da "AURORA" n° 37 (Ottobre - Dicembre 1996)

APPROFONDIMENTO

Alle origini della «partecipazione»

Giovanni Mariani

Qualora si intenda considerare la «partecipazione» l'ubi consistam di questo periodico e della Sinistra Nazionale è necessario ribadire l'incompatibilità politica con qualsiasi movimento e partito che non abbia in essa il suo fulcro ispiratore. Ciò non solo per quanto concerne il presente quadro politico-sociale, ma anche relativamente al passato prossimo e remoto. Tale affermazione non è tesa a manicheisticamente separare in due il mondo, tra partecipazionisti e non, ma a sottolineare inequivocabilmente la nostra visione del mondo.

Quindi la storia stessa delle dottrine economiche e politiche non può essere analizzata non tenendo conto del nostro particolare punto di vista nel quale la centralità del «principio partecipativo» marginalizza episodi e vicende, opinioni generiche e circostanziate, impulsi emotivi e formalismi ad esso non attinenti.

Scrutare nel passato non è, in quest'ottica, solo esercizio culturale, di per sé importantissimo, ma altresì tentativo di rinvenire e rinverdire, ciò che della storia dell'uomo è stato sottovalutato, o volutamente ignorato, per la sua non attinenza a «valori», veri o presunti, che supportano i «modelli di sviluppo» sociali e politici che contingentemente si affermano nel Pianeta.

Nella Roma repubblicana che, a nostro giudizio, è stato uno dei più concreti esempi di Partecipazione all'interno della tradizione latina che, pur con tanti limiti e resistenze, rimase un dato importante fino ai primi decenni dell'Impero. Ed è giusto sottolineare come già nella Roma monarchica fosse presente una sensibilità «sociale» che la rendeva nettamente diversa dalle democrazie dispotiche del vicino Oriente. Il Re era infatti sottoposto al controllo di un'assemblea di cittadini (Senato) col precipuo obiettivo di impedire che su un solo uomo si concentrassero troppi poteri, trasformandolo in un tiranno. Scrive Tito Livio, in merito al passaggio dalla fase regia a quella repubblicana causata nel 509 a. C. dalla rivolta popolare contro il potere monarchico: «Non possiamo più oltre sopportare violenze né tollerare la superbia del Re, né le tristi condizioni in cui ha ridotto la plebe, costretta a scavare fosse e cloache, e a tagliare pietre ...».

Quanto sopra, ci pare, nulla ha da spartire con sedicenti suggestioni tradizionaliste caratterizzate da dispotismo, dogmatismo e privilegi di casta. L'evento della Repubblica nell'Urbe coincide con l'affermarsi di un nuovo tipo di Stato promotore di riforme civili e sociali tra le quali ricordiamo:

a) l'uguaglianza dei diritti tra cittadini;

b) l'unificazione della Penisola italica;

e) l'abolizione del divieto dell'unione matrimoniale tra patrizi e plebei;

d) le leggi sui debiti e sulle terre pubbliche;

e) l'istituzione dei Tribuni della Plebe.

Quest'ultima riforma aveva un carattere fortemente rivoluzionario. Essa, in effetti, sanciva il diritto della Plebe ad essere rappresentata da magistrati particolari, detti appunto "Tribuni della Plebe", i quali, oltreché essere parte integrante del governo della città, avevano il preciso compito di proteggere i diritti dei cittadini non abbienti dalla prevaricazione dei potentati economici e fondiari. Ma la partecipazione dei Cittadini alla «res pubblica» si andò progressivamente dilatando nel IV secolo allorché i cittadini di origine plebea furono abilitati a partecipare alle assemblee pubbliche e fu loro concesso il diritto di ricoprire le più alte cariche dello Stato. Nel favorevole clima seguito a queste riforme si inquadrano le riforme «socialisteggianti» dei fratelli Gracchi (che pagarono con la vita) e quelle timide, talvolta contraddittorie, del loro continuatore Caio Mario.

La guerra civile del I secolo a. C., scaturita nel contesto di una repubblica ormai in fase di decadenza che andava progressivamente assumendo connotati oligarchici, riflette lo scontro di interessi tra gruppi economici antagonisti: da una parte i «popolari», sostenitori di un'ampia riforma sociale e partecipativa, dall'altra gli «aristocratici», che sarebbe più opportuno definire «plutocratici», i quali rappresentavano gli interessi dei grandi capitalisti.

