da "AURORA" n° 37 (Ottobre - Dicembre 1996)

L'INTERVENTO

 

L'errore di Montesquieu

Agos Presciuttini

 

Calma: il titolo non vuol essere ingiurioso o spregiativo nei confronti del grande filosofo-giurista Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu (Bordeaux 1689 - Parigi 1755). Non vuol esserlo con riferimento alla sua opera prima "Lettere Persiane", nella quale il Nostro si sbizzarrì a mettere in ridicolo i costumi e le istituzioni del suo tempo, cogliendo tanto nel segno che del libro fu vietata la ristampa. Allo stesso modo non vuol essere irriguardoso nel considerare alquanto presuntuosa l'opera successiva, mediante la quale il pensatore credette di avere individuato "Le cause della grandezza e della decadenza dei Romani", argomento ancora oggi né facile né esaurito. È invece nella sua opera maggiore, "Lo spirito delle Leggi", pubblicata a Ginevra nel 1748 (guarda caso, un secolo tondo prima dello Statuto albertino e due secoli esatti prima della Costituzione repubblicana) che il massimo filosofo moderno della politica incorse davvero in una sorta di svista, gravida di postumi effetti.

Il libro aggiornava la classificazione dei sistemi di governo risalente ad Aristotele, distinguendo regimi dispotici, monarchici e repubblicani, secondo il grado di arbitrarietà che il potere vi esercita. Per il Montesquieu, che scriveva in epoca di pieno assolutismo, la forma repubblicana prevarrebbe dove prevale la rettitudine, quella monarchica dove prevale l'orgoglio di classe e il senso dello Stato, mentre il dispotismo sarebbe fondato sulla paura. Anche il clima influirebbe sui regimi: i paesi freddi propizierebbero il sistema repubblicano, quelli temperati la monarchia, quelli caldi il dispotismo. Ma la parte più interessante e più valida dell'opera è, e resta, la tripartizione dei poteri fondamentali dello Stato, il legislativo, l'esecutivo e il giudiziario. Dei quali il filosofo teorizzava la separazione, l'indipendenza e il controllo reciproco: solo in tal modo sarebbe assicurata la libertà dei cittadini.

E fin qui poco o niente da ridire. C'è semmai da aggiungere che la evoluzione delle pubbliche funzioni in senso liberal-democratico, sviluppata in tutto il mondo, più o meno imperfettamente, a partire dal secolo diciannovesimo, è stata principalmente ispirata proprio da "Lo Spirito delle Leggi". E ancora oggi non v'è ideale politico più largamente professato, almeno a parole, della teoria della divisione dei poteri. Tuttavia un inganno c'è. Il termine «potere» può essere inteso nel senso di capacità di governo, legittimazione a governare e simili. Ma può essere inteso inoltre come volontà di dominio, bramosia di arbitrio e anche peggio. Si tratta cioè di una parola gravemente equivoca, il cui uso da parte del Montesquieu, e la di lui autorità intellettuale, ci costringono a parlare tuttora di poteri dello Stato come del concetto più naturale del mondo. Con ciò accettando le varie accezioni del sostantivo, non escluse quelle più negative. Le conseguenze sono tutt'altro che trascurabili.

Peccato.

Eppure non sarebbe stato impossibile rifuggire dall'uso del compromesso vocabolo. Sarebbe stato anzi facilissimo. Bastava dire per esempio funzione legislativa, funzione esecutiva, funzione giudiziaria. I concetti sarebbero risultati non meno chiari e ne avrebbe guadagnato lo stesso termine «funzione», la cui ordinaria banalità si sarebbe nobilitata nel rapporto con le massime incombenze pubbliche. Oltre che funzione si sarebbe potuto dire «servizio» (legislativo, esecutivo, giudiziario): una volta che, come il Montesquieu teorizzava, il potere politico fosse stato imbrigliato e disciplinato attraverso la divisione, le sue attività si sarebbero più chiaramente presentate come volte al servizio della collettività. Ne sarebbe stato anche sottolineato il passaggio di sovranità dal monarca o despota al popolo e la promozione di questo da oggetto a soggetto, a Stato esso medesimo oltre che società nazionale.

