da "AURORA" n° 36 (Settembre 1996)

MALI D'ITALIA

Le ragioni di Ambrogio

Vito Errico

Vivo tutta questa sarabanda della secessione con spirito di disincanto. Gli italiani si scanneranno seriamente? Chi può saperlo? Se avvenisse, sarebbe una delle solite trovate di questo popolo, che non ha fatto altro che sforzarsi di somigliare ai capponi del celebre Lisander.
Io sono uno del Sud, un terrone che è stato sottratto al destino delle generazioni che lo hanno preceduto. A diciott'anni mi mandarono soldato alla frontiera orientale e su "Quota 609" del Sabotino -quella conquistata da nonno Carlo, uno dei tanti terroni «lupi» del 77° Toscana che liberò Gorizia- montavo la guardia insieme ad altri terroni, di cui erano formati i battaglioni d'assalto d'un esercito sgangherato, messo lì a vigilare la «cortina di ferro». Se «quelli» fossero venuti davvero, noi saremmo stati tutti massacrati e le nostre ossa inumate a Redipuglia e a Oslavia, insieme a quelle di tanti terroni, che dormono per sempre sul Colle di Sant'Elia, che nessuno di loro in vita sapeva esistere. Non è per essere retorici ma «casa mia» non era lì, non era fisicamente lì. Era più giù, molto più giù dove cresce l'ulivo e il sole sorge sui monti della Balcania e tramonta sulle sabbie africane. Ma i terroni sarebbero rimasti laggiù, come sono sempre rimasti.
Quando finì la naja, mi ritrovai «regolarmente» disoccupato. Che cosa potevo fare? Avevo studiato per insegnare a leggere e scrivere a bambini che non nascevano più a causa dell'uso del condom, che i meridionali avevano imparato a usare forse dai settentrionali. Avevo amici disoccupati. Erano periti meccanici in una terra senza fabbriche, ragionieri in una terra senza banche, geometri in una terra già cementificata. Le solite cose del Sud, ... manca sempre qualcosa per essere perfetti. Capitò fortunatamente il concorso pubblico e dovetti scegliere, giacché da noi tutto manca tranne la libertà di scelta. Mi chiesero dove volevo andare. Risposi: a casa mia. Mi sbagliavo, come sempre succede ai meridionali. Dovevo scegliere fra Milano e Torino, di cui conoscevo qualche cartolina. Lanciai la monetina e finii nella città di don Lisander, dove i terroni e i polentoni si beccano come i capponi di Renzo.
Arrivai nella metropoli, non ancora «da bere» ma che procurava sete col fumo dei lacrimogeni e il clima umido disidratava quei terroni, abituati a sopportare l'arsura tenendo in bocca un ciottolo dell'Ofanto. Grandi strade, grandi palazzi, grandi negozi, grandi magazzini. Tutto era grande. Solo la stanza della mia pensione era piccola, proprio piccola: due letti e un comodino con un armadio ai piedi dei giacigli e un palmo di spazio dall'uscio. Era una pensione per i terroni, ricavata in un vecchio magazzino riattato, con la volta a un paio di metri dal suolo. Il padrone, sciur Somaschini, di razza padano-brianzola, aveva tirato su cinque stanze, ognuna a venticinquemila al mese e tre mesi anticipati. «Ciapa o lasa stà, terun» mi disse. «Prendo, prendo, sciur, sennò dove vado a dormire? Ai Navigli?» Diedi l'addio a quel «centone» che i miei mi avevano messo nel portafogli di similpelle e per un mese tirai la cinghia, Come sempre è successo ai terroni. Avevo un'altra scelta da fare: letto di destra o di sinistra? Andai a sinistra e il destino non c'entra. A destra c'era una «faccetta nera» dell'Etiopia, che di giorno lavorava a raccoglier cartoni all'Euromercato e di notte studiava per tornare fra i suoi Galla a curar malaria e amebe nelle Ambe. Era il mio conforto, il cuscitico: era un terun più meridionale di me.
