il potere temporale (...) nei loro rapporti normali e armonici, come si vede in particolare nella leggenda di Merlino e di re Artù. Infatti Merlino il druido è anche egli il cinghiale della foresta di Brocelandia (ove del resto, alla fine, non è ucciso come il cinghiale calidonio, ma solo addormentato da una potenza femminile); il re Artù porta un nome derivato da quello dell'orso, arth, più precisamente, questo nome è identico a quello della stella Arcturus (...). Questa stella si trova nella costellazione del Bovaro, o di Boote, e, per il tramite di questi nomi, si possono vedere ancora riuniti i segni di due periodi differenti: il guardiano dell'Orsa diventò il Bovaro quando l'Orsa stessa (...) diventò i septem triones, cioè i «sette buoi» (donde la denominazione settentrione per designare il nord» (op. cit., pp. 146-151).
Si tenga adesso presente che i miti di Artù e Merlino nonché quello del Graal, sono strettamente correlati. Artù, dopo la battaglia di Salisbury, «si ritira» nell'isola di Avalon «dove vive ancora coricato su un letto d'oro» (cfr. "La morte di Artù" XXXIX). Merlino cade quasi «in letargo» a guisa di orso nella foresta di Brocelandia. Il Graal, infine, «sparisce» dopo la morte di Galaad che l'aveva «trovato» e conquistato, come pure «sparisce» nelle acque di un lago la spada di Artù, Excalibur (Cfr. "La ricerca del santo Graal", XXIX; e "La morte di Artù", XXXIX).
Quanto si è fin qui riportato per sottoporlo all'attenzione del Lettore, si riferisce ad un complesso di idee esterne che vengono riprese dalla Cavalleria medioevale ed adattate al cristianesimo. Queste idee, questi valori, subiscono una sincope, un «oscuramento» con la crisi della Cavalleria che si può far coincidere con la sconfitta storica del ghibellismo e con l'emergere di una mentalità «moderna» nella borghesia cittadina europea. A tutto ciò allude la «partenza» di Artù alla volta di Avalon (altro nome che equivale a Tula e Siria), il «letargo» di Merlino, la «sparizione» del Graal e della spada Excalibur.
Vale la pena adesso di osservare che l'orso ha connotazioni simboliche esclusivamente positive non solo nei poemi arturiani, ma anche in poemi più antichi come "Edda", "La saga dei Nibelunghi", "Waltharius". Ha invece connotazioni simboliche fortemente negative nella "Chanson de Roland", poema più antico di quelli arturiani ma molto più fortemente segnato dallo spirito del cristianesimo: Carlo Magno, per esempio, sogna il traditore Gano di Maganza sotto la specie di un orso. Ildegardo di Blingen, poi, sconsiglia di mangiare la carne dell'orso perché, più delle altre carni, indurrebbe alla lussuria. Ancora, una leggenda narra che Sant'Amando, durante un viaggio a Roma, perse l'asino, divorato da un orso, e che miracolosamente costrinse questo ultimo a sostituire l'asino. Poiché l'asino è un animale simbolicamente collegato alla figura di Cristo (l'asino della fuga di Giuseppe e Maria in Egitto, l'asino del presepe, l'asino con cui Gesù fa il suo ingresso trionfale a Gerusalemme). Questa leggenda allude abbastanza scopertamente al conflitto fra il «paganesimo» rappresentato dall'orso e il cristianesimo, conflitto che però non si risolve con l'annientamento dell'orso, ma con la sua assunzione del ruolo dell'asino, con la sua assimilazione al simbolismo cristiano. Il cristianesimo resta però comunque diffidente e sostanzialmente nemico dell'orso, come di fatto è il guelfismo nei confronti del ghibellinismo. «Orso», per il senso comune, è l'uomo solitario per antonomasia, colui che rifiuta il comunitarismo cristiano non per timidezza ma per selvatichezza connaturata, colui che, se disturbato, diventa immediatamente aggressivo. Come era già accaduto nella Roma della decadenza, l'orso verrà umiliato dai cristiani alla stregua di bestia da circo; e non in maniera cruenta, ma costringendolo a fare buffi esercizi, magari in abiti femminili. Per un altro verso viene elencato fra gli animali in cui potrebbe incarnarsi il demonio (cfr. B. Andreoli, "Il Signore del bosco", in "Storia e dossier", maggio '89, pp. 34-39).

