da "AURORA" n° 36 (Settembre 1996)

POLITICA

Consigli di Gestione nella «legge Morandi»
e art. 46 della Costituzione

 

Domenico Naso

«Il Comitato di gestione è la partecipazione alla vita dell'Azienda. Il Comitato di gestione deve arrivare a dare ai lavoratori una buona vita morale e materiale. Deve creare negli operai un attaccamento all'azienda dalla quale dipendono. Attaccamento, in quanto l'azienda dà i mezzi di sussistenza e di lavoro; poi vi sarà una partecipazione viva dei programmi e sviluppo».
Il filo rosso che unisce l'esperienza rivoluzionaria della Repubblica Sociale Italiana con il dopoguerra, sin alle soglie degli Anni '50, è tutto racchiuso in questa frase di Rodolfo Morandi, Ministro dell'Industria del II° governo De Gasperi. La socializzazione dei mezzi di produzione, che nei Consigli di gestione ha il proprio cardine, fu l'eredità che Mussolini, Tarchi e Bombacci lasciarono ai socialisti riformisti, nei quali, durante i primi governi successivi al 25 aprile '45, militò, appunto, il Morandi. Quest'ultimo, appartenente alla corrente anarco-libertaria del movimento socialista, ne fece il cavallo di battaglia negli anni che vanno dal '45 al '47, interpretando l'attività dei CdG come una conquista del movimento operaio. La battaglia per la «legalizzazione» di questi Consigli venne condotta sulla scorta dell'entusiasmo che caratterizzò operai e sindacalisti, nei mesi dal maggio all'ottobre del '45, quando, per via dell'assenza di imprenditori e managers, i Consigli di Gestione, nelle imprese già socializzate dalla RSI, furono determinanti nella conduzione dell'attività produttiva, in quei periodi di distruzione e confusione.
Spesso ad essi si affiancarono i «CLN aziendali», che trovavano nei CdG un valido supporto per la riorganizzazione della produzione sia mediando tra lavoratori ed azionisti che nel reperimento di materie prime e mezzi finanziari. Nei verbali di riunione dei Consigli aziendali della Provincia di Milano del 3 agosto 1945, si apprende che al CdG dell'Alfa Romeo, erano stati attribuiti, precipuamente, compiti di deliberazione nelle questioni inerenti la vita della Società, su quelle disciplinari, sulla redazione dei bilanci consuntivi e su materie quali quelle dell'assistenza e della previdenza. Ciò avveniva anche alla Fiat, alla Montecatini, alla Siemens ed alla Dalmine, solo per citare i complessi industriali più importanti. Attività questa, tollerata da Confindustria e partiti politici, quali DC e PCI, quest'ultimo resosi responsabile del boicottaggio che molti lavoratori effettuarono, dopo il «decreto Mussolini» del marzo '44, nella fasi iniziali della riforma per le aziende da socializzare.
Nel dopoguerra, pertanto, un ampio dibattito politico e giuridico-costituzionale si sviluppò intorno alla struttura socio-economica che il settore industriale doveva assumere e nel quale rientrava anche l'esatta collocazione dei CdG come organi d'impresa.
La caparbietà del Ministro Morandi, e del suo collega D'Aragona, Ministro del Lavoro, che portò la questione sul terreno governativo con la stesura di un progetto di legge, trovò la ferma opposizione di De Gasperi, dopo vari tentennamenti tattici. Alla fine del '47 (come vedremo in seguito) Alcide De Gasperi, politico navigato, aveva le idee molto chiare attorno alla ristrutturazione, in chiave capitalista, dell'economia italiana. In effetti durante il primo governo (1946), del quale quest'ultimo era sempre primo ministro, si era formalmente impegnato a dare adeguato riconoscimento alla rappresentatività delle categorie dei lavoratori, per una fattiva collaborazione fra i fattori della produzione. Il dibattito politico-giuridico prese avvio dalla richiesta, da parte delle sinistre, di prendere in forte considerazione, per l'economia futura, un reale e giuridico «controllo operaio». Mentre la DC intendeva il controllo operaio «come semplice partecipazione agli utili» che non andasse oltre «forme di azionariato operaio», comunisti e socialisti invece le conferivano una valenza più ampia ed incisiva difendendo le peculiarità dei CdG. Ciò, almeno in apparenza! Poiché i comunisti, o meglio, Palmiro Togliatti in prima persona, sin dalle prime sedute dell'Assemblea Costituente, mostrava disponibilità verso le pressanti richieste dei Socialisti e di alcune frange del PCI, ma, contemporaneamente, ammiccava con le caute posizioni dei moderati.
