da "AURORA" n° 37 (Ottobre - Dicembre 1996)

LETTERE AL DIRETTORE

 

Siderno, 21.10.1996

 

Esimio Direttore,

immagino sia stato il mio lettore Errico a far sì che il mio indirizzo fosse incluso nel fascettario della Sua rivista, e di ciò debbo sicuramente ringraziarlo perché leggo con piacere i Suoi articoli di apertura.

Le scrivo per (...) buttare così, con semplicità, alcune osservazioni.

Fascisti e marxisti partono da fondamenti filosofici parecchio diversi: i marxisti credono nel conflitto di classe, per cui dovrebbero essere in ogni caso degli internazionalisti, i fascisti pensano che l'interesse della nazione, della stirpe, prevalga in ogni caso sul conflitto di classe; pertanto che un esso vada ricomposto nel superiore interesse della collettività nazionale.

Ma appena si abbandona il piano filosofico per quello pratico e propriamente politico, i princìpi vanno da una parte i fatti dall'altra. Stalin che inaugura il «socialismo in un solo paese» e diventa il piccolo padre di tutte le Russie, per esempio, o anche lo spostamento di Mussolini sul piano sociale, tra il '19 e il '44, che non fu una curva ma un vero cerchio, o persino il bonario riformismo del Turati di «salvare l'Italia», che fu la negazione dello statuto del Partito Socialista Italiano. E adesso accade che il patriottismo meridionalista, il patriottismo meridionale, lo sciovinismo meridionale, il risentimento dei meridionali siano sempre meno acqua amara per i sinistrorsi meridionali e sempre più motivo d'esaltazione per i fascisti meridionali.

È cosa strana, ma Le assicuro che è così, e non da oggi.

Quando intorno al '67, conclusa la mia carriera d'imprenditore, passai al giornalismo militante enunciando concetti forse fondalmente immaturi, ma sostanzialmente non diversi da quelli che vado predicando attualmente, pensavo di ottenere il plauso dei miei compagni proletari, invece ebbi quello dei neo-fascisti che uscivano dalla Rivolta di Reggio. Né la filosofia socialista apprezza il nazionalismo, sia pure in versione micro, né la filosofia delle stirpi ammette che esse possano frantumarsi, ma, in effetti, il nazionalismo meridionale sta coinvolgendo i fascistorsi e spero anche i sinistrorsi.

Allora? Internazionalismo e nazionalismo, sul piano antropologico, sono aporie. In effetti la distanza temporale tra il villaggio globale e il paese, la città, il quartiere di oggi, va misurata ancora in secoli, se non in millenni. L'internazionalismo conta attualmente su un solo fattore: le merci di massa. Dietro cui si annidano le voglie dei gran signori del profitto, ed è perciò violento; non meno violento della lancia greca, della daga romana, del cavallo dell'Unno invasore. Ai sinistrorsi bisogna, allora dire che al villaggio globale, allo stato universale è necessario arrivarci secondo ragione, se non vogliamo che siano travolti i popoli disarmati. Contemporaneamente bisogna informare i fascistorsi che l'idea di stirpe-azienda è stata finora costruzione confacente ai capitalismi nazionali e non ai popoli nazionali. Partendo da tali idee e sentimenti, sono pervenuto all'identificazione della nazione funzionale, della formazione economica e sociale identificabile non in virtù del suo passato, della stirpe, dell'unità spirituale, ma dal rovescio di dette cose, principalmente dall'interesse a costruirsi socialmente ed economicamente, senza quelle soggezioni esterne che la rendono praticamente impossibile, in quanto irridentemente i capitalismi esterni le rovesciano addosso i costi del loro benessere.

Le ho inviato un mio (forse presuntuoso) opuscolo, in cui abbozzo una risposta liberalsocialista alla questione sociale mondiale.

Brutalmente Le dico che leggendo "Aurora" mi è sembrato che chi ne scrive gli articoli di apertura è il mio interlocutore possibile, essendo l'obbedienza sinistrorsa tuttora semichiusa agli argomenti da me toccati.

Lei dispone di un giornale, perché non apre una discussione sul tema?

(...) Auguri di buon lavoro.