Giulio Cesare, utilizzando metodi dittatoriali, cercò di attuare gran parte di quelle riforme sociali teorizzate dai fratelli Gracchi (maggiore giustizia sociale e partecipazione del popolo alla vita politica); basti qui ricordare la riforma amministrativa in base alla quale i Magistrati della città venivano eletti dai residenti. E se la reazione di Silla inficiò grandemente il «riformismo» sociale e partecipativo della agonizzante Repubblica, riformando la Costituzione ed esautorando il potere delle Assemblee e dei Tribuni della Plebe, i pugnali di Bruto e Cassio lo eliminarono completamente. La discutibile dittatura di Cesare Augusto tentò, in vario modo, di riattualizzare i princìpi riformatori del IV secolo a. C. dando vita ad ordinamenti giuridici tesi ad offrire a tutti i cittadini le stesse garanzie ed opportunità politiche e sociali. Ma la nascita dell'Impero, pur con tutti i suoi innegabile meriti, finì con lo spianare la strada alle suggestioni tiranniche e teocratiche orientali di cui interpreti degni furono Caligola, Nerone, Domiziano, Eliogabalo, Commodo, Massimino il Trace, ed alla scomparsa di ogni residuo partecipativo.

La caduta dell'Impero nel 476 d.C. e l'avvento del Medioevo cancella ogni traccia di riformismo sociale. Al di la di certe malsane suggestioni barbariche che pervadono ambienti da noi sideralmente lontani, va detto che nei primi secoli dell'Età di Mezzo ritornano in auge sistemi politici dispotici, rigidamente gerarchizzati, nei quali le oligarchie verticistiche nulla hanno da condividere con la solare ed armonica organizzazione della società latina. Non possiamo quindi esimerci dall'individuare nell'Editto di Rotari, che riporta le lancette dell'orologio della civiltà indietro di qualche millennio, un momento tragico della storia umana, ne possiamo nutrire particolare ammirazione per le spietate repressioni poste in essere nei riguardi dei contadini più riottosi, come nel caso degli efferati massacri perpetrati da Riccardo «il buono» in Normandia, né giustificare m alcun modo il sistema economico incardinato nella «servitù della gleba», che di fatto rappresenta l'apice dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Un sistema che, pur avendo le sue radici nelle discutibili «riforme di Diocleziano» viene applicato in modo, se possibile, più crudele e malvagio.

Non è possibile trattare in queste pagine, analiticamente, queste vicende storiche; bastano, a nostro avviso, per giustamente definirle le equilibrate parole di Augusto Lezier: «Il sistema feudale, pur essendo accompagnato da violenze ed abusi rappresenta tuttavia in una società che rischiava di esser preda dell'anarchia, un principio di ordine e di ricostruzione sociale, ma certo è che non si possono eleggere questi secoli ad esempio immortale di civiltà».

Storicamente, riforme partecipative, anche se in forma embrionale, avvengono solo dopo la cosiddetta «rivoluzione agraria», quindi tra il X e il XIII sec. Rivoluzione che se da una parte introdusse vantaggiose innovazioni tecnologiche (basti pensare ai mulini a vento, alla rotazione delle culture, all'erpice, all'aratro in ferro), dall'altra sancisce un netto miglioramento delle condizioni sociali dei contadini che erano la stragrande maggioranza della popolazione. Questi miglioramenti, è bene ricordarlo, non furono determinati dall'accresciuta coscienza sociale delle classi dominanti, come qualche storico sostiene, quanto piuttosto il frutto di un diverso rapporto di produzione fra dominati e dominanti. Ossia quando i signori feudali spinti dalla necessità di estendere le terre coltivate (dopo le invasioni e le scorrerie barbariche dei secoli precedenti) in seguito al dilatarsi della popolazione ed alle mutate condizioni di vita delle loro corti. I contadini furono incentivati attraverso la concessione di quote più consistenti di prodotti o con la riduzione delle corvee.

Ma del Medioevo è comunque indispensabile tenere conto dell'esperienza comunale che, di per sé, rappresenta un fatto rivoluzionario.