In quella stanza si soffocava: l'angustia faceva mancare l'aria dentro e fuori l'umidità bagnava il creato. Però meglio a mollo fuori che zuppo dentro. Una coperta sull'uscio e ... sogni d'oro. Mi svegliai al canto dei galli nelle stie e alle urla del Somaschini nel cortile: «Uè, sem minga in Teronia...» Dov'era l'errore del terrone errante? In Terronia tutti dormivano sui balconi, sulle terrazze e chi abitava nelle case murattiane, sull'uscio. Quand'e caldo, è caldo. Ma questo in Terronia, forse... Arrivò l'autunno e poi l'inverno. L'angustia della camera di magazzino faceva comodo e caldo ma al mattino, per pisciare, si rischiava la polmonite. Il bagno era fuori e dovevi mettere le scarpe nella neve col fiato che fumava e la polmonite che incombeva. Ma tanto, i terroni erano tanti: uno più, uno meno... Com'è adesso per gli Albanesi.
Cominciai a conoscere gente. Terroni dappertutto e in tutte le fabbriche. «Una lebbra» diceva sciur Somaschini. Terun i carabinieri e i poliziotti, che davano e prendevano randellate. Terun erano gli insegnanti, gli impiegati, i tramvieri, i postini, i magistrati, i ferrovieri. Solo nelle banche risuonavano parole meneghine. Ma com'è? «L'è sempre la solita solfa» diceva Ambrogio, «venduto allo straniero» per aver sposato una moracciona dei Nebrodi. Passarono gli anni, durante i quali rimpiansi la «rossa terra di Tara». Un giorno, come Scarlett O'Hara, gridai: «A casa, a casa mia. Dopotutto domani è un altro giorno!» Lunghi anni passati a dovermi sempre difendere perché ero un terun e avevo usurpato un posto ai «polenta», fra mille difficoltà per trovare casa e sistemare la moglie, perché i terun piantano il basilico nel bidé, sono sfaticati e fanno molti figli. E pensare che io ero stato costretto a «salire» perché «giù» non c'erano più figli.
Io di figli, ne feci due e in terra meneghina. Parlavano con l'accento che piaceva tanto ai meridionali, abituati a sputarsi sempre in faccia, ad ossigenarsi i capelli per sembrare baltici piuttosto che mediterranei e a parlar con quell'accento che li fa «eccezziunale veramente». Il mio concetto di Patria naufragò ma si salvò con la scialuppa di quei figli, nati nella terra di Carlo Borromeo. Quei due frugoletti erano carne e sangue della mia anima, nati in una terra che dicevano patria ma che aveva figli e figliastri. Ma i miei erano figli, non figliastri. La mia Patria si salvò dall'annegamento e cominciai a dar colpi di remo contro i pescecani che azzannavano i terroni sfaticati, ai quali veniva la voglia di lavorare nelle ferriere, dove si costruiva la fortuna dei Brambilla, appena arrivavano nel Nord pieno di nebbia e di smog.
Ora sento che Bossi vuole cacciare i ferrovieri, i postini, i tramvieri, gli insegnanti, i magistrati, gli operai, i carabinieri, i finanzieri, i poliziotti che non hanno sangue padano. Vuol tenersi bancari e banchieri. E allora aveva ragione Ambrogio: «L'è sempre la solita solfa». È sempre la solita storia. Se stiamo a chi deve avere e chi deve dare, i terun hanno da prendere. Con gli interessi e la rivalutazione monetaria. Dal 1861 ad oggi, da quando i Padri della Padania misero le mani sui forzieri ricolmi del Banco di Napoli e ci fecero cantare «Fratelli d'Italia» mentre fucilavano i cafoni a Bronte o a Scurcola in virtù della Legge Pica. 
Fanno un po' senso il cardinale Martini e l'eminenza Scalfaro quando soffiano nel trombone di Mameli. Non è così che si sana la situazione. Se si continuerà, come fa l'Amato craxiano, a dire che la mobilità (cioè l'emigrazione, con lo sradicamento culturale e fisico che crea disadattamento) è un valore anziché una tragedia; se si continuerà a far dormire i terroni nelle stanze di Somaschini; se si continuerà a rapinare il Sud come s'è fatto col Risorgimento, il fascismo («nord e sud non esistono») e l'anti-fascismo (Cassa del Mezzogiorno ecc.) qui tutto va a ramengo. Ma tutto, non una parte. E un buon contributo alla «cosa» viene dai terroni che sognano la Repubblica Lucana, la Repubblica Calabra, il Regno delle Due Sicilie.
Di quale colore saranno le camicie dei terroni sudisti? Bianche, come le camicie di forza. Aveva ragione Ambrogio: «L'è sempre la solita solfa».

Vito Errico

 

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