Il primo Presidente della Confindustria, Angelo Costa, inviò una lettera a De Gasperi, nella quale precisava che «I contrasti d'interessi fino a che rimangono nella sfera di competizione degli interessi di categoria, rappresentano una realtà storica, che i regimi totalitari si sono illusi di soffocare senza praticamente riuscirvi». Si trattava di un «no» preciso ed inequivocabile ad ogni intesa con i «social-comunisti» su possibili forme di «controllo operaio» nella vita delle aziende. E ciò a ben ragione! L'essenza delle dinamiche economiche, nel sistema capitalista, è conflittuale, pertanto la tendenza è quella di lasciare gravitare all'esterno dell'impresa le spinte antagoniste della classe lavoratrice, affrontandole sul piano politico-sociale, impedendo che queste alterassero i meccanismi efficientissimi, ed anodini, della produzione. D'altronde la realtà storica dei Comitati di Gestione non poteva essere negata, se, per calmare le pretese sindacali ed operaie si stipulò, alla Fiat, un accordo sui Comitati fin dal febbraio '46. «Accordo» che riconosceva un "Consiglio Consultivo Gestionale", non prescindendo dall'unità della direzione e dalla responsabilità del Consiglio d'Amministrazione, espressione esclusiva dell'assemblea degli azionisti. La CGIL unitaria stipulò di buon grado l'intesa, anche perché attribuiva al CdG solo competenza «consultiva», non convenendo, al sindacato unitario, un organo all'interno dell'impresa investito di capacità «deliberative», com'era avvenuto all'Alfa Romeo.
Di lì a poco si sarebbe inaugurato il periodo dell'accentramento verticistico per la stipula degli accordi sindacali, col conseguente ridimensionamento del movimentismo della base. L'accordo federale sul «blocco dei licenziamenti» del '46, garantiva il successo sindacale, con conseguente pacificazione della base e relativo accantonamento, da parte comunista, della questione concernente la formalizzazione dei CdG quali «organi deliberativi» (ne vedremo, tra breve, il riflesso che se ne ebbe sul dibattito costituente). Ma a rompere le uova nel paniere ci pensò il Morandi, che riaccese le speranze dei lavoratori che ancora credevano in un loro ruolo attivo nelle politiche aziendali. Speranze che venivano frustrate, con conseguente fine dello spontaneismo operaio. Da quel momento in poi i lavoratori si muoveranno solo sulla base di precise «parole d'ordine» dei sindacati, in una logica spesso aberrante di rapporti di forza, che non sempre rispondevano agli interessi propri delle maestranze produttive. Un riaccendersi del movimentismo di base lo si rivedrà solo nel '68 con i «delegati di fabbrica« e l'«autunno caldo».
L'iniziativa del Morandi muoveva da uno schema preciso «economia di piano - controllo operaio», ipotizzando una serie di strumenti istituzionali a questo schema connessi. Il «controllo operaio» si effettuava con la partecipazione dei lavoratori all'indirizzo generale dell'attività di impresa, all'analisi e all'approvazione dei bilanci, all'elaborazione di strategie comuni per settore industriale e fra settori a livello provinciale, regionale, fino al livello nazionale. Veri e propri Consigli deliberativi e propositivi, tant'è che a livello nazionale i CdG sarebbero stati dotati di competenze legislative (quelle che attualmente ha il pesante e macchinoso CNEL, il quale non ha mai concretizzato alcunché, garantendo solo lo stipendio a centinaia di burocrati e sindacalisti). Inoltre le attività dei Consigli sarebbero state determinanti per l'elaborazione del «piano economico nazionale», coordinandosi con il Ministero dell'Industria e del Lavoro. Quindi, veri e propri organi paritetici al Consiglio d'Amministrazione, per il quale il Morandi aveva in mente una riqualificazione, prospettando l'inserimento di rappresentanze operaie «elettive», all'interno di esso. In un articolo su "Risorgimento liberale" del dicembre '46, a firma «Erasmo» (sicuramente uno pseudonimo), sarcasticamente intitolato "Da Göering a Morandi", si faceva notare come il peso dei lavoratori, attraverso il CdG, fosse notevole «sull'azienda» e scarso «nell'azienda». L'articolista evidenziava l'eccessiva «politicizzazione» dei lavoratori. Per certi versi non aveva torto, se per «politicizzazione» s'intende l'inserimento dei lavoratori non solo nella vita e