In un mondo in cui i rapporti economici e politici erano di rigida sudditanza verso una autorità affermatasi con la violenza e la repressione, improvvisamente lo status quo viene infranto da nuove forme di potere legittimate dal basso. Si afferma un nuovo soggetto politico che trae dal lavoro la propria linfa e ai cui vertici non assurgono, come in precedenza, solo uomini d'arma ma anche commercianti ed artigiani. Un mondo che si fondava sulla più marcata disuguaglianza e su una lunga catena di giuramenti di fedeltà viene improvvisamente messo in discussione da gruppi sociali che pretendono pari diritti e pari doveri e che non riconoscono nessuna legittimità di rapporti economici in vigore da secoli. Un fulmine che spezza la quiete (stabilita e mantenuta con metodi di particolare ferocia) e che frantuma i cardini sui quali si fondava la società feudale; la diseguaglianza, la dipendenza dalla gerarchia di sangue, la rigidità della stratificazione economica tra sfruttatori e sfruttati.

Le prime vere riforme si concretizzano con la "Magna Charta" nel 1215 allorquando nobili e borghesi impongono ben precisi limiti al potere dei sovrani, ma è con l'avvento dei «Comuni» che nasce l'embrione della democrazia moderna. Per la prima volta il popolo rompe i vincoli di dipendenza che lo manteneva soggetto al potere dei signori e pretende di governarsi da sé, organizzandosi in Assemblee che discutono e legiferano liberamente senza alcun vincolo che non sia la volontà della maggioranza dei singoli cittadini. In sintesi il Potere, l'Autorità anziché discendere dall'alto, sale dal basso; i Comuni scelgono autonomamente i propri giudici e magistrati senza più sottostare alle imposizione delle oligarchie.

I più autorevoli personaggi del meccanismo comunale erano i Consoli che erano la suprema autorità del Comune e che rimanevano in carica per non più di un anno al fine di impedire il concentramento del potere per un lungo periodo nelle mani di un solo uomo. Nel XII sec. i Giudici sono sostituiti dai Podestà e più oltre, tra il XII e il XV sec. le assemblee popolali conferirono il potere a gruppi di cittadini detti Priori, scelti tra i mercanti, i professionisti, gli artigiani e naturalmente anche tra i nobili. Tale fase rappresenta la piena affermazione della cosiddetta «borghesia».

È comunque evidente che l'organizzazione comunale mantiene, al proprio interno alcuni discrimini. Ad esempio, i diritti politici; partecipazione al governo, cariche pubbliche e diritto di voto, sono esercitati solo da una parte della popolazione, senza contare che nella città medioevale i gruppi di pressione che finiscono col prevalere sono gli arbitri reali del potere dal quale vengono escluse le fazioni perdenti. I contrasti tra i gruppi in lotta per il potere politico sono cosa nota; essi riflettono l'antagonismo e la competizione tra ceti prevalenti: la piccola nobiltà cittadina, il popolo grasso (la ricca borghesia) e il popolo minuto (piccoli artigiani, bottegai). Da rimarcare la circostanza che i ceti meno abbienti rimangono comunque esclusi ed emarginati da qualsiasi competizione per il potere.

Comunque va detto che l'organizzazione politica dell'età comunale ha largamente condizionato, sia sotto l'aspetto pratico che dal punto di vista teorico, le esperienze seguenti. L'esempio più lampante di questa «contaminazione democratica» lo si riscontra in Marsilio Mainardini (1278-1342) detto "da Padova". Il Marsilio individua quale base fondamentale dell'emancipazione comunitaria la Cooperazione, la sola forma economica che può permettere di giungere alla autosufficienza degli aggregati umani. In quest'ottica egli intravede nell'estensione della sovranità popolare un pungolo al migliorarsi del singolo individuo ed una susseguente possibilità di migliorare la gestione della res pubblica. Applicando il criterio secondo cui «ciò che riguarda tutti deve essere approvato da tutti», in sintonia con il Mainardini troviamo Bartolo di Sassofferato (1314-1357), che arriva a definire princìpi simili a quelli espressi dal Marsilio e più precisamente la centralità della volontà popolare quale fondamento reale di qualsivoglia diritto. In sintesi è la volontà del popolo ad esprimere la giustizia, quindi è il riconoscimento da parte del popolo ciò sul quale si fondano le leggi. Entrambi contribuiscono allo strappo definitivo dalla precedente concezione medioevale della sovranità ed affermano la supremazia della volontà popolare: «il popolo libero non è soggetto ad alcuno».

