da "AURORA" n° 37 (Ottobre - Dicembre 1996)

EDITORIALE

 

Europa... o cara

A. De Ambris

 

Non si può certo dire che il governo di centrosinistra non abbia dato, in questi sei mesi di vita, inequivocabile prova di europeismo. A Romano Prodi è toccato in sorte d'accelerare un risanamento finanziario raschiando il fondo di un barile ormai prosciugato dagli annuali salassi ai quali, nell'ultimo lustro, sono stati sottoposti i contribuenti italiani.

Pur essendo da sempre fortemente critici verso gli accordi di Maastricht, ci rendiamo perfettamente conto che la strada da percorrere è ormai obbligata. Non solo perché sarebbe sommamente stupido l'avere affrontato un lustro di sacrifici per poi arrendersi in dirittura d'arrivo, ma anche perché si ha il fondato timore che il conto da pagare, in caso di esclusione dell'Italia dal sistema a moneta unica, sarebbe pesantissimo, e non solo in termini economici.

Non è irrilevante, infatti, che la Lega Nord abbia teorizzato la necessità di due monete, e di conseguenza di due Italie, partendo dall'assunto che la nazione così com'è, con la palla al piede dell'«economia assistita del Sud», non sarebbe mai entrata in Europa. E se le «sparate» di Bossi possono anche lasciare indifferenti, ben altra attenzione merita il rapporto di interdipendenza tra l'economia nord-europea e quella del nord-Italia. Rapporto che non può essere attenuato senza pericolosi contraccolpi per la stessa unità nazionale.

D'altro canto i nostri conti erano tali che saremmo stati costretti comunque, prima o poi, a metterci mano; il che non avrebbe comportato sacrifici inferiori a quelli a cui in questi anni siamo andati incontro.

Di questo non sembra essersi resa conto l'opposizione di destra, la cui reazione ci pare sproporzionata all'entità dei sacrifici che la manovra finanziaria e la cosiddetta «tassa per l'Europa» comportano. Comprensibile, a nostro avviso, la mobilitazione della «piazza» e la polemica tesa a monetizzare il malcontento dei ceti sociali maggiormente colpiti, ma non trova giustificazioni né l'esasperazione dei toni sulla «spoliazione del ceto medio», né l'abbandono delle aule parlamentari.

Il cosiddetto «ceto medio», poi, è da tempo una nebulosa della quale è arduo disegnare i contorni. «Ceto medio», a prendere per buone le indicazioni di Berlusconi, sarebbero «i quattro milioni di partite I.V.A.» sulle quali, in tempi di miglior fortuna (per lui) aveva costruito il sogno del «milione di posti di lavoro».

Così, ci pare non sia, anche perché per «ceto medio» comunemente si intendono quei ceti professionali, artigianali e mercantili a cavallo tra i modesti redditi da lavoro dipendente e quelli più consistenti di dirigenti ed imprenditori. Essendo però l'Italia uno strano Paese, gran parte di quei «quattro milioni di partite I.V.A.» dichiarano annualmente di guadagnare meno dei loro dipendenti. In ragione di ciò si deve arguire che il famoso «ceto medio» non possa che essere identificato nei milioni di lavoratori dipendenti, pubblici e privati, i quali in virtù del prelievo fiscale, operato alla fonte, non hanno mai avuto modo di praticare il passatempo nazionale più diffuso: l'evasione fiscale.

Questo Berlusconi e Fini non lo dicono, limitandosi a difendere una borghesia che nel «modello 740» dichiara di far la fame, anche se poi l'ISTAT ci informa, in una sua indagine sui consumi, che in Italia vi sono oltre due milioni di famiglie che annualmente spendono tra annessi e connessi oltre i duecento milioni cadauna, mentre i nuclei familiari con un simile reddito, in Italia, stando ai dati dell'Erario, non sarebbero più duemila.

La Finanziaria del governo Prodi, distinguendo tra redditi da lavoro dipendente e quelli da lavoro autonomo, ha solo tentato di far pagare, certo non con cifre mostruose, anche coloro i quali per anni hanno, grazie anche all'azione lobbystica delle loro organizzazioni di categoria, evaso o eluso le tasse. Qui non si intende generalizzare; non tutti gli autonomi sono evasori fiscali, né tutti gli industriali hanno conti plurimiliardari a Lugano o Vienna e poi risultano indebitati con le banche italiane, così lucrando sia gli interessi attivi sui conti esteri che detraendo dalle tasse gli interessi passivi sui conti italiani.

Ma alfine, se ci è concesso di dirlo, un po' di giustizia contributiva non guasta. E sarebbe stato criminale se un governo nel quale la sinistra ha grande peso avesse permesso ai moderati come Dini, Elia e Maccanico di imporre la «solita» finanziaria fatta di tagli a sanità e pensioni e prelievi in busta paga.

La richiesta di Dini di rivedere in Senato la Finanziaria, preceduta dall'invocazione a Prodi «a non tradire i ceti medi» e i dubbi di incostituzionalità sollevati da Leopoldo Elia, il quale invoca a sostegno della sua tesi l'art. 53 della Carta Costituzionale, secondo la quale tutti sono tenuti a concorre alla spesa pubblica in ragione della loro capacità contributiva, dimenticando, ovviamente, di sottolineare che i lavoratori dipendenti ed i pensionati in virtù degli accordi sul costo del lavoro del '93, pilastro sul quale si è costruito il risanamento della finanza pubblica, quindi anche la chance europea, è costato in termini di potere d'acquisto di salari e pensioni un buon dieci per cento.

Accordi sul costo del lavoro sottoscritti dalle parti sociali, Confindustria e Sindacati, che il governo si era impegnato a far rispettare e del quale il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, costretti a proclamare uno sciopero per il 13 dicembre vista la rigidità padronale, sarà un ulteriore banco di prova.

 

A. De Ambris

 

 

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