Suo

Nicola Zitara

 

 

RISPONDE IL DIRETTORE

 

 

Ho l'obbligo, prima di ogni altra considerazione, di ringraziare il dr. Zitara per avermi dato l'opportunità, attraverso la lettura dei suoi libri, di una più completa informazione sulla «Questione meridionale». Né dalla lettura del Salvemini, del Gramsci, del Fortunato, dal lunghissimo elenco di quanti con prosa trillante e dovizia di argomenti si sono occupati della «Questione», si è così drammaticamente e umanamente coinvolti come nello scorrere le pagine da Lei scritte. All'origine della coinvolgente lettura dei Suoi libri vi è il Pathos che la penna trascrive sulla carta solo quando ad impugnarla è la mano di chi ha vissuto con totale coinvolgimento fisico e psichico il dramma della propria gente, del proprio «popolo», al di là della posizione occupata nella gerarchia sociale e delle appartenenze di classe.

Ed è proprio nella componente sentimentale, non sentimentalistica, che certo non inficia ma completa un'analisi che vorrebbe essere marxista, l'originalità della sua opera scrittoria che certo meriterebbe miglior fortuna di quanto, dalla sua lettera, si può dedurre.

Un'analisi, sui mali del Meridione, non contestabile essendo essa sorretta da dati ed argomenti incontestabili. Ma sicuramente, a mio modesto parere, debole nelle soluzioni e conclusioni, tanto da offuscare la lucida, particolareggiata, denuncia delle cause alla base delle drammatiche condizioni del Sud Italia.

Nulla da dire, sulla politica di rapina attuata dallo Stato unitario nei primi decenni della sua storia, anche se v'è da aggiungere, come osservava Francesco Saverio Nitti al termine del suo celebre viaggio, o come riconosce, seppur parzialmente, Lei nei suoi libri, che questa politica di rapina si è spesso intrecciata con l'incapacità dei «Magnogreci» a ritagliarsi una loro sfera di influenza e quindi di autonomia economica rispetto alla invadenza del «potere piemontese». La stessa, ad esempio, che permise agli Emiliano-romagnoli, da Lei efficacemente descritta in "Memorie di quand'ero italiano", di superare il gap tecnologico ed economico rispetto al «triangolo industriale cavouriano» i cui pilastri erano Torino, Milano e Genova. L'esperienza emiliana, nella quale le organizzazioni socialiste ebbero un ruolo centrale e fondamentale (che è tuttora, a mio parere, misconosciuto), ci mostra che le comunità territoriali sono in grado di sopperire alle difficoltà ingenerate dalla latitanza del potere centrale in campo economico attraverso la collaborazione solidaristica dei produttori, magari pagando un alto prezzo alla reazione repressiva di uno Stato che al tempo non concedeva spazio alla nascita di nessuna autonomia economica al di fuori del circuito accumulativo capitalistico di cui esso stesso era solo uno strumento.

Va infatti detto, per onestà, che la situazione economica del Veneto e dell'Emilia Romagna era fino agli Anni Venti molto peggiore che al Sud. Basta soffermarsi sui dati della mortalità infantile o sull'incidenza, nella popolazione adulta, di malattie endemiche come la «pellagra» che falcidiava la popolazione sottonutrita della Pianura Padana. A me pare che il Sud, lo dico da meridionale orgoglioso delle proprie origini, abbia scontato pesantemente da un lato l'eccessivo individualismo, che ha ingenerato fenomeni evidenti di disgregazione comunitaria e, come conseguenza, di polverizzazione sociale, quindi, a dirla marxisticamente, alla mancanza di una coscienza di classe da parte dei ceti subalterni, e dall'altro lato il Meridione ha pesantemente risentito dell'assenza (salvo poche, lodevoli eccezioni) di quella classe borghese a cui Carl Marx assegna un ruolo primario e rivoluzionario nell'evoluzione dell'intero corpo sociale: la borghesia produttiva.

Ruolo rivoluzionario, tanto per restare nell'ambito emiliano-romagnolo che lei esamina nel suo libro, che in questa Regione non si è limitato (in tale ottica il suo apporto è stato quasi trascurabile) all'investimento produttivo che trasformando i rapporti di produzione finiva con l'innescare, per logica reazione, l'unità e quindi le rivendicazioni delle classi subalterne, ma ha svolto anche un ruolo eminentemente educativo ben al di la delle gigantesche figure degli Andrea Costa, dei Massarenti, dei Bentivogli.