 

L'orso nel simbolo e nella scienza

Si era detto all'inizio del precedente paragrafo che gli attributi dell'orso secondo il simbolismo tradizionale non sono affatto in contraddizione con le caratteristiche naturali che gli sono proprie e che sono state rilevate col metodo sperimentale dalla moderna zoologia; che anzi questi attributi simbolici gli sono connaturati in guisa di qualità su un piano metafisico, tanto che quasi se ne dovrebbe constatare nella bestia una sorta di consapevolezza, che sembrerebbe implicare addirittura facoltà «pre-cognitive». È il momento di verificarlo, estrapolando alcuni passi significativi dalla voce «Orso» dell'Enciclopedia zoologica Motta, e premettendo, anzitutto, la constatazione che il nome scientifico della specie europea dell'orso è Ursus arktos: dato da sottolineare, che attesta comunque una derivazione non meramente accidentale ovvero inessenziale della moderna scienza dalla Scienza Sacra tradizionale, sia pure ove si voglia sostenerne la «superiorità» in base alle sue realizzazioni tecniche, sembra per l'addietro sconosciuto all'umanità, almeno per quanto attiene alla loro abnorme diffusione che ha determinato mutamenti di certo mai prima verificatisi nella struttura economica, politica e sociale di tutti i popoli.
«Sia allo stato selvaggio che in cattività, l'orso bruno presenta (...) evidentissime contraddizioni nella sua indole e nei suoi modi di vita (...). Dotato, infatti, di una forza prodigiosa, l'orso attacca di rado il bestiame grosso, prediligendo invece le piccole prede, e anche piccolissime (...). (Pur essendo dotato degli organi propri ai grandi carnivori), si dimostra invece particolarmente ghiotto di frutti (...); capace di atterrare un uomo o un bue con un solo colpo di zampa, si rassegna a ballonzolare goffamente -davanti a una folla divertita- con il solo freno rappresentato da un anello passato nel suo naso e assicurato ad una fune. L'elenco delle sue contraddizioni potrebbe ancora continuare a lungo, poiché questo animale scontroso e giocherellone, agile e pigro, tardo e astuto, ne assomma in sé una sbalorditiva quantità. (...) È capace di individuare l'uomo a qualche centinaio di passi di distanza (...) ed ha cura di sfuggirlo, confondendo ad arte le proprie tracce, raramente risolvendosi ad affrontarlo (...); secondo quanto viene fermissimamente creduto nelle zone di maggior diffusione, l'orso non infierirebbe mai su un morto o su una donna (...). Quanto vi sia di vero in simili credenze non è possibile stabilire; di certo si sa solo che, ove lo si disturbi nel sonno invernale o durante il pasto, ovvero quando se ne minacci la prole, l'orso può attaccare, sollevandosi sulle zampe posteriori e tentando di abbracciare l'avversario con i robusti arti anteriori» (p. 362).
Circa la sua amicizia per l'uomo, l'orso potrebbe avvicinarsi al delfino (si veda il mito greco di Arione) e, in un senso soprattutto simbolico, al lupo: come Romolo e Remo furono allattati da una lupa, così Paride fu allattato da un'orsa, come anche, si dice, il capostipite della famiglia principesca degli Orsini. Si potrebbe anche osservare che l'attitudine dell'orso ad assumere una posizione eretta, lo rende assai simile a un uomo. Il che dovette certamente impressionare l'uomo preistorico. Se si considera che l'Orso delle caverne era di circa un terzo più grande dell'Orso bruno, si potrebbe vedere appunto in ciò l'origine della credenza nei Giganti di cui parla la Bibbia e la mitologia greca, nonché della credenza di unioni «carnali» fra donne ed orsi: come nella leggenda di Polifonte, la fanciulla che in odio degli uomini fuggì nella selva, dove Afrodite, per punirla della sua amazzonica misantropia, le ispirò un insano amore per un orso, da cui nacquero due gemelli trasformati da Zeus in uccelli rapaci. Questa leggenda, come quella biblica secondo cui i Giganti nacquero dall'unione di «angeli» con donne, non dovrebbe però leggersi in termini «animalistici», antropologici e psicoanalitici, ma alla luce delle concezioni «storicistiche» del Bachofen e dallo stesso Guénon. Del primo, si veda il paragrafo "Apparizione dell'amazzonismo" in "Le madri di virilità olimpica", Trento, '90, pp. 60-65. Del secondo, si veda il paragrafo "La lingua degli uccelli" nelle pp. 56-63 dell'opera citata, dove gli angeli sono assimilati agli uccelli in quanto «messaggeri di Dio». Analogamente, «giacere con l'orso» andrebbe inteso nel senso di instaurare un rapporto interiore con le potenze spirituali simboleggiate da questo animale.
Infine un ultimo passo dalla citata Enciclopedia, che riguarda il letargo dell'orso e che va collegato con quanto prima si è detto sul «riposo» di Artù in Avalon e sul sonno di Merlino nella foresta di Brocelandia.
«Fra ottobre e novembre, all'approssimarsi della stagione invernale, l'orso si pone alla ricerca di un luogo ben riparato (...) dove, ben pasciuto e in ottime condizioni, sebbene agitato da crisi di inquietudine e di irrequietezza, l'animale cade preda di un sonno profondo, che tuttavia non tutti definiscono letargo e non si interrompe fino allo sciogliersi delle nevi (...). L'orso raramente ritorna nella stessa tana, e il Karzeef asserisce di aver visitato moltissimi di tali rifugi, caratterizzati dall'assoluta mancanza delle tracce relative alla presenza dell'animale, ivi tuttavia prolungata per diversi mesi» (pp. 362-363, corsivi miei).