nella direzione dell'azienda, ma anche la loro capacità d'influenzare e gestire gli scopi ultimi dell'attività produttiva. È la figura del «lavoratore-cittadino» (impiegato, operaio o intellettuale che sia), attivo e responsabile a tutto vantaggio suo e della comunità nazionale nella quale è inserito, poiché corresponsabile del «destino» della comunità stessa unitamente ai governanti. È il totale ridimensionamento della figura, spesso parassitaria ed egoista, dell'azionista, al quale il capitalismo offre la possibilità di speculazioni azionario-borsistiche senza tener in conto i riflessi socio-economici spesso disastrosi. È il vivere in azienda divenendo consapevoli che si produce per soddisfare bisogni primari, per il «benessere» della comunità nazionale tutta. È l'abbandonare i vecchi arnesi della democrazia «formale» e rappresentativa che relega il «lavoratore-cittadino» nel ruolo passivo di «ricettore» dei messaggi politici tesi a creare consensi di massa, per ingrassare le vecchie cariatidi del potere partitocratico, quando s'avvicina il momento elettorale: momento che può avere valore qualora il lavoratore sia competente e lucido nel determinare i propri obiettivi e fare le proprie scelte, altrimenti le elezioni si riducono ad essere, come un «benemerito» sosteneva tempo addietro, «ludi cartacei».
Fu giusta l'osservazione di chi vide nel Morandi una ripresa, cara alla dirigenza riformista del sindacato tedesco, di «democrazia consiliare», sviluppata nella Repubblica di Weimar. In quel contesto fu grande l'opposizione del padronato e della destra, parimenti alla sinistra marxista di allora.
«Consiliare» sta per democrazia «diretta», non nel senso plebiscitario del termine bensì in quello di «qualificata» ed «organica». George Sorel ne "Le illusioni del progresso" sostiene che la cosiddetta «democrazia formale», ovvero «liberale», tende all'astrattezza ed alla generalità delle formule nascondendo, attraverso questa mistificazione, la rapacità con la quale la borghesia si appropria del potere politico-istituzionale. Per una vera Democrazia né il numero, né la rappresentanza, né le elezioni sono ad essere decisive, ma la «partecipazione». Più il potere politico viene «decentrato» e qualificato per competenze «precise», obiettive, appartenenti all'esperienza diretta di ogni cittadino, dal basso gradualmente salendo verso l'alto in una «pluralità che si fa unità», più esso rende partecipi la totalità dei cittadini alla gestione comunitaria degli interessi nella condivisione dei valori propri ad un popolo. Tra cittadini e loro dirigenti si crea un rapporto senza soluzione di continuità.
Forse il Morandi di un'ingenuità si è macchiato: quella di non percepire che il peso del sistema capitalistico, oggi più che mai fortemente finanziarizzato, determina il fallimento di qualsiasi sistema partecipazionistico. In questo fu ben più realista l'On. Pesenti, costituente comunista, il quale nella relazione presentata in IIIª Commissione, sosteneva che «il controllo operaio sulla produzione può avvenire soltanto con un sistema socialista». La riforma da affrontare avrebbe dovuto essere più ampia, andando a toccare l'istituto del «diritto di proprietà», come il dibattito scaturito tra le forze politiche costituenti, per la formulazione dell'art. 46 della Costituzione, dimostra chiaramente. Cosicché si può affermare che tale articolo fu più che altro un contentino e, nella sua «letteralità», un equivoco. (Tralasciamo volutamente, in questa sede, la tematica intorno ai rapporti tra CdG ed organismi sindacali in senso proprio, nel quadro della struttura generale dell'ordinamento sindacale, poiché tema ampio e delicato).
Dalla redazione finale del testo dell'art. 46, ci si può rendere conto di quanto era assente, nelle forze politiche costituenti, quella volontà di rendere effettivo il contenuto partecipazionistico dei CdG. Per un movimento politico che voglia condurre una battaglia sociale per la reintroduzione dei CdG, ispirandosi alla socializzazione dei mezzi di produzione, non sarà sufficiente una difesa ad oltranza di tale articolo; la lotta deve riguardare non solo l'obiettivo di contrastare una sua possibile abrogazione, ma anche di un'incisiva modifica dello stesso, in quanto così com'è formulato esso non vuol dire nulla. È un falso mito! Ciò lo si intravede essenzialmente