Sono stati, infatti, centinaia di avvocati, medici e professori il motore guida della trasformazione emiliana. È stato il loro impegno sociale che ha permesso alle migliaia di mezzadri e braccianti agricoli d'affrancarsi dalla condizione di subalternità in cui il «potere piemontese» li aveva relegati.

Ciò non è avvenuto, per esemplificare, in un'isola come la Sardegna nella quale il «potere piemontese» tentò, in ragione di un più razionale e proficuo prelievo fiscale, il dilatamento del ceto borghese con la mai troppo biasimata «legge sulle Chiudende», la quale espropriava le comunità locali dalle terre d'uso comune regalandole, in pratica, alla borghesia impiegatizia e commerciale col solo obbligo del pagamento annuale dei tributi. Il criminale decreto di Carlo Alberto, al quale le comunità sarde si opposero violentemente con rivolte popolari lungo tutto l'arco dell'Ottocento, non contribuì in alcun modo ad innescare quel circolo virtuoso che, ad esempio, in Germania, fu originato da iniziative del governo centrale del tutto simili. I borghesi sardi, intascata la «roba», accentuarono lo sfruttamento delle classi subalterne, paghi del ruolo, loro assegnato dai «continentali», di ceto dirigente tributario con il potere centrale e parassitario con le comunità locali.

Pensare di risolvere la «Questione meridionale» con mezzi uguali e contrari a quelli che l'On. Bossi va prospettando per la «Questione settentrionale», è l'ennesima illusione, per non dire «errore», delle coscienze più sensibili del Sud. I nodi veri, che occorre tagliare di netto, visto che oltre un secolo e mezzo non è bastato a scioglierli, sono quelli, per dirla con Antonio Gramsci, «culturali», per questi intendendo una «certa» mentalità meridionale. Mentalità: ossia modo di essere e di porsi nei rapporti intercorrenti tra essa, il governo centrale e le altre componenti della comunità nazionale. Il primo vero limite allo sviluppo economico è dato dall'eccessivo individualismo, dalla tendenza innata, intollerabile oltre certi limiti, dei meridionali a privilegiare il loro particolare, rifiutando comportamenti «attivi» che non abbiamo quale centro motore al mero interesse personale. Questo ha permesso, alla Democrazia Cristiana prima e al Socialismo affaristico poi, un radicamento elettorale senza il quale il loro potere sarebbe stato messo in discussione ben prima di Tangentopoli. È stato l'assistenzialismo, via via tramutatosi in clientelismo, a cui i Meridionali hanno di buon grado soggiaciuto, che ha portato alle degenerazione una già pesante condizione di arretratezza economica e sociale le cui cause Lei ben individua nello sfruttamento neo-colonialista del governo piemontese.

Il nazionalismo meridionale non e una risposta, anzi, personalmente, lo giudico solo un diversivo atto ad eludere i problemi veri od a posporre la sfida che il Meridione deve urgentemente ingaggiare prima di tutto con sé stesso, con i propri limiti, le proprie ipocrite lamentazioni, la sua incapacità di mettere a frutto le potenzialità della sua gente (che ha dato prova, una volta sradicata dalle regioni di origine, di creatività e capacità realizzativa stupefacenti).

In quest'ottica, nell'Italia meridionale, i «signori di partito» sono stati e sono ben più deleteri dei «signori del profitto», anche se, a ben vedere, sono la stessa cosa.

Diversamente da Lei sono convinto che la stirpe-azienda sia una posticcia costruzione più che dei capitalismi nazionali del capitalismo tout court che com'è noto ha mille sfaccettature, non ultima quella delle «macroregioni» economiche, cavallo di battaglia dei suoi esegeti più agguerriti di questo fine Millennio.

Anche per questa ragione penso che l'Italia non possa essere divisa tra un Nord e un Sud economicamente e politicamente autonomi, anche al di là delle considerazioni sentimentali (mi sento e sono convintamente solo un italiano) sono proprio le ragioni economiche a deporre a favore di una Unità Nazionale che, fatte salve le ingiustizie o le giuste recriminazioni dei meridionali, rimane un dato positivo che va strenuamente difeso. La separazione tra Nord e Sud, alla quale si sono vocati ben noti circoli politico-economici d'oltralpe, darebbe forma a due entità statuali deboli, entrambe facile preda di quel colonialismo economico di rapina che Lei nei suoi libri così incisivamente descrive.

 

Luigi Costa

 

 

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