Interessante inoltre evidenziare la concezione del diritto delle genti alla base della teorizzazione dei due pensatori: «L'esistenza dei popoli proviene dal diritto delle genti e perciò il governo del popolo si basa sul diritto delle genti; esso non può sussistere senza leggi e statuti, quindi per il fatto stesso di esistere un popolo ha un suo regime ...».

Anche se in misura più marginale anche il Ferruccio Salutati non può non essere annoverato tra coloro che a cavallo tra il XIII e XIV sec. contribuirono al superamento dell'organizzazione medioevale. Questi, infatti, sostiene che l'origine del potere è nella maggioranza e che comunque esso nasce e deve essere legittimato e controllato dal basso e teorizza il diritto di resistenza, sostenendo che anche un privato cittadino, oltre al popolo, possa resistere al tiranno reagendo tra l'altro con le anni e col sangue. Su questa linea si attesta Tommaso Campanella che, ad esempio, esalta nelle sue poesie filosofiche il principio elettivo adottato in Polonia (anche se a ragione di siffatto ordinamento privo di un potere centrale forte la Polonia si rese estremamente vulnerabile alle aggressioni straniere). Nella "Città del Sole" si prospetta una sorta di pre-comunismo scaturito dall'idealizzazione di un ordinamento politico in cui le genti si risolsero di vivere alla filosofica in commune...

Nella concezione repubblicana di Campanella coesistono autarchia e democrazia in quanto il capo supremo dello Stato è eletto mediante il suffragio, mentre tutti gli altri magistrati vengono da esso nominati. In un passo dei suoi aforismi politici, il Filosofo calabrese, sgombra il campo da ogni dubbio sulla sua vocazione partecipazionista: «La legge è un consenso della ragione commune di tutti, scritto e promulgato per il bene commune e conformato alla ragione eterna».

Pur con tutte le cautele, non è possibile escludere il Rousseau da questa carrellata storica. Come è ben noto il filosofo francese sosteneva che ogni individuo dovrebbe cedere i propri diritti sovrani alla collettività a patto, però, di potere, in seguito, partecipare alla «volontà generale», ossia alla gestione attiva dello Stato. Egli preconizza chiaramente l'evento della democrazia diretta, nella quale il potere legislativo appartiene all'intero corpo sociale al quale è riservato il delicato compito della designazione degli incarichi. Tale posizione è chiaramente espressa in una sua critica alla Costituzione inglese nella quale sostiene che gli inglesi giudicano sé stessi uomini liberi quando, invece, non lo sono o meglio: lo sono solo una volta ogni sette anni, ossia quando sono chiamati alle urne. È giusto qui ricordare, per completezza d'informazione, che lo stesso Rousseau, in un passo de "Il contratto sociale", mette in discussione l'esistenza stessa della democrazia in quanto essa sarebbe in contrasto con l'ordine naturale delle cose... In sintesi nell'opera del Rousseau si possono rintracciare sia elementi di democrazia diretta quanto di anti-parlamentarismo.

Vicini al Rousseau, in termini temporali, troviamo gli antesignani del comunismo modernamente inteso, ovvero Morelly, l'Abate Mably, Brissot de Warville e naturalmente Caio Gracco Babeauf. Comunque attorno a questi pensatori rivoluzionari poco si agita di partecipativo, in quanto essi si limitano ad individuare nelle lotte contro la proprietà privata il punto cardine del riscatto umano.

L'associazionismo partecipativo si sviluppa appieno nel XIX sec., allorché pensatori come Louis Blanc iniziarono a sostenere la tesi che lo Stato doveva favorire la creazione di enti economici autonomi gestiti dagli stessi lavoratori mediante l'elezione di propri dirigenti. Il Filosofo francese non mirava, come Marx e Blanqui ad abbattere lo Stato ma, sulle orme di Leroux che indicava nella più equa ridistribuzione della ricchezza un'altemativa allo sfruttamento capitalistico, enunciava un triplice criterio di intervento: quantità di lavoro di ogni individuo, qualità del lavoro stesso e bisogni del lavoratore. In sintesi i cardini del pensiero di Blanc che preconizza nella fase finale del processo rivoluzionario la creazione di «una repubblica sociale», erano l'associazionismo e il diritto al lavoro.