 

L'ecologia fra storia e metastoria

Una perplessità potrebbe ancora sorgere nel Lettore circa il «potere di fascinazione» che gli animali eserciterebbero sull'uomo contemporaneo e che è causa del loro rinnovato «culto»; più precisamente di quel culto invertito che si ripropone in modi differenti, e tuttavia nella sostanza sempre più degradati, nei periodi di decadenza: periodi che si succedono alternandosi a periodi di relativa ripresa nel quadro più vasto e unitario del presente ciclo, nei Veda denominato ciclo del cinghiale bianco. Per dissipare questa perplessità, basta riprendere i sei punti di riferimento dottrinale del primo paragrafo, in particolare il secondo e il terzo. Per dare comunque una risposta immediata alla questione se gli animali possiedano o no «poteri magici», è da dire che li posseggono certamente, ma che diventano operanti, in positivo come in negativo, solo se «evocati» dall'uomo. La stessa possibilità che il demonio si «impossessi» di un animale, dipende dall'uomo e da nient'altro che dall'uomo; il quale, se ha il potere di «usare violenza ai Cieli», come dice la Bibbia, e di «passare per la porta stretta», come confermano i Vangeli, a maggior ragione ha il potere di contrastare il demonio, magari di «stringere un patto» con lui per poi «tradirlo» e «farsene beffe».
Tuttavia non è corretto porre la questione solo relativamente agli animali. Si deve porla nei confronti dell'animalità in genere (di ciò che usualmente si designa come «natura») secondo quanto è detto nel "Timeo" di Platone, dove in perfetta coincidenza con tutte le tradizioni si parla di un'anima del mondo stabilendo una continuità metafisica prima che finisca fra tutti gli esistenti: dagli astri ai minerali, alle piante, agli animali, all'uomo stesso in relazione alle sue anime «concupiscibile» e «irascibile», ma non rispetto alla sua anima «razionale». Secondo alcune tradizioni, fu addirittura la malvagità umana a determinare la maggiore inclinazione dell'asse terrestre col seguente fenomeno delle glaciazioni, onde la Sede polare, nell'ultima glaciazione, divenne inabitabile e fu «perduta» (il brahamano Tilak, che ben conosceva anche la scienza profana occidentale per aver studiato in Inghilterra, nell'opera citata offre un'accurata disamina delle notizie contenute non solo nel Veda e nell'Avesta sulla localizzazione della «dimora artica» e sulle condizioni climatiche della regione polare prima dell'ultima glaciazione, notizie che vengono vagliate con criteri di verosomiglianza rigorosamente scientifici -astronomici, geologici, climatologici- e poi esaminate secondo la prospettiva «sapienziale» dei testi sacri da cui sono estrapolate).
In definitiva, secondo la Tradizione di cui sono parte anche le tre religioni monoteistiche, il cosiddetto «problema ecologico» non è un problema di mera «utilità economica», né un problema «tecnico» o un problema «morale». È invece il problema del giusto rapporto dell'uomo con la Divinità: un problema più etico che «religioso», nel senso che nell'etica che la religione diventa tutt'uno con la politica; non è più una pratica puramente «personale e devozionale», limitata alla «libertà di coscienza» e pertanto svirilizzata e innocua, ma l'estrinsecazione dell'essere umano nella sua totalità, sia nella sua trascendenza che nella sua immanenza.
Rispetto a quest'ordine di idee, il roussoiano «culto della natura», che è certamente la prima e più virulenta manifestazione del contemporaneo rinnovato «culto degli animali», segna, specialmente per le sue implicazioni politiche sovversive, quella sincope, quella radicale inversione di tendenza da cui inizia propriamente l'ecologia come pretesa scienza autonoma (si vedano al riguardo le farneticazioni licenziose e le «arcadiche» divagazioni in tema di economia «fisiocratica» di cui è intessuto lo scenario della "nuova Eloisa"). Senza Rousseau e senza il romanticismo deteriore (in cui consiste in massima parte il Romanticismo «tout