nel termine «collaborare»: chiara attenuazione letterale del termine «partecipare». Inoltre il Costituente, invece di rimandare al legislatore ordinario una successiva definizione della collaborazione «in armonia con le esigenze della produzione» (testuale), da subito, e senza porre tempo in mezzo, avrebbe dovuto specificare i contenuti di tale partecipazione, quali, ad esempio, «alla direzione» ovvero «alla amministrazione della azienda». «Collaborazione alla gestione» (testuale) è una formula di compromesso che nulla significa in termini di visione socializzata delle imprese. Da un'altra ottica si può sempre affermare -parafrasando Hobbes- come sia meglio una garanzia costituzionale mediocre, che nessuna del tutto; ed in ciò sono anch'io d'accordo, ma è bene non farsi eccessive illusioni.
È sorprendente rilevare come proprio i Costituenti di parte comunista siano stati i più attivi nel gioco delle ambiguità e dei compromessi. Se il prima istanza, nella IIIª Commissione, il loro testo si appaiava allo schema «pieno controllo operaio» delineato dal Morandi nel testo di legge sui CdG, dopo un paio di settimane, nel corso di dibattiti estenuanti, nella sottocommissione incaricata di elaborare il testo dell'art. 46 della Costituzione, la Costituente Teresa Noce di parte comunista, presentava un altro tipo di relazione in merito al riconoscimento giuridico del CdG. Quest'ultimo, per la Noce, doveva restare distinto dal Consiglio d'Amministrazione degli azionisti che rappresentava il capitale. Gli operai non avrebbero dovuto rendersi responsabili di fronte ai loro compagni delle decisioni adottate in questa sede. Un Consiglio senza compiti di gestione si ravvisava più opportuno; che collaborasse con i datori di lavoro senza assumere responsabilità di alcun genere. In un'ottica anticapitalista ciò ha un fondamento.
La domanda che però sorge spontanea è: perché il gruppo comunista, con in testa Palmiro Togliatti, durante i vari dibattiti in Iª e IIIª Commissione, invece di appoggiare l'On. Pesenti, anch'egli comunista, ed il gruppo socialista sul contenuto da dare al concetto di «proprietà privata», non organizzò un fronte compatto contro le forze della Destra e della Sinistra azionista? Egli si limitò, per così dire, a fare «melina», tirandosi indietro e sconcertando i suoi colleghi. Quando l'On. Lombardi, del gruppo socialista, propose una revisione al «diritto di proprietà», così come veniva formulato dai cattolici Fanfani e Gronchi, sostenendo che esso doveva venir riconosciuto «solo a conduttori e lavoratori diretti o di cooperative», Togliatti ironizzava, sostenendo di rinvenire in ciò «un lontano spirito socialista» e osservando che «si sta scrivendo una Costituzione che non è una Costituzione socialista, ma è una Costituzione corrispondente ad un periodo transitorio di lotta». Periodo transitorio che i comunisti hanno prolungato per mezzo secolo, nel clima di «guerra fredda», con una indecente dipendenza dall'imperialismo sovietico.
La carta dei CdG si sarebbe dovuta giocare allora, senza perdere il momento propizio. Nel testo definitivo degli art. 41 e 42 della Costituzione, il «diritto di proprietà», per opera della Destra cattolica e dei liberali, venne reso assoluto, inviolabile, quasi «ontologicamente» concepito. Fondamentalmente ciò ha precluso la strada ad una diversa stesura dell'art. 46, che attualmente ha valore di «dichiarazione di principio». Tant'è vero che la discussione su tale articolo, più che in Commissione, si svolse di fronte al caminetto della stanza dell'On. Meuccio Ruini. Si inaugurava così la prassi dei negoziati informali nelle oscure stanze di Montecitorio, «tra amici». D'altro canto neanche le idee cattoliche, con la proposta Fanfani, passarono completamente. Fanfani era un fanatico del neo-volontarismo americano degli Anni '30, estimatore del cosiddetto «liberal corporatism», traducibile in «tecnocrazia liberal-corporativa». Fu dal nazionalismo borghese della destra fascista che Fanfani ereditò proprio questa idea delle Corporazioni tecniche, come organismi che, attraverso consigli regionali e nazionali, gestivano, appunto, tecnicamente i problemi relativi al lavoro e alla produzione; in più era favorevole ad una possibile «partecipazione agli utili» degli operai. I cattolici nel «Ventennio» fascista non contrastavano i fascisti sulle teorie corporative e neppure per le cruente repressioni del sindacalismo autonomo di sinistra. Anzi, erano strenui fautori della visione dei rapporti economico-sindacali con struttura pubblica ed unitaria di un sindacato nazionale. È una menzogna sostenere il contrario! Loro però ne facevano una dottrina della «società», mentre i fascisti una dottrina dello «Stato».