Tra i socialisti non marxisti va ricordato Ferdinand Lassalle che ha grandemente contribuito alla teorizzazione del partecipazionismo economico-politico. L'idea centrale sul quale ruota il pensiero di Lassalle era che la classe operaia tedesca dovesse organizzarsi su base nazionale al fine di rivendicare il suffragio universale. Egli sosteneva che il diritto di voto allargato alla classe operaia avrebbe aperto la possibilità di trasformare lo Stato in un organo a disposizione di tutti. In teoria tra Lassalle e Blanc vi è molta vicinanza di idee; entrambi sostennero, infatti, la necessità che i lavoratori costringessero lo Stato a creare «fabbriche nazionali» non gestite dallo Stato stesso ma da autonome «corporazioni operaie» integrate in un sistema economico a larga partecipazione gestionale.

L'associazionismo di Blanc, di Leroux e di Lassalle è la risultante di intuizioni in precedenza espresse da pensatori del calibro di Owen e Fourier.

In Italia uno degli alfieri del partecipazionismo fu Giuseppe Mazzini, anche se a differenza di Lassalle e Blanc egli non militava nel movimento socialista. Mentre il francese ed il tedesco concepivano l'associazionismo come un mezzo per organizzare la classe operaia e metterla in grado di attuare il compito riservatole dalla storia, nel pensiero di Mazzini il concetto di associazione risultava indissolubilmente legato a quello di nazione: all'unità nazionale veniva conferita una centralità che travalicava le divergenze di classe. Inoltre lo Stato di Lassalle e Blanc era lontano dalla concezione dello Stato repubblicano vagheggiato dal Mazzini nel quale il potere era gestito dai rappresentanti delle cooperative operaie.

Ma è nell'opera di un socialista mazziniano, il Gentilini, che meglio sono espressi, contemporaneamente concetti di associazionismo e anti-parlamentarismo. Infatti egli sostiene che il Parlamento «fonte suprema di burocrazia non rappresenta in nulla il popolo» e dietro i parlamentari egli intravede comunque «l'ombra dei banchieri e dei pochi individui ricchi che speculano con usura sui patrimoni mediocri e sulle spalle del povero». A detta del Gentilini, infatti, la nazionalizzazione delle banche, dei trasporti e delle assicurazioni era una necessità reale per ogni popolo il quale doveva capire che «la cupidigia dell'industria privata guasta, sconcia e reca danno ad ogni cosa a cui pone mano». Inoltre egli propugnava un vero e proprio collettivismo agrario in quanto la proprietà territoriale doveva essere proprietà di tutti e quindi della nazione. La lotta condotta dal socialista mazziniano è essenzialmente una: quella condotta contro quello che egli definiva il feudalesimo del denaro. Ed è interessante notare come questo non molto conosciuto socialista ottocentesco abbia penetrato a fondo i meccanismi della speculazione finanziaria in tempi così remoti tanto da definire il liberismo «flagello della presente età». Nella sostanza per il Gentilini il parlamentarismo era una truffa ai danni del popolo che di fatto veniva escluso dalla gestione del potere e al quale veniva inibito il naturale bisogno di partecipazione. Quindi il parlamentarismo non solo avversato in quanto negazione di ogni partecipazionismo ma anche in quanto identificato come longa manus del liberismo. E interessante notare che questi temi furono fatti propri, di li a qualche anno, da Sorel e dal sindacalismo rivoluzionario.

Sorel, al quale la sinistra non ha mai prestato eccessiva attenzione in ragione delle sue scomode tesi contrastanti con i princìpi del materialismo storico, attaccò violentemente il socialismo riformista che sfruttava fraudolentamente i voti del proletariato per conquistare seggi in Parlamento per poi «addormentare le classi popolari ed assopirne la lotta contro la borghesia così prolungandone il dominio». La lotta dunque non andava condotta nelle aule parlamentari, ma al contrario il proletariato doveva organizzarsi nei sindacati di classe al fine di muovere guerra contro i detentori del potere. Una volta distrutto il potere borghese, il nuovo sistema doveva incardinarsi nella partecipazione popolare mediata dalle organizzazioni sindacali nel contesto di una organizzazione dello Stato collettivista.