court»), l'emergere successivo dei disastri ambientali provocati in misura sempre maggiore dall'industrialismo e da una «scienza sperimentale» ad esso sempre più asservita, probabilmente avrebbe trovato una risposta più incisiva anche se soltanto «tecnica». Invece, l'equivoco «culto della natura» ha colorato di sentimentalismo l'ecologia, neutralizzandone gli aspetti razionali e deviandone le finalità in una direzione sostanzialmente funzionale a quell'industrialismo di cui dovrebbe almeno limitare i guasti. Il «sentimento della natura» è diventato così un alibi per evadere dall'«inferno metropolitano» e un mezzo per scaricare le tensioni esistenziali e sociali. Di più, è diventato una moda e un «business» che ancora non è stato sfruttato in tutte le sue potenzialità, con ulteriori danni per l'«ambiente», tanto esterno all'uomo quanto interiore. La «coscienza ecologica» è stata anche sfruttata politicamente nei recenti fatti di Mururoa, per impedire che la Francia e l'Europa contenessero, grazie al nucleare il fabbisogno petrolifero; nonché allo scopo di impedire l'eventuale potenziamento del loro «deterrent» nucleare, quando tutti dovrebbero sapere che una terza Guerra mondiale è stata a oggi scongiurata proprio grazie a questo «deterrent», ma adesso, dopo la dissoluzione dell'Unione Sovietica e il sorgere di diverse potenze grandi e piccole dotate di arsenale atomico, potrebbe non esserlo più: sicché, o si riesce a imporre a tutti il disarmo nucleare, o a tutti si deve consentire l possesso di un arsenale atomico. Solo questo consentirebbe di ripristinare l'equilibrio che esisteva prima del crollo del Muro di Berlino, anche per l'esistenza dell'arsenale atomico cinese.
Per obiettività in fine, e per delineare con la massima precisione possibile gli oscuri processi che conducono al roussoiano «culto della natura», è da segnalare che in effetti la sua prima sintomatica manifestazione non si verificò durante il Rinascimento (e non a caso, perché lo impediva l'influenza del platonismo e del cosiddetto «naturalismo magico»), ma proprio nell'età della controriforma; la quale controriforma pure avrebbe dovuto «reagire» alle tendenze involutive della Riforma protestante e, più in particolare, a quella «rivoluzione scientifica» che sarebbe culminata nella nascita del moderno «metodo sperimentale».
Ci limitiamo, al riguardo, a citare alcuni versi di un poeta cattolicissimo di questo periodo, Torquato Tasso un personaggio emblematico non solo dello spirito di un'epoca, ma del fatto inusitato che, persino in chi persegua le migliori intenzioni e i più alti ideali, e li persegua fino a perdere letteralmente la ragione, possono suo malgrado insinuarsi i germi della dissoluzione; per cui, venendo meno la forza interiore, questi determinano in lui una sorta di corto circuito, la «malattia mentale» che ne fa l'agente di quelle stesse forze che vorrebbe contrastare:

«O bella età dell'oro
non già perché di latte
sen corse il fiume, e stillò mele il bosco;
(...)
ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
quel che da 'l volgo insano
onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra liete dolcezze
de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quel alme in libertade avvezze;
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S'ei piace ei lice.
Allor tra fiori e linfe
(...)
sedean pastori e ninfe,
meschiando a le parole
vezzi e sussurri, ed a sussurri i baci
strettamente tenaci,
la verginella ignuda
scoprìa le fresche rose,
ch'or tien in velo ascose,
e le poma del seno acerbe e crude;
tu prima, Onor, velasti
la fonte de li diletti,
negando l'onda e l'amorosa sete
(...)
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
ai detti il fren ponesti, a i passi l'arte;
opra è tua sola, o Onore, che furto sia quel che fu don d'amore»

("Aminta", Atto I, Coro, vv. 1-52; corsivi miei).

 

Francesco Moricca

 

(La seconda parte sul prossimo numero)

 

 

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