Ma a ben vedere c'è un vocabolo ancora più soddisfacente di «funzione» e «servizio», inoltre scevro dal pericolo di apparire altrettanto incolore: «dovere». Non c'è da sospettare che questo nome fosse poco familiare a chi, prima de "Lo spirito delle Leggi", aveva scritto il meno noto "Trattato generale dei doveri". Il dovere in luogo del potere, dunque. Suona anche bene: dovere legislativo, dovere esecutivo, dovere giudiziario. Con tutto quel che di positivo richiama l'idea del dovere, contro tutto quel che di negativo implica l'idea del potere.

Si potrebbe obiettare che un discorso del genere riduce il problema a dimensioni meramente nominalistiche. Si potrebbe obiettare che conta la cosa, non il nome per indicarla, conta la sostanza dei comportamenti del personale che si assume le responsabilità pubbliche, non il termine per designarle. Si potrebbe. Ma non si può ignorare che il treno di qualsiasi attività corre sul binario della cultura (nel senso più generale, che abbraccia tutte le possibili manifestazioni umane). Ne segue che l'operare ispirato da una cultura del dovere non rassomiglia nemmeno lontanamente all'operare guidato da una cultura del potere.

Il succo è allora che se "Lo Spirito delle Leggi" avesse favorito la crescita di una cultura del dovere anziché una cultura del potere, la storia del secolaccio che sta per finire sarebbe stata probabilmente assai diversa. Tanto per dirne una, "Tangentopoli" non avrebbe potuto succedere. Prima ancora, non avremmo avuto una guerra fredda intestina tra due quasi-Stati italiani (?) aspramente divisi su tutto, a cominciare dalla concezione stessa della società e dello Stato. L'uno rivolto a Occidente, l'altro guidato dall'Est: peggio persino della divisione territoriale toccata alla Germania, attraverso un confine vero e proprio, però rigorosamente preciso e ben guardato da ambedue le parti. La nostra è stata invece una divisione subdola, che ha scavato con ferocia nelle coscienze, nei sentimenti e nelle opinioni delle persone, delle famiglie, delle popolazioni, delle istituzioni, della nazione. È strano, ma non pare che si sia indagato finora sui veleni diffusi nella nostra società da un tale flagello, forse più tossico e più devastante di una guerra vera.

Svariate conseguenze materiali sono note anche ai sassi: contestazione e conflittualità sociale, terrorismo, sbandamento e tossicodipendenza tra i giovani, proliferazione delle criminalità organizzate, obliterazione dell'identità nazionale, abnorme sviluppo parassitario della classe partitico-sindacale, attività produttive ridotte a burocratici pascoli della partitocrazia, fisco ottuso e spietato, evasione fiscale più che mai diffusa. Non basta: riformismo dissennato, come l'abolizione dell'autonomia impositiva locale (allo scopo di esonerare amministratori e relativi partiti dalla responsabilizzante, ma scomodissima necessità di equilibrare iniziative di spesa e impopolarità fiscale). E non basta ancora: sintesi e coronamento di tutto, un debito pubblico spropositato, una delle più minacciose insidie mai subite dall'economia e dalla società nazionale, cioè dal benessere generale e dall'avvenire dei giovani.

Ne usciremo, certo, anche perché conclusioni diverse non sono neppure pensabili. Ne usciremo anche mediante una puntuale attuazione del principio della separazione e dell'equilibrio dei pubblici poteri (pardon, doveri!): Parlamento indipendente dalle segreterie partitiche, Governo indipendente dal Parlamento, giudici indipendenti dal Governo e dalle ideologie, pubblico ministero separato dai giudici e dipendente soltanto dalla legge. Ne usciremo, certo, ma ci vorrà pazienza e tempo. Ai nonni di oggi forse non ne resta abbastanza. Ai padri toccherà sudare parecchio per non perdere il terreno finora conquistato col proprio lavoro. Le difficoltà maggiori toccheranno, anzi già toccano, agli innocenti, i figli, costretti come sono ad affrontare la vita in salita. Ma dopo tutto i loro ascendenti mica l'avevano avuta tanto più comoda. Anzi. C'è forse motivo di credere che le nuove generazioni siano di pelle meno dura?

Agos Presciuttini

 

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