In ambito socialista bisogna attendere il '18, dopo la lunga esperienza sindacalista rivoluzionaria iniziata nei primi anni del Novecento (legata e supportata dalla teorizzazione, soreliana) per trovare, in un ordine del giorno di un congresso del Partito Socialista Italiano titolato "Intransigenza e collaborazione", un accenno chiaro alla Coogestione: «Il suffragio universale eguale alla sempre crescente partecipazione della rappresentanza proletaria nella gestione delle industrie». Peccato che tale ordine del giorno, non trovando spazio nelle pagine di "Critica Sociale" non sarà mai discusso in alcuna sede. Anzi, sorge il sospetto che questi concetti siano stati affastellati in fretta e furia sotto l'incalzare degli avvenimenti russi e in particolare si cercasse, in qualche modo, di adeguare le rivendicazioni del PS ai crescenti successi dei bolscevichi che tanto entusiasmo, e tante attese, avevano suscitato tra le masse italiane. Del resto le ragioni del non luogo a procedere, su quell'ordine del giorno, sono fin troppo ovvie. Infatti, se da una parte la mozione poneva l'accento su rivendicazioni autenticamente rivoluzionarie, quali erano la collettivizzazione dei mezzi di produzione e l'eguaglianza civile ed economica (in una parola la cogestione delle risorse nazionali), dall'altra funambolisticamente ribadiva che «il socialismo non si attua per improvvisi moti di violenza popolare, ma per conquiste graduali e progressive». Era già la politica del doppio binario che sarebbe di li a breve degenerata nella scissione di Livorno.

Nello stesso 1918 troviamo un accenno alla partecipazione nella mozione politica generale approvata dall'Assemblea dell'USI (Unione dei Socialisti Italiani), una corrente patriottica ed idealistica di tendenza mazziniana molto vicina alle idee di Carlo Pisacane che, purtroppo, non ebbe vita lunga: «ritiene perciò necessario al rinnovamento della vita italiana la radicale trasformazione degli attuali sistemi rappresentativi e dell'organismo statale, sulla base concreta degli interessi delle forze produttive organizzate della nazione».

Il dopo è a tutti noto: i Fasci di Combattimento, la parentesi del Ventennio, l'esperienza socialista nazionale della RSI, i velleitari tentativi di plagio resistenziali per giungere fino all'affossamento dei Consigli di Gestione del primo dopoguerra ed all'enunciazione (rimasta lettera morta) contenuta negli art. 46, 47 e 99 della Carta Costituzionale.

Avverto con lucidità che la storia del partecipazionismo fin qui trattata non può risultare del tutto esaustiva e per certi versi può ricordare un coacervo mal coordinato di personaggi e periodi spesso lontani ed in contrasto fra loro. Comunque un denominatore comune che li contraddistingue esiste: la partecipazione.

I personaggi in questione hanno avvertito, nell'epoca in cui sono vissuti, l'esigenza di un maggiore coinvolgimento di tutti i cittadini nella gestione quotidiana della loro esistenza sia sotto il profilo economico sia sotto quello politico. Ognuno ha trattato l'argomento in modo più o meno completo e più o meno competente e sicuramente molti di coloro che hanno avvertito il disagio della civiltà mercantile sono rimasti sconosciuti.

In ogni caso questi concetti hanno avuto lungo i secoli innumerevoli «Testimoni», che non hanno arretrato nemmeno sotto l'incalzare di elementi avversi. Concetti, è bene ribadirlo, profondamente democratici, ma ben distanti da ciò che oggi si intende per democrazia che, a ragione, potremmo definire imperfetta, oligarchica ed esclusiva.

A suffragare questa nostra tesi basti osservare come essa si faccia beffe dei presupposti basilari della delega e della rappresentanza sulla quale si fonda. Una democrazia che non coinvolge, non unifica i popoli, anzi al contrario li divide, schierandoli gli uni contro gli altri in una spaventosa lotta tra sfruttatori e sfruttati che giornalmente immola migliaia di esseri umani.

Una democrazia finta che è solo la grottesca imitazione della democrazia vera.

 

Giovanni Mariani

 

 

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