In effetti questo complesso di idee «corporative» venne in toto riproposto da Fanfani a da De Gasperi in Iª Commissione. È il mito, al quale i cattolici hanno fatto spesso riferimento sulla scorta della Dottrina Sociale della Chiesa, dei produttori che, associandosi, autoregolavano i loro bisogni, lo Stato fungendo solo da copertura in caso di bisogno (ovverosia quando si tratta di scaricare sulla comunità i costi di gestione aziendale che non tornano).
Assolutizzazione del «diritto di proprietà» che viene «prima ed ante omnia» di ogni possibili organizzazione statuale. Lo Stato viene svilito a mero organizzatore di interessi. Il cittadino viene ridotto a soggetto passivo e, per via del solidarismo cristiano, ad oggetto di commiserazione ed assistenza. Questo perché la Corporazione, in senso fanfaniano, è fondamentalmente un apparato oligarchico gestito dai capitalisti, i famosi «produttori», che tutelano i loro interessi in un quadro di auto-regolamentazione del mercato, lo Stato intervenendo solo come mediatore tra le parti.
Visione materializzata dello Stato, funzionale agli interessi del capitale così come lo è la concezione liberal-statalista dei liberali conservatori. Tutti i cinquant'anni di Repubblica Italiana hanno sofferto per i danni prodotti da queste concezioni, con costi elevatissimi. I correttivi, a questa visione liberale e liberista, furono interpretati nel senso di garantire alla proprietà privata una «funzione sociale» e che «l'iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale». Sono sempre espressioni garantiste che funzionano come «limite esterno» alla proprietà che, per sua intrinseca natura, può espandersi all'infinito. L'«utilità sociale», ad esempio, può essere funzionale al mito del "Mercato autonomo" dell'anarco-capitalismo. Oggigiorno non si afferma da più parti, da parte dei guru della mondializzazione, che il miglior mezzo di sviluppo sociale ed economico sta proprio nella liberalizzazione e nella privatizzazione completa dei beni pubblici in quanto il mercato si autoregolerebbe così essendovi più «utile» per l'intera società?
Emilio Sereni al I° Convegno nazionale dei Consigli di Gestione, nell'ottobre '46, ammoniva a non confondere l'attuazione dei Consigli di Gestione in sistemi a struttura economica socialista, con il piano di controlli e di programmazione pubblica dell'attività economica in un sistema capitalista. Nell'ottobre '47, ad un anno di distanza, si verificò lo «sblocco dei licenziamenti», col il demandare alle neo-costituite «Commissioni Interne» delle aziende, le procedure individuali e collettive del licenziamento stesso. (Come affidare ad un insetto la risoluzione di un progetto edile per la costruzione di un grattacielo). Furono i prodromi della rottura dell'unità sindacale, avvenuta poco tempo dopo. Le Sinistre rumoreggiarono ed in esse tornò a farsi vivo, in special modo nelle file comuniste, l'interesse per una rapida soluzione positiva per i CdG. Ma era troppo tardi! Alcide De Gasperi, nella seduta dell'Assemblea Costituente del 30 ottobre 47, chiuse l'incresciosa diatriba sostenendo che «esiste un accordo tra i lavoratori e gli industriali per la procedura da seguire in caso di necessità di sblocchi e poiché quest'organo è rappresentato dalle Commissioni Interne, io non ravviso l'esigenza immediata dei Consigli di Gestione, i quali, del resto, investono un problema di maggiore ampiezza: essi riguardano la produzione in genere».
Quanto basta! Era ciò che in quest'articolo volevo dimostrare.

Domenico Naso

Bibliografia

"Diritto del Lavoro", Utet, Tiziano Treu, R. De Luca Tamajo, 3ª ed. Torino
"Sindacato e Istituzione nel dopoguerra", Piero Craveri, Il Mulino, Bologna
"Il neo-volontariato economico statunitense", Amintore Fanfani, Milano, Messina 1946
"Democrazia il problema", A. De Benoist, Arnaud ed., 1985
"Democrazia diretta e ricostruzione capitalistica", Rodolfo Morandi, Torino 1960

 

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